Le Sanguinaires

Sdraiato sulla schiena, nella stessa posizione da quasi tre giorni, ho smesso di soffrire. Tengo gli occhi chiusi. Sento martellare in lontananza. Non ci posso credere: non ho più male. Alle sette chiamo Abdel; si alza come un automa, non dorme da tre giorni. «Abdel, metta Schubert, per favore»; fatico a respirare; che importa, non ho più male. Abdel mi serve la colazione.

«Abdel, le dispiacerebbe leggermi un salmo, per favore?» Dio è buono, c’è un percorso di congedo per coloro che soffrono. Non lo so, sono spossato. Fatico ad afferrare parole così certe del proprio significato.

Giovedì sera comincia la festa. Ceniamo, poi ci riuniamo nel gigantesco salone per ascoltare i cantori di Alata. Nei loro canti c’è una gran pena. Sonorità arabe, note acute e voci bassissime rispondono alle vibrazioni della montagna e alle urla delle poiane che la sorvolano vorticosamente. Sono stanco, ma non riesco a decidermi a lasciare la sala. Cantano per me, per Béatrice. Gli ho chiesto di cantare il Salve Regina, i dolori della Vergine. Le voci si levano e io mi chiudo in me stesso. Béatrice adorava questo canto. Cantano guardandomi, la mano sinistra contro l’orecchio. L’emozione mi spossa. Se ne vanno, non ho assaggiato quasi nulla, non ho parlato, non ho ascoltato niente tranne questa polifonia còrsa. Un pastore mi stringe la mano, inchinandosi. È notte fonda, Abdel mi mette a letto, tremo di febbre. Dormo poco.

Per la prima volta dal mio arrivo in Corsica – sono già passati dieci giorni – decido di accompagnare i bambini in spiaggia. Mia cugina Barbara, suo marito Philippe e i loro sei figli sono al solito posto dei Pozzo, una cala che occupano da trent’anni. Barbara ricama all’ombra della tettoia, come Granny vent’anni fa. Passa il pomeriggio sorvegliando le truppe. Mi metto accanto a lei. Rivedo le spiagge della mia infanzia.

Il mio amico François è rimasto paralizzato per colpa di un’onda piccola proprio come queste. Faceva il bagno con i figli piccoli e la moglie; i bambini giocavano in acqua. Un’onda un po’ più forte delle altre li ha spinti. Si sono rialzati tutti con grandi risa; tutti tranne François, rimasto con la faccia sott’acqua. Hanno pensato che scherzasse. Quando si sono accorti che non respirava più l’hanno portato a riva: aveva la prima e la seconda vertebra cervicale fratturate. Grazie alla fede e all’amore dei suoi ha resistito sette anni senza muoversi dal letto. I medici non ci credevano.

Poi è morto.

Alzo lo sguardo verso l’orizzonte. Le isole Sanguinaires si stagliano contro il cielo. La storia vuole che prendano nome dagli appestati, i «sangue nero», che venivano portati lì durante i quattrocento anni di dominazione genovese, dal quindicesimo al diciassettesimo secolo. Un’altra leggenda racconta che la luce del sole al tramonto colora le isole di rosso sangue. Penso a te, Béatrice. La dama fredda ha trascinato gli appestati su quegli isolotti. Loro sono stati messi al rogo e le loro ceneri disperse su quella terra riarsa e sterile.

Barbara alza la testa dal ricamo. Assicura la successione, la continuità. È tutto a posto. «Non preoccuparti, cuginetto, la ritroverai». Guardo Abdel che gioca coi bambini sulla spiaggia; Laetitia si concede alla morsa del sole. I suoi capelli sono neri e lucidi, la pelle bianca. Adesso è una donna. Il branco di Barbara ha un fremito.

Li ritroviamo stasera sulla grande spiaggia di Capo di Feno.

Abdel mi carica sulla macchinina elettrica. Robert-Jean si infila dietro di me per sostenermi nelle curve. Raggiungiamo il capanno di Philippe su una spiaggia immensa, bella e pericolosa. L’improbabile ciurma mi trasporta sulla sabbia e mi mette a sedere a un capo del tavolo. I bambini fanno il bagno nudi in un mare tutto per loro. Mi lascio andare al torpore della risacca. È scesa la notte; mi rannicchio nella sedia. Delle ragazze mi salutano sorridendo. Mi assopisco fino a quando i bambini non vengono a sedersi intorno al lungo tavolo sotto le palme da cocco. Il cugino Philippe prende in mano la situazione. Per noi, spaghetti al polpo – il polpo è stato pescato lì, questo pomeriggio – e un vinello dell’entroterra, senza etichetta. I bambini s’abbuffano allegramente. Il giovane François è stato esiliato in fondo al tavolo. Ha il broncio. Gli faccio segno di venirsi a sedere tra suo padre e me; farfuglia qualcosa con la erre moscia e il suo gran sorriso; è il più delicato dei figli di Barbara. C’è Marie con il gergo dei suoi sedici anni; Titou, il più piccolo, dagli occhi rotondi; Joséphine, di cui è innamorato Robert-Jean come tutti lo siamo stati di sua madre. I bambini si alzano da tavola per prendere un cono gelato e sparire nella notte. Quante volte siamo venuti qui con Béatrice! Ci passavamo le notti, soli. Lei era felice. Al calduccio, ci svegliavamo di tanto in tanto con la risacca.

