Anima còrsa

Pochi mesi dopo la morte di Béatrice, sono in Corsica, nella torre incorniciata dalle montagne, un luogo che lei amava moltissimo.

Le tende della stanza sono chiuse; la penombra mi ha invaso il cervello.

Ieri ho cominciato a dettare qualche parola, ma il registratore non ha registrato nulla. Dietro gli occhiali da sole ho pianto di fatica, di tristezza, di rassegnazione. È venuto il cugino Nouns. Ha cercato di farmi ridere, di farmi parlare dei voli da seduto, malefatta che ho ripetuto il mese scorso. Sono inchiodato alla mia tristezza, gli occhi che mi bruciano. Mi addormento. Una brezza fredda scende dalla montagna e mi sveglia. Si ode una campana: la vacca di un vicino. Chiamo. Françoise, la custode, arriva borbottando. Non ho nemmeno la forza di parlarle di Béatrice; lei aveva organizzato tutto per la sua ultima messa qui, ad Alata, mentre noi la seppellivamo nel continente. Le propongo di rivedere insieme le foto, mi parla delle testimonianze di affetto; lo so, Françoise, che ti sei trasferita qui una ventina d’anni fa, dopo la morte della tua unica figlia; sostieni che questa è stata la tua ancora di salvezza, questa solitudine nella montagna còrsa. Trovo il tutto doloroso. Mi porti una bottiglia di un liquore fatto da te a base di noccioli di pesca, di alcol e di vino artigianale. Béatrice e io lo bevevamo con gran piacere; stasera sento solo l’amaro dei noccioli. Contempliamo insieme la vallata. Due poiane volteggiano all’orizzonte, devono aver trovato una corrente ascensionale. Anche la vacca smette di ruminare. È la pace della sera. L’acqua della fontana gorgoglia. La luce si fa tremolante. Alcune centinaia di metri più giù c’è la cappella di famiglia, di cui andavo così fiero. Dicevo che era bello sapere dove avremmo trascorso la nostra eternità. Facile a dirsi.

I battiti del cuore mi affollano la testa. È insopportabile. Ho la pressione altissima, sono ricoperto di sudore, non so più cos’ho, avrei voluto non soffrire, parlare di Béatrice, addormentarmi nella tranquillità di questa montagna. Ho una crisi dopo l’altra. Céline si siede ai piedi della sedia sulla quale mi agito. Propone di leggermi il romanzo che ho voluto cominciare: La quarantaine di Jean-Marie G. Le Clézio. Scosso dalle convulsioni, riesco a sentire passi in cui si parla di Rimbaud, Verlaine, Longfellow. Quanta responsabilità ha il caso in tutto ciò che ci capita!

Chiudo gli occhi, Céline mi resta vicino. Riprende a leggere il suo romanzo da metropolitana. Mi calmo; la presenza di una ragazza, per quanto possa essere lontana da Béatrice, ha effetto su di me. Potrebbe prendermi la mano, non mi arrabbierei. Abdel mi ha dato qualcosa per farmi addormentare; mi assento senza accorgermene. Sprofondo. Mi sveglia il mio rantolo. A poco a poco distinguo i rumori della casa, il trambusto dei bambini; l’avevo dimenticato. Di colpo, il mondo mi riappare attraverso il mio rantolo roco e bruciante. Non ho il coraggio di chiamare, per paura di creare una nota stonata in questo allegro formicaio. A poco a poco riaffiorano le ultime immagini della notte. Abdel mi sposta sul letto. Fa un movimento sbagliato, sento che cado all’indietro; ho paura di andarmene per sempre. Non mi resta che la testa, e non ho niente per proteggerla. Abdel si puntella per attutire la caduta, ma io sento la testa sbattere contro il pavimento. Dal rumore dell’impatto capisco che non è l’ultima volta. Mio cugino Nouns arriva a dare man forte col suo solito buonumore; mi guarda, sdraiato di schiena, le gambe ancora aggrappate alla sedia: «Non è il momento di andarsene a gambe all’aria!» Sono talmente lontano da tutto che non capisco cosa voglia dire. Rido piangendo. Mi raddrizza, mi sdraia sul letto e io sprofondo nel materasso antidecubito. Vorrei annegare. Abdel prova una nuova manovra per tirarmi su a sedere. Sarebbe stato meglio non farlo. Le braccia, prese da sotto le spalle, volano per aria; due dita mi esplodono come frutti maturi, il sangue cola, macchiando l’intonaco ruvido della parete. Piango, non sento niente, non ho male, piango, non mi appartengo più, questo corpo si disintegra. Non posso farci niente.

