Pater noster

Padre nostro che sei nei cieli

Restaci.

E noi resteremo in Terra

Qualche volta così bella

Jacques Prévert, Pater Noster

Una brutta infezione polmonare impediva all’ossigeno di irrorare il cervello. Ho perso i sensi. E come sempre al risveglio da un mancamento, la testa ricomincia a funzionare delirando; ho fatto una deviazione in paradiso.

Mi sono ritrovato in un letto d’ospedale, credo a Garches. «Ah, finalmente è tornato sulla Terra!» esclama Abdel. «Sono cinque giorni che delira; proprio un bello scherzo! Era del tutto partito, e tra lei e le sue due vicine qui sembrava una gabbia di matti!»

Le due non tardano a manifestarsi con un vivace battibecco. Una è inchiodata al letto, ed è la più maligna, l’altra invece fa la povera bambina e viene di continuo a sollecitare il mio aiuto. Le manca qualche rotella, non capisce che non riesco a muovermi. Prese insieme arrivano quasi ai due secoli d’età. Io brontolo: «Quanto andrà avanti questa solfa?»

Dice che non riesce a camminare: «Mi stanco!»

«Ognuno ha i suoi problemi».

Oggi posso sedermi sulla carrozzella e vedere l’altra donna. Non è facile distinguerla sul letto, circondata da sbarre che le impediscono di raggiungere la vicina con la sua volontà omicida. Non ha volto, solo un cranio con una zona infossata, i capelli sono ancora folti. Distesa su un fianco, gli occhi puntati sulla porta d’ingresso, si esprime in una lingua misteriosa. La mia vicina dice che è la lingua del diavolo. La voce, rauca e tesa, certamente non è umana; è nuda ed emana follia per tutta la stanza.

Cerco di spiegare alla mia vicina che non bisogna criminalizzarla; dietro ogni aggressione, per quanto incomprensibile, c’è un essere che soffre. Ma è tempo perso. Fa impazzire le infermiere. Svolge ogni sua attività organica, comprese le più naturali, urlando con un tale furore che dopo ci vuole un’ora per riportare la stanza alla normalità. Sì, è pazza, e comunque molto sola. L’altra, novant’anni almeno, continua a ripetere: «Non ne posso più, non riesco a camminare, mi sento troppo stanca, che cosa posso fare ora, caro signore, vieni a vedere, vieni due minuti, due minuti, vieni…»

Non ha ancora capito che sono paralizzato; chiamo Abdel, che l’allontana. A volte si passa una mano sul viso, sembra piangere, poi rientra in camera: «Che ne sarà di me?»

Allora torna a essere una bambina piccola, tutta sola e indifesa; come si può lasciare in questo stato un’anziana?

«Abdel, mi faccia uscire da qui!»

Non mi avranno, neppure questa volta! Sono quasi vent’anni che resisto. Avrei diritto a un posto nel Pantheon dei tetraplegici. Eppure non è merito mio.

– Sono molto fortunato a non essere finito in un istituto specializzato. Come si può sopravvivere quando si è circondati giorno e notte dalla disperazione di altri disabili gravi, quando li si sente singhiozzare, gridare, passare senza alcuna reazione davanti a una camera che qualcuno sta disinfettando?

– Il dolore nutre la mia collera, non riesco a placarmi con tutto questo malessere.

– È sempre presente una donna eccezionale. Béatrice, abbandonata sull’ultimo vascello che risale il fiume, le compagne, Clara, e Khadija per quanto riguarda il vicino Oriente.

– I figli: i due più grandi, Laetitia e Robert-Jean, poi Sabah, «l’aurora», e l’ultima, la nostra piccola Wijdane, «anima profonda».

– Abdel, il traghettatore tra la riva del fiume e la costa oceanica.

Amo anche il sapore del caffè la mattina, a colazione.

Per i miei sessant’anni Khadija ha organizzato una festa a sorpresa nella casa di Essaouira. Ha predisposto tutto in modo che io arrivi da Marrakesh dopo gli invitati, che saranno un centinaio. I miei figli, mia madre, zia Éliane, la suocera Lalla Fatima con i suoi parenti, Anne-Marie, la famiglia còrsa, gli amici francesi e marocchini, Yves e Max, miei compagni di parapendio, Abdel, e infine Éric e Olivier, i registi del film.

Stanco per il viaggio e l’emozione, improvviso un discorsetto per ringraziare i presenti e i nostri amici pianisti che ci regaleranno una magnifica serata musicale.

«Dolce sposa,

prima di tutto un pensiero per chi ci ha lasciato: la mia cara suocera che aveva saputo prendersi cura con tanto coraggio di sua figlia Béatrice, Granny, mio padre il duca, che se ne è andato dopo aver conosciuto la sua nipotina Wijdane.

Sessant’anni! Avevo dimenticato. Non si mescolano carne e ‘vegetali’ – questo è un gioco di parole di Abdel – quindi sono quarantadue anni da normale e diciotto di invalidità, e questi ultimi valgono sette ciascuno, come per i cani. Fate voi il conto!

Ringrazio Abdel che mi ha aiutato quando sono uscito dall’ospedale, vent’anni fa. Molto presente nel periodo della morte di Béatrice, mi ha accompagnato in quegli anni difficili, insieme ai miei figli, salvandomi la vita numerose volte, sino a portarmi in Marocco, dove ho avuto la rivelazione di Khadija.

Ho ritrovato il gusto della felicità».

Abdel è il diavolo custode trasformatosi, dopo tanto vagare, in un improbabile sostegno alla mia vita. Questo desperado, ostile a tutti, ribelle a tutto, oggi è sposato e padre di tre figli. Ha fondato una ditta dove si toglie il gusto malizioso di ingabbiare tutti quei polli che per troppo tempo l’hanno fatto correre.