Le cappuccine di Rivière-du-Loup
Va sempre peggio. L’inverno parigino si allunga dolorosamente. Ho il viso gonfio per l’allergia e il morale sotto i piedi; non riesco ad alzarmi dal letto, le tende nella stanza restano tirate. Solo la musica riesce a penetrare il mio spirito inerte, senza più orari, senza più visite. Il testamento musicale di Richard Strauss, i suoi ultimi quattro Lieder, ripetuti incessantemente, è celestiale. Abdel avverte il cugino Antoine, sempre presente nei momenti difficili. Sicuramente piango; ma male. Me ne sono dimenticato. Abdel mi copre con un panno bagnato, una borsa del ghiaccio sulla testa. Mi sento mancare.
Antoine consulta il gruppo degli amici e propone un ritiro alla foce del San Lorenzo, in un piccolo monastero vicino a Rivière-du-Loup, in Quebec, tenuto da monache cappuccine.
«Con quindici giorni di agapeterapia, cioè di ‘terapia dell’amore’, dal greco, l’individuo si libera da ferite e macchie del passato, di qualsiasi natura siano, in un clima di pace, discrezione e condivisione» precisa Antoine (e Abdel si frega già le mani).
«Abdel, stiamo parlando di un’esperienza spirituale, sia ben chiaro».
«E vai con le cappuccine!» esclama entusiasta.
Ho informato le cappuccine della presenza di un infedele, indispensabile durante il mio soggiorno.
Un’emittente televisiva canadese di credo evangelico che festeggia i dieci anni d’attività mi ha invitato a intervenire in una trasmissione. Mi avevano già intervistato a Parigi. L’intervista, assai critica rispetto ad alcune posizioni dei cattolici, era stata replicata più volte in Canada: l’aristocratico tetraplegico chiuso nel suo bel palazzo e dal parlare forbito aveva fatto colpo. Confermo la mia presenza alla loro trasmissione, la cui data coincide con la fine del nostro ritiro nel monastero.
Durante il volo Abdel si fa servire ben tre pasti.
Al nostro arrivo a Montreal lo incarico di noleggiare un’automobile; lui torna con la cosa più grossa che è riuscito a trovare, una Lincoln Continental, cioè una limousine dai vetri fumé. Nevica sulla città e noi dobbiamo trascorrervi una notte. Abdel propone di cenare sul viale più frequentato; individua un Kentucky Fried Chicken, si abbuffa di pollo e sbircia le pollastrelle che passeggiano sul marciapiede. Gli proibisco di farsi riaccompagnare in albergo da una di loro e mi risponde, offesissimo, di non aver mai dovuto pagare per certe prestazioni.
Il giorno dopo, partenza all’alba per percorrere mille chilometri a passo di lumaca. Abdel inserisce il regolatore di velocità e sonnecchia per tutta quell’interminabile autostrada. Ci troviamo ora su una provinciale innevata che costeggia il San Lorenzo; si è fatta notte e Abdel si è perso, perché non capisce le indicazioni degli autoctoni. Alla fine, dal nulla, a strapiombo sul fiume, sbuca un lungo edificio in legno. Parcheggiamo e una vecchia suora cappuccina, vede Abdel?, il cui ordine impone voti di povertà, e di castità Abdel!, ci accoglie in saio e sandali in mezzo alla neve. Vi sono altre vetture parcheggiate, più modeste; la monaca sembra sorpresa dalla nostra vettura e dagli occupanti. Abdel apre la carrozzella e mi estrae dal sedile; momento di panico della santa donna quando sono colto da una serie di spasmi muscolari. La madre superiora non ha mai avuto a che fare con pellegrini della nostra confraternita; annuncia le regole da osservare rigidamente: silenzio, ala riservata alle donne, e qui lancio ad Abdel uno sguardo eloquente, e orari. La camera di Abdel è sormontata da un cartello: «Qui abita Dio».
«Normale» commenta Abdel. La faccenda non inizia sotto i migliori auspici.
Il programma della giornata è spartano: sveglia alle sette (per noi alle cinque e mezzo), e luci spente alle dieci e mezzo di sera.
Abdel si annoia; non sa più a che santo votarsi, o a che seno poppare, come direbbe lui. Il luogo è isolato, la neve alta, e la visibilità ridotta da una densa nebbia che durerà per tutto il nostro soggiorno. Non osa quindi allontanarsi più di tanto, anche per timore che io possa avere dei mancamenti, cosa che succederà a più riprese. Di giorno ammazza il tempo e di notte corre la cavallina. Non sono certo i divieti e le porte chiuse a fermarlo.
