Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi. L’anno 2020 ce lo ha ricordato nel modo piú incisivo.
È un virus inoffensivo, soltanto un’influenza, anzi è gravissimo. Colpisce solo gli anziani, tranne quando colpisce i giovani. Il suo tasso di mortalità è altissimo, ma è stato calcolato su un numero di contagiati approssimativo, quindi è bassissimo. In Italia non arriverà mai, a meno che non circolasse già dal 2019. Bisogna sospendere ogni attività, salvo quelle essenziali, ma per sicurezza anche quelle. Chiudere le scuole non serve. Contrordine: serve. Indossare una mascherina è inutile, però aiuta a non contagiare gli altri, ovvero è necessario, o per meglio dire obbligatorio, anche se le mascherine non si trovano. Perché il virus si trasmette nell’aria, ma scompare col caldo, a meno che invece non si trasmetta soltanto toccando le superfici e in compenso resista al caldo. Ce lo terremo fino all’estate, anzi tornerà in piú ondate, insomma aspettiamo il vaccino che però potrebbe anche non arrivare mai. Ma da dove viene questo virus? Sicuramente da una zuppa di pipistrello, a meno che non fosse un pangolino. E se invece fosse sfuggito da un laboratorio? Per fortuna possiamo curarlo con un rimedio giapponese, con un farmaco anti-artrite, oppure con l’idrossiclorochina – che però, a conti fatti, peggiora le condizioni dei malati, a meno che lo studio che lo afferma non sia stato falsificato. Nel dubbio, ascoltiamo la scienza: se avviciniamo l’orecchio possiamo sentire il rumore del mare.
Mai come di fronte all’epidemia di COVID-19 abbiamo sentito la necessità di rivolgerci agli esperti per sapere cosa fare. E mai come di fronte a quella confusione la loro credibilità ha subito un colpo cosí duro. È parso di rivivere la crisi di legittimità che aveva travolto la scienza economica dopo l’esplosione della bolla dei subprime in America. Già all’epoca era venuto il sospetto che le file dei competenti fossero piene di incompetenti e semi-competenti. È fin troppo facile ironizzare sulle contraddizioni della comunità scientifica sorpresa da un fenomeno nuovo e imprevedibile, come abbiamo appena fatto ispirandoci ai meme circolati in rete negli ultimi mesi. Ma nel momento in cui la «competenza» – incarnata da commissioni di esperti, task force governative, scienziati ex cathedra e legislatori – serve a giustificare misure drastiche sebbene forse necessarie, è lecito chiederci come, quando e perché abbiamo delegato cosí tanto potere sulle nostre vite. Ma soprattutto: a chi lo abbiamo delegato?
Viviamo appunto in un mondo popolato da rischi. Nel corso della sua storia, la civiltà moderna si è data come obiettivo di controllare l’incertezza delegando sempre maggiori funzioni a una minoranza di individui specializzati che detiene il monopolio dei mezzi di produzione cognitiva: funzionari, tecnici, manager, intellettuali, scienziati, magistrati, periti… Il Novecento ha segnato il trionfo di questa tecnostruttura, mostrando la sua capacità eccezionale di garantire sicurezza ma anche sviluppo: perché nella dinamica della modernizzazione la sicurezza è condizione dello sviluppo e lo sviluppo condizione della sicurezza. Perlomeno finché il meccanismo non s’inceppa. Ci siamo liberati da certi rischi, ma ne abbiamo creati di nuovi – da quelli sociali a quelli climatici, da quelli psicologici a quelli sanitari – e siamo costretti a impegnare sempre maggiori risorse per proteggerci. Ma se fosse proprio la nostra ricerca di sicurezza a produrre continuamente nuova insicurezza, i nostri sforzi di mettere ordine nel caos a generare disordine? Rassicuriamo il lettore: non avrebbe senso scrivere un libro per mettere in discussione che i competenti sono in grado di produrre dei saperi utili; lo abbiamo invece scritto per riflettere sullo scarto tra quello che agli esperti viene chiesto e quello che possono fare. Oggi il sistema tecnologico sembra fare fatica a riprodurre, in quantità e qualità sufficiente, quella stessa competenza di cui ha creato il bisogno.
