La vigilia della festa di Sant’Agata, mia nonna Agata, buona anche lei come la santa, veniva a prendermi a casa. Mi trovava al balcone, impaziente di uscire, tirata a lustro con indosso il vestito buono, i capelli divisi al centro della testa da una scriminatura dritta e legati stretti da due fiocchi rosa da femminuccia. Scendevo le scale volando, felice di lasciare per qualche ora i miei genitori che, quasi sempre scontenti, rendevano l’aria di casa irrespirabile.
Ero grata a mia nonna per le sue attenzioni amorevoli, i piccoli gesti affettuosi, le carezze leggere, gli incoraggiamenti non richiesti, i complimenti a non finire che abbisognano ai bambini per crescere sicuri e sviluppare fiducia nella vita. Papà e mamma non si perdevano in cose inutili, come loro chiamavano la tenerezza e l’amore, e mia nonna quando poteva suppliva alle loro manchevolezze.
Camminavamo in silenzio, tenendoci per mano, le mie dita piccole annodate alle sue, torte dall’artrite e ruvide per i lavori di casa. L’autobus, il numero 15, tagliava Palermo lungo una linea retta che andava dalla Statua fino a piazza Marina, nel cuore della città vecchia. Seduta sulle ginocchia di mia nonna, troppo piccola per guardare fuori dal finestrino, mi lasciavo trasportare con gli occhi chiusi, riconoscendo le strade grazie a odori e rumori che, stratificati nella mia memoria, costituiscono oggi i miei ricordi più antichi. Il profumo delicato e persistente delle magnolie del Giardino Inglese, le urla degli ambulanti, le abbanniate dei pescivendoli, le cantilene dei fruttivendoli per invogliare i passanti ad acquistare arance, limoni, lumie, l’ui ui uuu lungo delle sirene che annunciavano l’ingresso delle navi nel porto, il puzzo nauseante dell’acqua limacciosa della Cala, l’odore delle panelle delle friggitorie di corso Vittorio, il battere ritmico e costante delle ruote delle carrozze sulle balate di marmo di Billiemi.
In prossimità del capolinea scendevamo dall’autobus piano, facendo attenzione a non scivolare con le nostre scarpe dalle suole di cuoio su quel selciato grigio, lucido di umidità. Giravamo attorno ai giganteschi ficus magnolioide, alti alberi australiani che difficilmente attecchiscono in Europa, mentre a Palermo crescono senza bisogno di cure particolari e raggiungono dimensioni eccezionali. Le radici aeree pendevano dai rami come stalattiti, formando un intreccio inestricabile con quelle di terra, si legavano tra loro come in un labirinto magico, all’interno del quale noi bambini fingevamo di perderci tra grida e risate.
Da lontano scorgevamo palazzo Steri, la cui facciata severa e imponente mostrava il volto di una Sicilia tanto bella quanto crudele. La nonna conosceva storie raccapriccianti e me le aveva raccontate senza nascondere i particolari più spaventosi: «Agatì, là c’era il Tribunale del Sant’Uffizio. In quel palazzo gli uomini di Torquemada, certi pezzi di cornuti che a starci nella stessa stanza c’era da perdere l’onore, hanno torturato monache, parrini, briganti e tutte le femmine che ci capitavano a tiro».
L’edificio austero e sinistro mi metteva addosso una grande inquietudine, perciò alla vista delle finestre che ne interrompevano la facciata regolare acceleravo il passo e quasi mi mettevo a correre, inseguita dalle urla delle streghe e da invocazioni d’aiuto che mi sembrava di sentire per davvero.
«Cauru e friddu sintu, ca mi pigghia la terzuru, tremu li vudella, lu cori e l’alma s’assuttigghia... Agatì, così si lamentava Maricchia, una povera madre di famiglia che era stata accusata di essere una strega. Intanto il monaco della buona morte si avvicinava alla cella suonando una campanella, din din din. E lo sai chi l’aveva denunciata?» La nonna non si aspettava certo che io rispondessi, ma ugualmente faceva una pausa. In quell’attimo di sospensione mi lambiccavo il cervello e involontariamente rallentavo il passo. Lei mi tirava delicatamente per la mano: «Ma suo marito! Quello c’aveva una più giovane e siccome non sapeva come liberarsi della moglie che s’era fatta vecchia... vabbè, queste cose è meglio che te le spiego quando sarai più grande», e concludeva il suo racconto poco prima della chiesa della Gancia, dove giravamo a sinistra per la via Alloro, un tempo la strada principale del rione della Kalsa.
Mia nonna abitava di fronte a palazzo Abatellis, al primo piano di un edificio vecchio e fatiscente che aveva resistito ai bombardamenti del ’43. Il palazzo era stato in parte recuperato e si teneva in piedi per miracolo o, come diceva la nonna, per amore delle famiglie, che altrimenti non avrebbero avuto dove abitare. Il portone, cui ogni tanto qualcuno dava una mano di vernice, aveva un colore marrone che virava al verde negli angoli e non si usava più da parecchi anni, per paura che i cardini arrugginiti si sbriciolassero all’improvviso e l’anta, priva di ancoraggi, potesse schiantarsi su qualche passante. Il falegname lo aveva inchiodato e aveva ricavato nel legno massiccio una sorta di porticina secondaria, che si apriva con facilità e senza rischio alcuno.
