«Agatì, beddruzza mia, comincia a mischiare la farina con la sugna e sentimi bene, che ti devo raccontare una cosa importante. Devi sapere che Sant’Agata, prima di fare miracoli, era una picciuttedda graziosa a tipo te, con la pelle bianca come a una distesa di mandorli in fiore, gli occhi celesti che sembravano il cielo a primavera, le trecce nere, lunghe, lucide di seta, strette con due nastri rosa. Ma lo sai che sei pettinata uguale a lei? Una mattina, affacciata alla finestra, si azzizzava come al solito i capelli e ci passava l’olio d’oliva; non c’è niente di meglio per i capelli, cara la picciridda mia: un pochino ogni giorno sulle punte e quelli si allungano e crescono forti e sani. Un giorno passò di là il console romano, un certo Quinziano. La ragazza cantava la sua preghiera con una voce accussì dolce che l’anima del governatore si smosse e il cuore cominciò a tuppuliargli nel petto. Persino il cavallo sentì che stava succedendo qualcosa di importante e prese a sbattere gli zoccoli con movimenti nervosi e a soffiare dal naso. A Quinziano quella signorinella dolce, morbida, di buona famiglia e timorata di Dio ci tolse la pace del giorno e il sonno della notte. L’immagine di Agata dalle trecce lunghe e la pelle bianca gli compariva davanti ogni volta che chiudeva gli occhi. Nel letto si arriggirava prima da un lato e poi dall’altro, ma la testa era sempre là, a quella carne giovane che gli rimescolava il sangue. Si alzava alla mattina sfatto come la pasta passata di cottura, la testa pesante e i pensieri sottosopra, mentre la voce di lei gli rimbombava nelle orecchie, anche durante le udienze più rumorose. Certe volte per trovare quiete si faceva venire nel letto tre o quattro femminazze acchiappate per la strada.

Agatì, non ce lo dire a tuo padre che ti racconto queste cose, quello è geloso peggio di un turco, se sa che ti parlo di buttanazze... viiih, manco ci voglio pensare. Poi, da quando è diventato giudice, ci pare che è giusto, che sa tutte cose lui, che conosce la verità; figuriamoci... la meglio parola è quella che non si dice.»

Mentre parlava la nonna non smetteva un attimo di lavorare l’impasto, che sotto la pressione delle sue dita abili era diventato una palla morbida ed elastica.

«Agatì, è inutile che mi guardi con quegli occhioni sgranati, certe cose ancora non puoi capirle, perché sempre picciridda sei, ma quando sarai grande ti ricorderai di quello che ti sto dicendo; perciò stai bene attenta, che prima le impari e meglio è. Siccome gli uomini tutto quello che gli racconti presto o tardi te lo fanno pagare e siccome quello, anche se ti viene padre, sempre uomo è, meno cose ci fai sapere meglio è per te. E prendi la ricotta, che mentre la pasta riposa t’insegno come si fa la crema.»

Io la guardavo con la bocca spalancata dallo stupore, molte volte davvero non la capivo, ma di lei mi fidavo e perciò mandavo tutto a memoria, certa che prima o poi le sue parole mi sarebbero tornate utili. E in effetti da grande molti insegnamenti della nonna sarebbero stati preziosi, se solo me ne fossi ricordata in tempo. Andavo sul balcone dove la nonna teneva al fresco la fascedda di vimini intrecciati che conteneva la ricotta morbida e tremolante, regalo dello zio Vincenzo, il fratello di nonno Sebastiano che di mestiere faceva il lattaio. Il siero colava dai lati del cestino e lasciava una scia appiccicosa sul pavimento.

«Agatì, dammi la mano che t’insegno. Devi girare la forchetta in questo modo. Gira, non ti scantare, forte, che diventa liscia liscia.

Perciò, il governatore aveva tutti i difetti di questo mondo: era uomo, potente e straniero. Pensa che cosa ci girava nella testa e ci ribolliva nel cuore. Un giorno che il desiderio lo tormentava come a un dolore di pancia dopo il pranzo di Natale, mandò i soldati in chiesa e fece arrestare Agata con la scusa che l’imperatore di Roma aveva vietato di pregare a nostro Signore. Ci mancavano solo i continentali e le loro stramberie. Pure Quinziano conosceva le leggi a memoria, proprio come tuo padre, e vedi che bel risultato!