Verso mezzanotte riprendo a tremare violentemente. Faccio segno ad Abdel che è ora di levare le tende. Mi richiudo in me stesso. Ho dolore. Ne ho avuto uno così l’anno prima, con Béatrice. Adesso però sono solo. Un dolore stupido, meccanico: un «blocco vescicale». Il catetere si blocca, l’urina viene respinta dentro le reni, nel sangue. Ti sale alla testa e tu esplodi. È idiota. È così che Béatrice è morta in tre giorni. Resisto cinque minuti, poi mi lascio andare, urlando come un animale.

Il cervello mi scoppia. Non vedo più niente, soffoco. Per tre ore, Abdel litiga con le «tubature». Di tanto in tanto il catetere si libera, la pressione scende, il cervello respira. Comincia a farsi avanti l’idea che tutto è finito, fino a quando una nuova scossa mi annichilisce.

Abdel passa la notte a purgare con delle siringhe lo sporco dalla mia vescica. La mattina sudo, il letto è bagnato, i dolori ritornano. Voglio raggiungere Béatrice, non reagisco più. Abdel chiama un’ambulanza. Non c’è soluzione, bisogna aspettare, subire, non ribellarsi, riprendersi quando c’è una tregua, lasciarsi andare quando torna la crisi.

In ospedale c’è un solo medico per il fine settimana. È il caos. Le infermiere sono contente di avere un Pozzo. Negli anni sono state ricevute al castello, e via dicendo. Il medico parla di operare, Abdel fa resistenza passiva. Mi mettono in osservazione. Non smetto di sudare a grandi gocce. Alle otto, nuovo allarme. Il medico mi rimanda in ambulanza sui monti. Abdel mi mette a letto. La notte è terribile. L’indomani mattina esitiamo più volte prima di tornare in ospedale. Infine Abdel chiama perché ci diano un catetere di diametro maggiore. Sudo sempre, ma rimane una condizione sopportabile per una buona mezza giornata.

Nel frattempo arriva mia sorella Alexandra con suo figlio. Resto a letto, non sono in grado di accoglierla. Alle due del mattino ho un attacco improvviso. Non ricordo di aver mai sofferto così tanto, un dolore inutile, come quello di una donna che partorisce un bambino morto.

Per il nostro primo figlio, Béatrice serrava le mascelle dal dolore e dalla rabbia. Io urlo. Alexandra si sistema in una stanza in cima alla torre. Laetitia è con lei e singhiozza. Abdel impedisce a chiunque di entrare nella mia stanza. Si dà da fare per sbloccare la situazione. Un’ora dopo sono libero. Tremo tutto, non riesco nemmeno più a chiudere la bocca. Abdel è preoccupato, non riesco a parlare, cerco di evitare di mordermi, con tutto questo tremare. Respiro a scatti. Ci vogliono diverse ore prima che il mio corpo rinsavisca. L’indomani mattina, Abdel mi lascia dormire. All’una, come previsto, arrivano i nostri cugini di Bastia. Chiedo ad Abdel di mettermi seduto.

La Corsica è alla deriva, dice Antoine. La cosa lo rende triste. Seguo la conversazione in modo distaccato. Alexandra lo ascolta. La cosa mi permette di riposarmi in questa maledetta sedia a rotelle, dietro il cappello e gli occhiali da sole, avvolto in una djellaba. Mi gira la testa, grandi gocce scorrono sotto il cappello. Hélène, la moglie di Antoine, lo fa notare. Ci tengo a restare comunque sino alla fine, per rispetto dei miei amici del Nord. Hélène è una donna delicata, un viso grazioso poggiato su un collo magro e allungato; qualche anno prima ha subito un intervento alla mammella che l’ha guarita dal cancro. Ha seguito gli ultimi mesi di Béatrice con coraggio e compassione. Guarda il mondo coi suoi occhi profondi. È bella e silenziosa. Suo marito analizza la situazione gustando il cinghiale còrso preparato da Françoise.

Aspetto lo scalpellino. Vorrei che la lastra provvisoria sulla tomba di Béatrice venisse sostituita con un marmo rosa della Corsica. Lo scalpellino arriva, con la sua testolina rinsecchita, la sua grande barba rossa e il suo carattere eccentrico. Sono ventott’anni che si occupa di pietre tombali. La sua serenità e il suo senso dell’umorismo portano una ventata di freschezza. Gli parlo dei miei ricordi di bambino, dei suoi colleghi di un tempo, fuori dal cimitero marino di Ajaccio. All’epoca erano in una cinquantina, a farsi concorrenza. Oggi lui è l’ultimo rimasto in Corsica. Ne va fiero, ma non tramanderà il suo sapere al figlio: «Tagliare pietre è un mestiere senza futuro».

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Alla fine la lastra provvisoria verrà rimpiazzata da una composizione a mosaico realizzata su mia richiesta da mia sorella Alexandra. Raffigura dei crisantemi gialli e degli iris viola, l’assortimento preferito di Béatrice.