3. La burocratizzazione del mondo

La burocrazia è un meccanismo gigante mosso da pigmei.

H. DE BALZAC, Gli impiegati1.

La tecnostruttura.

Cosa serve per fare la fortuna di un libro? Un buon titolo, innanzitutto. La burocratizzazione del mondo lo era senz’altro. Sfortunatamente, non è bastato. Scritta dal misterioso «Bruno R.» e stampata dall’autore a Parigi in cinquecento copie nel 1939, l’opera – destinata a diventare il «libro piú sconosciuto del secolo»2 – fu subito censurata e mandata al macero, per cui poterono leggerla in pochi. Pochi ma buoni, e influenti: ci torneremo.

Circa trent’anni dopo, negli Stati Uniti d’America, ebbe un destino piú fortunato Il nuovo stato industriale dell’economista canadese John Kenneth Galbraith3. Il titolo non suonava male, ma era soprattutto il concetto di tecnostruttura, sviluppato all’interno del libro, a risultare originale e suggestivo: l’idea cioè che l’insieme dei tecnici, intellettuali e manager impiegati nel sistema produttivo costituisse il tessuto fondamentale delle economie avanzate, la struttura appunto.

In fondo, era essa in quanto struttura – e non i singoli individui che la componevano – a prendere tutte le decisioni, che idealmente non erano nemmeno decisioni, ma logiche conclusioni da certe premesse. Quello che ancora veniva chiamato capitalismo si era da tempo trasformato, «indipendentemente dalla sua qualificazione ideologica ufficiale», avendo preso l’aspetto di un sistema in cui il confine tra pubblico e privato era diventato poroso, mentre l’intera economia era gestita da un enorme apparato di individui istruiti. La tecnostruttura – in quanto includeva il primo e soprattutto il secondo strato dell’élite – era la cinghia di trasmissione attraverso la quale, dai centri di produzione del sapere (università e business school), una certa idea di razionalità irrigava l’intera macchina produttiva. L’autore notava che già all’epoca negli Stati Uniti il peso dell’amministrazione pubblica aveva superato quello di molti Paesi socialisti, e bisognava inoltre tener conto del crescente peso dei tecnici nelle grandi società per azioni. Era il 1967 e la «burocratizzazione del mondo» sembrava a buon punto.

Galbraith concludeva: «Stiamo diventando i servitori, nel pensare come nell’agire, della macchina che abbiamo creato perché ci servisse». Un’affermazione che suona particolarmente drammatica, se letta in un trattato di economia. Ma doveva esserci qualcosa nell’aria, perché in quello stesso anno, a New York, andava in stampa un libro dedicato proprio al trionfo delle macchine, firmato da Lewis Mumford. L’autore aveva già scritto vari libri sulla storia delle città e delle tecnologie, ma con Il mito della macchina firmava, a settant’anni passati, uno dei suoi capolavori. Tracciando una parabola dall’uomo preistorico al funzionario nazista, il sociologo descriveva il passaggio dal dominio dell’uomo sui suoi strumenti alla situazione contemporanea in cui l’uomo stesso era diventato l’elemento di una «mega-macchina»: una struttura invisibile, composta di parti umane, vive ma rigide, ognuna delle quali aveva un compito, una funzione, un lavoro specifico da svolgere, per attuare le immense potenzialità produttive e i giganteschi progetti di una grande organizzazione collettiva4.

Mumford parlava di macchina in senso stretto, non metaforico, in quanto un’organizzazione collettiva è, proprio come le macchine fatte in legno o in metallo, «una combinazione di parti resistenti, ognuna con funzioni particolari, che agiscono sotto il controllo dell’uomo per sfruttare l’energia e compiere del lavoro»5. Se gli antichi sovrani erano stati i «primi motori» di forme ancora abbozzate di macchine collettive; se il Leviatano (come vedremo) veniva da Hobbes programmaticamente concepito come una grande macchina; da allora le società industriali avevano raggiunto il piú alto livello di perfezionamento, con i loro alfabeti, la loro scienza, le loro città, i loro eserciti, le loro fabbriche e le loro burocrazie.

Il mito della macchina ha accompagnato l’intera tradizione politica moderna, ma nella prima metà del Novecento ha visto uno straordinario balzo in avanti grazie alla cosiddetta «organizzazione scientifica del lavoro» di Frederick Taylor, una teoria che, partendo dalla fabbrica, avrebbe influenzato l’amministrazione pubblica e la scienza stessa. Il taylorismo si era diffuso prima negli Stati Uniti e poi nel mondo intero a una velocità impressionante. Già nel 1913 Lenin lo definiva, pur criticandolo aspramente6, «l’argomento piú discusso oggi in Europa e in una certa misura in Russia» – salvo in seguito cambiare idea e adottare con entusiasmo il nuovo sistema scientifico di produzione.