Vorrei cominciare a parlarti, Béatrice, ma l’angoscia mi travolge. Ho l’impressione di essere indesiderato quaggiù, di dovermi ritirare. Morirò, solo, su questo letto. Sento di nuovo scoppiare la testa; non mi va di andarmene subito. Controllo il mio respiro strozzato. Mi sforzo di espirare quest’aria che mi si accumula nei polmoni. Gli spasmi si fanno costanti, sono rigido, intirizzito, come se fossi già morto.

Abdel mi veste. Gli chiedo di sistemarmi sotto il tiglio vicino alla fontana. Incorniciando il paesaggio, due acacie rifioriscono dopo l’incendio di tre anni fa. Di tanto in tanto si sente il rumore di un martello: gli operai lavorano al restauro del castello.

In un secolo, l’aria di mare ne ha sgretolato i muri; il fuoco l’ha lambito diverse volte fino a quando, nel 1978, l’ennesimo incendio ne ha fatto crollare il tetto. Sono intervenuti i Canadair, inutilmente. Centinaia di pompieri hanno cercato di salvare il resto del monumento. Tre di loro sono stati accerchiati dalle fiamme. Il più giovane ha provato a scappare, i due più esperti si sono addentrati nell’edificio. Di lì a poco il giovane è stato sopraffatto dalle fiamme. È morto a poche centinaia di metri dal punto in cui mi trovo ora. Sul ciglio della strada, più giù, si intravede la targa in sua memoria. Da allora il 7 agosto di ogni anno si tiene una cerimonia con la fanfara del paese, i pompieri, il sindaco, le altre autorità e la famiglia. Povero vigile del fuoco, che giaci tristemente sul ciglio della strada dei duchi Pozzo di Borgo; tu te ne infischi che uno di loro stia pensando a te. Avresti preferito vivere. E invece sei rimasto incastrato tra i Pozzo sopravvissuti della torre e i Pozzo morti della cappella.

Un campanaccio mi risuona nelle orecchie. Tra questo rumore e i miei deliri non so cosa resterà impresso nel registratore. Intuisco che la vacca si trova proprio alle mie spalle, ma non posso girarmi. Immagino che se la rida, vedendo questo invalido che parla da solo. Non preoccuparti, vecchia mia, un giorno ti acciufferemo!

I morti della nostra montagna sono dappertutto. In lontananza passa un elicottero militare. È dello stesso tipo di quello che m’è venuto a cercare qualche anno fa, mentre ero in volo con il parapendio. La famiglia faceva un picnic sulla spiaggia. Avevo deciso di raggiungerli in parapendio partendo dalla Punta, appena sopra il castello. Non conoscevo la topografia dei luoghi; vedevo una punta e immaginavo di poterla sorvolare per ridiscendere verso la spiaggia. Mi sono lanciato alle sei di sera in calzoncini, canottiera e scarpe da tennis. Mi sono schiantato dietro la Punta, in una macchia alta tre metri. Ho ripiegato la vela e mi sono inerpicato su per la boscaglia seguendo delle tracce che sembravano quelle di un cinghiale. Pensavo di lanciarmi di nuovo dalla cima successiva ma, dopo aver girovagato per un’ora, mi sono ritrovato su una punta che palesemente non si affacciava sulla spiaggia che stavo cercando. Era troppo tardi per fare marcia indietro. Non mi restava che passare la notte nella macchia, tra le rocce, avvolto nel parapendio.

Seppi poi che Béatrice aveva chiamato la polizia. «Quanti anni ha suo figlio?»

«È mio marito!»

«E allora perché ci chiama? Non è mai successo che suo marito rientrasse all’alba?»

Ha continuato a insistere e le hanno detto di richiamare verso le sei del mattino. A quel punto hanno mandato un elicottero a soccorrermi. All’ospedale hanno controllato che non avessi riportato fratture e che i tagli che m’ero procurato fossero solo superficiali. Hanno avuto anche l’accortezza di riportarmi a casa. Ho fatto di corsa una doccia, ho indossato giacca e cravatta e sono andato a una riunione con il presidente della società, a Parigi. Ho avuto appena il tempo di vedere Béatrice, spossata da una notte di veglia. Ha rischiato di soffocare mentre l’abbracciavo dicendo: «A domani, mia cara».