Piccola com’ero, l’attraversavo con un certo agio, mia nonna invece doveva piegarsi da un lato e rannicchiarsi un po’ per non sbattere la testa. La corte interna era affollata di biciclette, attrezzi da lavoro, carriole. Ci arrampicavamo per le scale dai gradini neri di pietra pece, stretti e ripidi, tesi tra le pareti scrostate e le travi di legno. Il pianerottolo si allargava tra il muro e un’ampia apertura sulla chiostrina del palazzo contiguo.
I bombardamenti dell’ultima guerra avevano provocato crolli di interi edifici, sbriciolato muri divisori, aperto insolite comunicazioni tra caseggiati contigui. La ristrutturazione, in assenza di mezzi adeguati e di soldi, era avvenuta in maniera fantasiosa e disordinata. Assi, palanche, putrelle di ferro assumevano le funzioni di corrimano, pianerottolo, solaio, addirittura muro portante, a seconda del caso e della necessità.
«Agatì, cammina appoggiata al muro.» La nonna non dimenticava mai di raccomandarmi prudenza; la prudenza per lei era più che un’inclinazione, era anche la sua virtù cardinale preferita.
Mezzo giro di chiave apriva la porta, un doppio strato di truciolato, una specie di barriera virtuale destinata alla gente perbene, che certamente non avrebbe ostacolato la determinazione dei malintenzionati. Ma il quartiere era povero e i ladri di solito lo risparmiavano, consapevoli che non avrebbero trovato nulla di interessante e di prezioso.
L’interruttore di ceramica bianca sulla sinistra della porta produceva il suono di un elastico allentato, suisc, e le ombre svanivano. Il rumore della strada entrava senza chiedere permesso dal balcone sempre aperto, sia d’estate sia d’inverno. Una tenda ricamata di leggero lino bianco, mossa dalla corrente, schermava la luce del giorno.
La nonna, catanese di nascita, dopo il matrimonio con mio nonno Sebastiano aveva lasciato Belpasso, il paese in cui era cresciuta, per trasferirsi a Palermo, dove nacquero tutti i suoi figli. Aveva portato con sé poche cose, tra cui una profonda fede cristiana nel cuore, una grande devozione per sant’Agata nell’anima e nel naso l’odore del pane fresco, dei biscotti dorati che venivano confezionati nel forno della sua famiglia.
I primi anni non erano stati facili. L’adattamento al carattere del marito, uomo buono ma prepotente e contorto, le aveva richiesto una grande pazienza, molta prudenza e una fine capacità di mediazione. Poi c’era stata la questione religiosa, causa di incomprensioni, screzi, liti. Sebastiano, da buon palermitano, voleva che la sua famiglia fosse consacrata a santa Rosalia, la moglie non ne voleva sapere di barattare sant’Agata, nemmeno se glielo avesse chiesto Gesù Cristo in persona. Si sa che le guerre di religione sono le più lunghe e le più sanguinose, la nonna però era determinata: ci volle tempo ma ebbe la meglio, perché la religione è cosa da femmine e, almeno in questo, le donne siciliane erano, anche all’epoca, libere di scegliere.
Fu proprio grazie alla devozione di mia nonna che il cinque febbraio di ogni anno la famiglia Badalamenti si riuniva per celebrare l’onomastico delle sue Agata con un pranzo in grande stile, che si concludeva con i dolci votivi – le minne di sant’Agata per l’appunto –, fatti a mano da lei personalmente, per grazia ricevuta o da ricevere.
La nonna, di cui porto il nome, aveva stabilito che io l’aiutassi in cucina nella delicata preparazione dei dolcetti e mi designò custode ufficiale della ricetta e sua unica erede.
Nella famiglia Badalamenti l’eredità veniva trasmessa ai discendenti secondo il diritto di maggiorasco; il patrimonio, cioè, andava al primo figlio maschio, che aveva l’obbligo di conservarlo, custodirlo e passarlo integro al proprio discendente. Nonostante tale diritto fosse stato abolito dopo l’unità d’Italia, nella nostra famiglia, come del resto in tutto il meridione, era rimasta la consuetudine di privilegiare il figlio maggiore, riconoscendo alle femmine una dote in danaro che aveva la funzione di prevenire faide annose e violente. La nonna, femminista a modo suo, volle lasciare a me il bene di famiglia più prezioso, la ricetta delle minne di sant’Agata.
Nella cucina in penombra si svolgeva il sacro rito della preparazione dei dolci, dal quale erano esclusi gli altri parenti che, incapaci di una fede genuina, avrebbero vanificato il sacrificio della nonna e indispettito la Santuzza, la quale avrebbe potuto anche ritirare la sua benevola protezione.
Mi lavavo le mani con cura particolare, la stessa che anni dopo avrei usato prima di assistere ai parti, in ospedale. Davanti al tavolo di marmo maneggiavo pastafrolla e crema di ricotta con dedizione e serietà. Un po’ per intrattenermi, un po’ per istruirmi, un po’ per contagiarmi con la sua fede religiosa ingenua, sincera, appassionata, mia nonna mi raccontava la vita della Santuzza, così come lei la conosceva.