Della burocrazia, «macchina invisibile», Mumford forniva una definizione semplice ed efficace, che vale la pena di tenere a mente per il seguito: «un’elaborata struttura per impartire ordini, trasmetterli e farli eseguire»7. E l’umano in tutto questo? Ecco il problema: di fronte alla mega-macchina, l’essere umano non solo perdeva la sua autonomia, veniva ridotto a ingranaggio, ma era anche costretto a servire un’entità i cui scopi spesso divergevano radicalmente dai suoi.

Torniamo ora dall’altra parte dell’oceano, a Parigi. Sempre nel 1967 usciva un terzo libro, La società dello spettacolo, di Guy Debord, che non soltanto aveva un ottimo titolo, ma per giunta arrivava nel momento giusto, cioè pochi mesi prima che esplodesse il Maggio francese, di cui sarebbe diventato uno dei simboli. Sembrava che l’intera società si fosse d’un tratto accorta di tutte le trasformazioni che il capitalismo aveva subito nel corso degli ultimi decenni. Trasformazioni che avevano toccato in maniera vivida la classe media e gli studenti universitari, triplicati in trent’anni, spostando sempre piú verso i margini della scena la vecchia classe operaia. Il libro aveva inoltre la peculiarità di essere illeggibile, ma pieno di formule potenti, poetiche e un po’ astruse – genere in cui Guy Debord era un maestro. «Rende oscuro tutto ciò che tocca», scrisse malignamente un suo collaboratore8. Frasi che alla prima lettura sembrano straordinariamente profonde e alla seconda altisonanti supercazzole, meritano una terza e una quarta lettura, perché raccontano a modo loro le stesse trasformazioni di cui parlavano Galbraith e Mumford.

Di cosa diavolo stava parlando Debord? E in nome di che cosa, all’età tutto sommato non piú verdissima di trentasette anni, se ne andava insieme agli studenti a occupare la Sorbona? I suoi interlocutori erano artisti e intellettuali fortemente politicizzati che avevano percorso negli anni il tortuoso sentiero dal comunismo ortodosso all’ultrasinistra, muovendo dai giovanili ardori per la Rivoluzione russa a un socialismo libertario anti-sovietico. Erano intellettuali e militanti sempre piú consapevoli del fatto che da entrambi i lati della Cortina di ferro si stava realizzando la stessa storia: quella, appunto, della burocratizzazione del mondo.

Lo Spettacolo «si basa sull’incessante dispiegarsi della razionalità tecnica» espressa dal progetto filosofico occidentale moderno9, scriveva Debord. La competenza specialistica, in effetti, produce delle rappresentazioni del mondo (modelli, teorie) e media ogni relazione umana attraverso un filtro costituito dal personale tecnico, dalle procedure, dalle conoscenze precostituite, trasformando l’individuo in spettatore della propria vita. Allo scopo di garantire questo massimo grado di razionalità (cioè di efficienza) era necessario suddividere il lavoro umano nei suoi elementi essenziali, secondo una logica taylorista, e a monte rendere competenti (cioè specializzare) un numero crescente di individui attraverso un meccanismo di formazione e selezione che coincideva con il sistema educativo secondario. Indirizzati verso il settore pubblico, verso la grande azienda privata o verso la galassia pulviscolare della piccola-media impresa, questi individui erano chiamati a svolgere i ruoli di tecnici qualificati o di organizzatori, i quali non erano altro che tecnici di piú alto livello, specializzati nel delegare mansioni. L’insieme dei competenti costituiva quell’unica tecnostruttura di cui parlava Galbraith, forma compiuta della divisione del lavoro.

Per Debord, Stato e capitalismo erano quindi due facce della stessa medaglia, lo Spettacolo. Lo Stato era la «forma generale della scissione nella società»10, mentre il capitalismo operava delle separazioni11: queste scissioni prendevano il nome di «divisione del lavoro» quando si parlava di capitalismo e di «burocrazia» quando si parlava dello Stato. Ma erano figure della medesima tragedia. Il modo di produzione americano e quello sovietico erano uno solo, definito modo di produzione «capitalistico» o «moderno». Il male terribile che affliggeva la Storia non era altro che la burocrazia, nelle sue articolazioni economica, politica, e poi sociale, culturale, artistica, simbolica. Debord la chiamava talvolta semplicemente Economia, intesa come scienza dell’amministrazione delle cose e delle persone, «scienza dominante» e «scienza del dominio»12. Ricordiamo quello che abbiamo detto nel secondo capitolo sul valore di scambio come medium universale in grado di strutturare i rapporti sociali – Aristotele diceva addirittura: di creare comunità – attraverso delle catene di equivalenza e avremo finalmente capito cos’è lo Spettacolo di Debord: una burocratizzazione della produzione e del consumo, una mediatizzazione dei rapporti sociali ed economici. Nella sua prosa ipnotica, Debord portava al cuore del Sessantotto il disvelamento di un ordine economico ben diverso da quello della narrazione ancora dominante nell’ortodossia dei grandi partiti.