Noi «pazienti» siamo circa una cinquantina. Sin dalla prima riunione mi rendo conto che questi uomini e queste donne di tutte le età sono degli invalidi della vita. Dietro un’apparenza «normale» si nascondono drammi che risalgono spesso all’infanzia: incesti, pedofilia, a volte subita da parte del parroco, stupri e altro ancora. Ho visto gente anziana sciogliersi in lacrime: ci erano voluti più di cinquant’anni per riconoscere la propria ferita. Resto colpito dallo spirito di compassione che regna ovunque. Queste persone non soffrono fisicamente, ma di dover convivere con i loro segreti. Ci troviamo tra perseguitati; basta che uno solo inizi a confessarsi perché tutti gli altri lo seguano. Finalmente comprendo la ragione delle decine di scatole di fazzoletti di carta sparse in ogni punto del salone; per chi ha problemi psicologici, è come pane benedetto.
Disteso sulla mia scomoda carrozzella, ricoperto da un lenzuolo bianco con cui Abdel ha deciso di abbigliarmi (confessa di essere rimasto impressionato da un’immagine trovata nella sua stanza che rappresenta la sepoltura di Cristo avvolto nel sudario), sono l’unico a non piangere su se stesso. Soffrire di mancamenti e di dolori non è nulla rispetto a tutti questi orrori finalmente espressi. Impressionati dalla paralisi, dal lenzuolo bianco, dal mio silenzio, gli altri non osano avvicinarsi a me. A poco a poco però arriveranno, soprattutto le donne, con le loro confidenze: sono disponibile, si sa dove trovarmi (!), ho tutto il tempo del mondo, e ascolto. Di quando in quando lancio una parola nel fiume in piena dello sfogo della mia interlocutrice. Io sono lo psicoanalista, benché allungato sul lettino, e la paziente, sana, si china e si riversa su di me.
Durante i pasti, in un momento che dovrebbe essere dedicato al silenzio, la nostra tavola è la più apprezzata ed è divenuta il punto di raduno delle signore; quelle che Abdel ha frequentato di notte e che io ascolto di giorno. La madre superiora ci convoca e ci chiede di rispettare la regola della meditazione. Fatica sprecata! Nelle ore di riposo nella mia stanza siamo in una decina e gli scoppi di risa si sostituiscono alle preghiere. Le sorelle gettano la spugna e considerano l’intera sessione con i pazienti un completo fallimento. Abdel sembra aver restituito la vita alle belle depresse; ancora oggi sono in contatto con molte di quelle donne. Mi sono commosso soprattutto per una giovane madre di famiglia di Chibougamau, nelle grandi foreste del Nord. Era ormai alla sua quinta sessione, e il suo strano accento eschimese la rendeva ancora più interessante.
Quei quindici giorni mi hanno rimesso in sesto.
Al ritorno raggiungiamo un immenso stadio di hokey su ghiaccio dove ci attende l’intervista con l’emittente televisiva evangelista. Ci sono più di cinquemila «fedeli». Manifestano rumorosamente la loro approvazione, fischiando invece senza ritegno se qualcuno li delude. Avrò così modo di ascoltare la testimonianza di un ex campione di hockey appena colpito dalla rivelazione, poi quella di una cantante pop che sta morendo di cancro e ottiene un successo strepitoso. Al centro dello stadio c’è un ring da boxe. Spiego ad Abdel che deve cambiarmi di posizione ogni cinque minuti: nonostante le numerose telecamere e gli schermi giganti, voglio rivolgermi a ognuno di loro.
Il proprietario della pia emittente televisiva e il suo amichetto, che avevamo ospitato a Parigi, ci annunciano con grandi paroloni. Abdel chiede all’efebo di aiutarlo a trasportare la carrozzella sul ring. Mi prende tra le braccia e mi solleva con fatica notevolmente minore di quella che il ragazzo mostra alle prese con la carrozzella. L’entrata teatrale di Abdel impone il silenzio alle migliaia di scalmanati. Io non ho preparato alcun discorso.
«Mi rivolgo in particolare ai miei fratelli di branda, a tutti i disabili, e cioè a ognuno di voi, perché siamo tutti disabili davanti alla vita».
Grandi applausi, una parte della sala è in piedi (esclusi i tipi in carrozzella, naturalmente). Parlo del bambino privilegiato che sono stato, di Béatrice, delle lezioni della vita. Preferisco la ricchezza della mia paralisi a quella della mia classe sociale: ho la sensazione di vivere più intensamente, di essere diventato finalmente umano.
Abdel ha ben calcolato i tempi della coreografia, e ci conquistiamo così una standing ovation che dura i cinque minuti necessari a farmi scendere dal ring; numerose carrozzelle si sono spostate lungo il corridoio che porta all’uscita, desiderose di salutarmi. Trascorro interminabili minuti a tentare di baciare una graziosa tetraplegica; nei suoi occhi colmi di lacrime si legge tutto. Ringraziamo gli organizzatori e ci eclissiamo, sfiniti, prima di prendere l’aereo del ritorno.