*

Stasera mi chiudo in me stesso. Cerco di percepire i confini del mio corpo attraverso il dolore: la testa sta abbastanza bene, anche se è un po’ compressa, il viso e il collo prudono per le allergie, le spalle sono cronicamente contratte. Quella di destra soffre di una decalcificazione dovuta al trauma della caduta. Per sei mesi hanno tentato di curarla con delle iniezioni di calcio che ogni sera mi procuravano febbri e nausee, prima di rincretinirmi. Il medico ha detto: «Lei deve aver fatto proprio una brutta caduta». Era una battuta o la considerazione distaccata di uno specialista che non vede al di là delle proprie radiografie? Questa spalla a volte mi fa soffrire da morire. Quando capita, nessuno può toccarmi. Non respiro più, chiudo gli occhi, so che passerà, che devo aspettare un minuto o due. Non è importante, abbiamo passato di peggio. «Sì, sì, passa, ve l’assicuro; no, non toccatemi, non toccatemi la spalla!» Tutti i nervi mi vanno in tilt a partire dalle spalle. Ci sono attimi in cui brucio al punto che chiedo di essere lasciato al buio. Penso alla vergine folle di Rimbaud: «Soffro sul serio, Signore, un po’ di frescura, per favore».

Ho letto nella Bibbia: «Donami la forza di lottare contro le sofferenze che posso sopportare; donami la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare, e non dimenticarti di donarmi la saggezza di sapere distinguere le une dalle altre».

*

Sono sdraiato nella notte della mia stanza, attraversata dal rassicurante odore dei preparativi in cucina. Domani riceviamo quaranta còrsi della montagna; da parecchio i Pozzo non ricevono come dei signori. Abdel s’è fatto carico dell’organizzazione; ha previsto un montone allo spiedo. Nel primo pomeriggio è sceso a scegliere un montone da un pastore qui vicino; sorpreso dalla magrezza del gregge, ha ripiegato su una femmina di trentadue chili. Ritorna, scarica la bestia. Ha tre zampe legate, la quarta è libera. Va a cercare i coltelli. Non sono sicuro di voler restare. Penso a Béatrice; l’ho vista in quella pecora; ho visto me stesso in quella pecora. Lei condannata, io paralizzato. La bestia cerca di strisciare sul pavimento con la quarta zampa, ma non riesce che a ribaltarsi. Quante volte ho sognato di sfuggire alla mia paralisi? Quante volte mi sono sognato sano, che sollevavo Béatrice dai suoi letti d’ospedale per riportarla da me, nel nostro letto, e lei mi si spegneva tra le braccia! Il macellaio l’ha tenuta fino alla fine. Le ha dato il colpo di grazia. Come ha potuto sopportare tante torture senza lamentarsi mai? Per tutta la vita ha lottato contro i medici, contro il loro potere.

Con un colpo netto, Abdel sgozza la pecora dopo averle palpato la carotide. Il sangue sgorga, rosso chiaro, come succo di fragola. Ritrovo il respiro di Béatrice degli ultimi giorni; l’hanno ucciso prima che me ne rendessi conto. Di lui non resta che questo respiro irregolare; gli occhi sono chiusi; le membra non si muovono; non c’è che questo petto oppresso che si solleva a scatti brevi, brutali. Segue un lungo istante di immobilità.

Abdel annuncia che tra un minuto la bestia farà i suoi ultimi scatti. La zampa libera si agita in tutte le direzioni. Io e Abdel constatiamo che si tratta di contrazioni: la parola che si usa per i movimenti ritmici e incontrollati delle membra. Un’ultima contrazione, veemente, e Abdel, sicuro di sé, slega le altre tre zampe e con una corda appende l’animale sopra un telone. Va a cercare Françoise per le foto di famiglia. Siamo riuniti sotto il tiglio, vicino alla fontana. Françoise ci fa una foto, Abdel, la pecora e io. Infila uno stelo lungo una zampa, tra la pelle e la carne. Soffia dentro il buco come fosse una cornamusa; la bestia si gonfia, triplicando di volume. L’operazione finisce, Abdel chiede a Françoise di passargli una cordicella per chiudere l’apertura della zampa, e attacca a battere l’animale. Il rumore secco riecheggia sulle mura della torre: quanto accanimento! Dopo avere «stancato» la bestia, Abdel prende il coltello e la scuoia; in meno di dieci minuti l’ha denudata. Non resta che svuotarla e recuperare le frattaglie da cuocere con le verdure; è questo l’odore acre che si diffonde nella mia stanza stasera.