Quando la portarono davanti al governatore, Agata mantenne gli occhi bassi e le mani nascoste dietro alla schiena, ferma immobile sull’attenti, come fanno i bambini quando la maestra li chiama alla lavagna. Lei voleva diventare la sposa di Gesù, aveva deciso di consacrarsi a lui e nessuno ci poteva a farle cambiare strada. L’atteggiamento di virginedda timida eccitò i sensi del console. Prima o poi te ne accorgerai anche tu che qui in Sicilia, isola di cruzzuni, i desideri delle donne non contano niente, mentre quello che vogliono gli uomini diventa destino.

Più lei si tirava indietro scucivola, riottosa, più a Quinziano si rimescolava l’anima nera in mezzo al petto. Sdraiato sopra al sofà, una gamba lunga sul velluto rosso, l’altra a terra, l’afferrò per i capelli, se la tirò a forza vicino e infilò la mano sotto alla sua vesta. La ragazza sembrava una mummia, la faccia bianca come a una maschera di cera, gli occhi chiusi, il respiro trattenuto. A Quinziano il rifiuto ci parse una tagliata di faccia e se lo presero i santi diavoloni. Cominciò a bestemmiare, peggio di come faceva tuo nonno quando andavo a confessarmi da padre Reginella, era arrabbiato come un pezzo di ’nduja messo a seccare per un anno. Perché devi sapere che gli uomini, se non ci provi piacere quando ti toccano, si sentono mezzi masculi, ma guai a te se ci provi piacere, perché allora ti collocano tra le buttane.»

Strizzavo gli occhi nello sforzo di carpire il significato di quelle parole, che mia nonna accompagnava con gesti delle mani, movimenti delle sopracciglia, smorfie della bocca.

«Insomma, Agatina, anche se ora non lo capisci, ricordati che come ti metti metti gli uomini hanno sempre una calunnia per pigliarsela cu’ tia» e intanto, con la scusa di preparare la glassa, la nonna mescolava zucchero e limone con violenti colpi. La frusta di alluminio pareva dovesse piegarsi da un momento all’altro sotto le spinte rabbiose di nonna Agata, che proprio non digeriva l’onta che la sua santa preferita aveva dovuto subire.

«Il governatore chiamò il suo consigliori, un pezzo di delinquente, che da noi li trovavi un tempo solo alla Vicarìa, e ci disse: “Affidala ad Afrodisia, dicci che facesse quello che vuole, ma me la deve istruire”. Indovina un po’ che lavoro faceva Afrodisia?»

Mentre io cercavo nella mia testolina la risposta esatta, la nonna veloce accendeva il forno. Nella pausa di riflessione passavo in rassegna tutti i mestieri femminili che conoscevo: sarta, maestra, mamma, poi mi arrendevo e con lo sguardo spaesato alzavo le spalle, muovevo la testa da un lato e dall’altro per dire: “E che ne so io?”.

«Certo, Agatina, che delle volte pari babba! Ma la buttana, no?, una buttanazza di quelle che si è perso lo stampo.» A mia nonna piacevano certe espressioni colorite e, anche se davanti alla gente non diceva mai neppure cretino, con me si lasciava andare, non prima di avermi raccomandato di non ripetere mai quelle parole.

«Comincia a grattuggiare il cioccolatto, che quando hai fatto mi aiuti a riempire le formine. A sant’Agata, mischina, ci parse di morire appena la chiusero dentro al lupanaro, dove succedevano cose che non ti posso raccontare; no perché mi scanto di tuo padre, nzà ma’, ma per mia decenza.»

«Nonna, non ti preoccupare, tanto io non lo dico a nessuno», e per dare più forza alle mie parole giuravo con la mano destra sul cuore. Il significato di molte parole non lo conoscevo, ma capivo che si trattava di cose importanti, cose della vita. D’un tratto prendevano a suonare le campane del vespro, allora mia nonna lasciava perdere i dolci e si faceva il segno della croce, pregava sottovoce muovendo le labbra, concludeva sempre nello stesso modo: «Gesù, Giuseppe e Maria, siate la salvezza dell’anima mia» e riprendeva il racconto da dove l’aveva lasciato.