A fronte di una classe competente che appare divisa, e talvolta meno competente nella pratica di quanto dovrebbe esserlo in teoria, si ergono i suoi nemici autoproclamati: chiamiamoli populisti, poiché oppongono alla retorica elitista della minoranza istruita quella del popolo, e ai radical chic un radical choc. Il cuore, scriveva Pascal, ha ragioni che la ragione non conosce. Questo forse vale anche per coloro che della ragione – o meglio, della razionalità moderna – si propongono come la nemesi oscura. La domanda che pongono è urgente e merita di essere presa sul serio: a cosa servono le élite nel momento in cui non riescono piú a mantenere le loro promesse? Si tratta di un interrogativo che si è presentato ciclicamente nella storia umana, aprendo ogni volta sofferte fasi di transizione. Antichi saperi venivano messi in discussione e nuovi modelli si facevano strada con la forza dell’irrazionalità. E se fosse giunta anche per noi la fine di un ciclo?
All’inizio degli Ammutinati del Bounty, il film del 1962 con Marlon Brando, i marinai scherniscono un botanico che passeggia sul ponte; il capitano William Bligh li ferma subito: quell’uomo è la cosa piú preziosa sulla nave, perlomeno dopo il capitano stesso, perché è il solo capace di procurarsi in Giamaica i preziosi semi dell’albero del pane che potranno servire come fonte di nutrimento per gli inglesi. Tutto giusto, capitano Bligh – ciò non toglie che dopo due anni di traversata, casualmente nell’anno della Rivoluzione francese, l’equipaggio decida di rompere il patto, buttarti a mare e fare rotta verso Tahiti. Se sappiamo con una certa precisione cos’ha fatto il capitano Bligh sul Bounty – errori, angherie, privazioni – non è del tutto evidente di quale colpa si siano macchiati i competenti nell’Occidente contemporaneo. Siamo onesti: in caso di strani dolori all’addome, resta mediamente piú vantaggioso rivolgersi a un medico che a un influencer di Instagram.
Nelle pagine che seguono non affronterò la questione della competenza sotto il profilo epistemologico – chiedendomi che cosa sia e come venga prodotta la verità –, bensí sotto quello sociale e politico, al fine di riflettere sulle condizioni di riproduzione e legittimazione di una specifica classe che usa la «conoscenza» come strumento di potere. La tesi sull’ascesa e la caduta dei competenti si articola principalmente attorno a tre concetti che verranno sviluppati nel libro. Il primo è quello di produzione della sicurezza, che definisce la vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il secondo concetto è quello di rendimenti decrescenti della competenza, che evoca la tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di là della sua capacità di ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi, producendo cosí uno stiramento. Il terzo concetto è quello di disrupzione della ragione, che caratterizza la reazione, «populista» fin dai tempi di Erasmo e di Rabelais, allo stiramento del paradigma di produzione della sicurezza.
Proponendo un esame della contraddizione fondamentale del ciclo della modernizzazione – quella tra i costi sociali crescenti e i rendimenti decrescenti della sicurezza – apro una ideale «Trilogia del collasso», che prosegue con i miei due libri precedenti: Teoria della classe disagiata, dedicato agli scarti del processo di riproduzione «meritocratica», e La guerra di tutti, che esamina le conseguenze della crisi di legittimazione sull’ordine civile.
Per esemplificare alcuni nodi sono ricorso a citazioni cinematografiche, da Fantozzi a Snowpiercer, e a casi di studio, dall’incendio della cattedrale di Notre-Dame alle politiche antiterrorismo americane, passando dalla crisi della scolastica medievale.
Nel corso dell’èra moderna abbiamo perfezionato la conoscenza del mondo e sviluppato complesse tecnologie, ma ne siamo anche diventati dipendenti. Ed è proprio dagli effetti di questa dipendenza che inizieremo, partendo dalla catastrofe sanitaria che ha messo in crisi il mondo come lo conoscevamo, prima di seguire a ritroso il percorso di ascesa della classe competente. Nel mondo che sorge dalla crisi del COVID-19 si pone con tanta piú forza la questione della sostenibilità del nostro modello di civiltà, che pure ci ha garantito secoli di progresso e decenni di abbondanza. Perché il regno della sicurezza inizia stranamente ad assomigliare a una gabbia d’acciaio.
RAFFAELE ALBERTO VENTURA
In confinamento, primavera 2020.