«La picciotta proprio non ne voleva neanche a brodo. Testona come un mulo, si rifiutava di accompagnarsi agli uomini che immancabilmente la sceglievano nel mucchio. E si capisce, quel corpicino esile con due minnuzze appena spuntate sai quanto ci piaceva? Promesse, minacce, ricatti, timpulate, niente: la Santuzza era irriducibile. Dopo un mese di festini e bordelli, Afrodisia si arrese. Chiamò il capo delle guardie e restituendogli la ragazza ci disse: “Non è cosa! Ha la testa più dura della lava dell’Etna!”. Lui l’acchiappò e, torcendole un braccio di mala maniera, la portò di peso al palazzo. Quinziano, steso sempre sopra al sofà, vestito d’oro, gli occhi mezzi chiusi dal sonno arretrato, la faccia gonfia di vino, i capelli sollevati dai diavoli che gli facevano compagnia, inferocito per lo smacco subito, ordinò: “Buttatela nella cella più buia e torturatela”.

L’amore che aveva provato per Agata era diventato un odio profondo; finisce sempre così quando dici no a un maschio, il rifiuto è peggio delle corna.

“Va a finire che se questa testarda mantiene il punto, le altre prenderanno coraggio e per non essere da meno anche l’ultima delle bagasce si negherà senza appello” pensava Quinziano. Intanto a quel gran cornuto del boia non gli parve vero di mettersi a munciuniari carne giovane e si fregava le mani ripassando tutto il repertorio che suo padre gli aveva insegnato.

Per fare contento al suo padrone e per suo piacere personale, il boia si dedicò ad Agata con tutta l’anima. Le tirò braccia e gambe, le strappò la carne con le tenaglie, la marchiò con i ferri delle vacche, ma quella resisteva e faceva no con la testa. Ammaccata e lorda, con un vestitino stracciato, la riportarono a Quinziano. Nel salone delle udienze c’era un silenzio che si poteva tagliare con il coltello, la gente non aveva gana nemmeno di respirare.

“Se sei libera e nobile perché ti vesti come a una schiava?” le chiese il governatore sprezzante dall’alto del suo trono, con la faccia tirata e le mani che gli ballavano dal nervoso.

“Non è l’abito che fa il monaco. Io sono nobile perché sono vicina a Cristo, l’unico padrone che riconosco” rispose lei, con una vocina leggera come a un soffio di vento a primavera, ma ferma, senza neanche un piccolo tremolizzo.

Accecato dalla rabbia, con le vene del collo gonfie, Quinziano sentenziò: “Strappatele le minne!”.»

Mia nonna, per dare enfasi al racconto, imitava ora la voce profonda e cavernosa del governatore, ora quella dolce e aggraziata della santa, agitava le mani, strabuzzava gli occhi, corrugava la fronte risultando più comica che drammatica. Ma quando diceva: “Strappatele le minne!”, il tono era particolarmente grave e io morivo di paura, spalancavo gli occhi come un pesce in difficoltà, incassavo la testa nelle spalle e mi portavo le mani al petto.

«Agatì, beddruzza mia, e non è che ti puoi spaventare per un racconto. È storia vera, ma oramai è passata e lo sai che il Padreterno non manda prove a come capita. Agata poteva sopportare qualunque cosa, sennò che santa era? A te che sei picciridda non ti può succedere niente di grave, ci sono già tua madre e tuo padre a farti difficile la vita, non ti bastano? Va’, piglia le ciliegine che decoriamo le cassatelle.»

Tenendomi le mani sulle minnuzze che ancora non mi erano spuntate, scendevo dal mio sgabello, aprivo con fatica gli sportelli della credenza, guardavo tra gli scaffali pieni di tazzine scompagnate, scatoline di metallo, pezzi di spago avanzati, pacchi di pasta, poi, trovato il barattolo delle ciliegie candite, lo afferravo con cautela e tornavo di corsa ad ascoltare la fine della storia.

La decorazione era una fase particolarmente delicata e io percepivo tutta la solennità di quel momento. Le cassatelle dovevano assomigliare a seni veri, altrimenti correvamo il rischio di scontentare la santa che, suscettibile com’era, avrebbe potuto toglierci la sua protezione. La nonna si metteva gli occhiali, apriva le persiane per far entrare più luce, poggiava una ciliegina, si allontanava un poco dal tavolo e controllava che fosse centrata bene; poi si riavvicinava e ne metteva un’altra, fino a quando non aveva decorato tutti quei magnifici dolci. Nel frattempo, senza interrompere il lavoro, continuava a raccontare.

«Quando il governatore ebbe parlato, scese nel salone un silenzio tremendo. Si poteva sentire la furia della tempesta nel suo petto, lo scruscio della paura nel cuore della gente, il ribollire dei pensieri nelle teste dei carnefici. Fu un attimo, e due minnuzze bianche, piccole, rotonde finirono insieme con una tenaglia nera sopra a un piatto d’argento. La Santuzza per il dolore cadde a terra svenuta e un grido sfuggì dalla bocca dei presenti. Due soldati, sebbene disgustati da quei buchi neri e sanguinanti sul petto di Agata, dovettero eseguire gli ordini ed evitando di guardarla la trascinarono per le braccia e la chiusero insieme alle sue minne in una cella, buttata via come a un sacco di munnizza.»

Il racconto era così ricco di particolari che lo vivevo tutto sulla mia pelle. Il dolore della Santuzza era il mio e me lo sentivo nelle braccia, nel petto, nella testa, mentre le lacrime se ne scendevano sole sole. La nonna mi asciugava gli occhi con la punta di una mappina: «Agatì, non ti scantare che adesso viene il bello. La Santuzza, stinnicchiata lunga lunga sul pavimento, senza coscienza, si lamentava e tremava tutta. La cella era buia, fredda, in lontananza l’Etna rumoreggiava. Più morta che viva, sentiva il freddo che le saliva dai piedi e si riparava raccogliendo le gambe davanti al petto, come un bambino dentro la pancia della mamma; pregava la Madonna, invocava Dio perché la facesse morire, chiamava la mamma, a tratti delirava.

Quando un’onda di calore le scaldò il corpo, la picciotta pensò con sollievo che finalmente era arrivata la sua ora. “Agata, Agata!” una voce antica la chiamava con insistenza. Un vecchio era comparso dal nulla, accompagnato da un picciriddu che faceva luce con una lanterna. Era niente meno che san Pietro. La Santuzza lo riconobbe subito, forse per la lunga barba bianca, l’aria serafica o la forza dello sguardo. Provò ad alzarsi, ma le gambe non le ubbidirono. Il vecchio sollevò una mano, la benedisse e le minne tornarono al loro posto, incollate, sode e belle. La baciò sulla fronte e se ne andò, lasciandola completamente guarita.

La mattina dopo il governatore aspettava che gli portassero il corpo della virginedda morta e conzata sopra a un catafalco. Ti puoi immaginare la faccia di lui quando, arrivato nella sala delle udienze, se l’attrovò davanti sana come un pesce e determinata a dirgli no un’altra volta. Cominciò a gridare, a tirare in aria tutte le cose che ci capitavano sottomano, prese di petto il boia e il suo aiutante, poi, con la faccia da pazzo, acchiappò alla virginedda e, mormorando frasi sconnesse, la buttò sopra ai carboni ardenti: chi fa da sé fa per tre. Un fumo nero, denso, e un gran puzzo di carne bruciata riempirono la sala, mentre la gente tossiva e gridava per l’orrore. All’improvviso un boato sordo, forte e cupo coprì le urla dei presenti. L’Etna eruttò magma bollente e una scossa di terremoto fece sussultare il palazzo. Le colonne di marmo crollarono, il soffitto cadde rovinosamente, seppellendo sotto un cumulo di pietre l’infami consigliori di Quinziano e il suo boia. Nostro Signore si era definitivamente incazzato. Agatina, questa è una di quelle parole che non devi mai ripetere, giuralo!».

«Te lo giuro, nonna» dicevo con la mano destra sul cuore.

«Il governatore, che come tutti i prepotenti si scantava pure dell’ombra sua, vista la mala parata acchiappò alla picciuttedda e con le sue stesse mani la tolse dal fuoco. Troppo tardi, era già morta.»

Il racconto lasciava nell’aria odore di santità e ricotta. Sul tavolo della cucina tanti dolcetti tondi, vicini a due a due, la ciliegia rossa al centro a imitare il provocante capezzolo. La fede e la devozione di mia nonna erano riposte in quelle cassatelle, l’irrinunciabile rito della tradizione della famiglia Badalamenti.

Prima di andare via le contavo e ricontavo: una, due, tre, dieci, venti, trentadue, erano sempre in numero pari, due per ogni nostra parente che, grazie a loro, avrebbe potuto godere della protezione di sant’Agata per tutto l’anno.