Idee molti simili erano già state discusse tra militanti e intellettuali. Da vent’anni i filosofi Claude Lefort e Cornelius Castoriadis sviluppavano nella loro rivista «Socialisme et Barbarie» una critica radicale della ragione burocratica, che ovunque portava avanti gli stessi obiettivi di pianificazione13. Nelle sue lezioni del 1955-56 alla Sorbona, anche il sociologo liberale Raymond Aron aveva spiegato che l’opposizione tra sistema capitalistico e sistema socialista andava ridimensionata e assorbita nel piú ampio concetto di società industriale14. I filosofi della Scuola di Francoforte, trasferiti negli Stati Uniti, avevano invece sottolineato le analogie strutturali tra nazismo e capitalismo, risalendo fino a denunciare i vizi strutturali dell’Illuminismo come progetto prometeico di razionalizzazione del mondo15.

Da questo punto di vista – che la polarizzazione geopolitica tendeva a occultare –, gli opposti sistemi non sarebbero altro che declinazioni di un medesimo tipo di economia, razionale nelle proprie ambizioni e irrazionale nelle proprie conseguenze. Il loro movente, l’accumulazione del capitale. La loro ideologia, un identico culto del progresso. Ma tutti questi autori non erano certo i primi a essersi posti quei problemi: ed è qui che dobbiamo tornare al misterioso «Bruno R.» e al suo sfortunato libello di trent’anni prima.

Un oscuro dibattito tra rivoluzionari.

Bruno Rizzi era un eccentrico militante trotskista nato in provincia di Mantova e fuggito a Parigi con lo scopo di rivelare al mondo una sua altrettanto eccentrica scoperta che, imprevedibilmente, si sarebbe rivelata esatta. Prendendo atto di certe somiglianze tra i regimi di Hitler e di Stalin, in particolare sotto il profilo del peso crescente delle burocrazie, Rizzi si era convinto che i due dittatori avrebbero presto siglato un’alleanza, cosí tradendo le speranze del proletariato mondiale. Decise dunque di pubblicare in fretta e furia, a sue spese e in forma semi-anonima, La bureaucratisation du monde, nel giugno del 1939; soltanto due mesi dopo, Hitler e Stalin firmarono il loro patto di non-aggressione, confermando i timori di Rizzi. La fama di profeta era fatta. Quanto al libro, quasi nessuno aveva avuto modo di leggerlo16.

In effetti, quel testo ricco di intuizioni originali era anche per molti aspetti incoerente, contraddittorio, privo di metodo, percorso da venature di follia, combattuto tra l’approvazione e la critica delle trasformazioni politiche che descriveva – soprattutto, includeva un capitolo odiosamente antisemita, nel quale Rizzi assimilava la figura del capitalista a quella dell’ebreo. Proprio a causa di quelle poche ma imbarazzanti pagine, che nulla c’entrano con il resto del ragionamento, il libro era finito sotto la scure della censura francese. Quando La burocratizzazione del mondo è stato riconosciuto come un testo precursore del socialismo libertario, gli editori successivi si sono ben guardati dal ripubblicare quelle parti.

Nel mezzo di un «film di pensiero» spesso confuso, come lo definiva lui stesso, Bruno Rizzi era tuttavia riuscito ad annotare una serie di osservazioni di sorprendente preveggenza, nonché a fare una precisa profezia storica. In che modo era giunto a una conclusione cosí esatta? Con il metodo dialettico marxista, avrebbe ribadito piú volte negli anni seguenti. Il ragionamento di Rizzi era che il vecchio capitalismo fosse destinato in tutto il mondo a scomparire, sostituito da un nuovo ordine burocratico. Nell’imminenza della guerra mondiale, le burocrazie degli stati totalitari sembravano pronte ad allearsi per dare la spallata definitiva al sistema liberale preesistente. La borghesia era una «forza sociale morta» che avrebbe lasciato spazio a una «nuova classe» che già si vedeva all’opera nella Russia sovietica, nell’Italia fascista, nella Germania nazista e persino negli Stati Uniti del New Deal – si trattava di una tendenza inarrestabile che avrebbe coinvolto l’intero pianeta, il «collettivismo burocratico».

Rizzi portava alle estreme conseguenze le riflessioni di Trockij secondo cui la rivoluzione bolscevica, alla quale aveva partecipato attivamente nel 1917, era stata tradita da Stalin. In effetti, se si ammetteva che dopo la Rivoluzione il proletariato russo era ancora una classe sfruttata, da qualche parte doveva esserci un’altra classe sfruttatrice. E sebbene le forme giuridiche della proprietà privata fossero state abolite in Urss, è pur vero che Marx stesso invitava a dubitare delle superficiali forme giuridiche: a contare erano i veri rapporti di produzione nascosti dietro il velo dell’ideologia. Direzione della produzione e godimento del plusvalore: tanto bastava a determinare l’esistenza di una classe sfruttatrice, e la burocrazia sovietica rispondeva perfettamente a questo identikit.

L’influenza dell’opera di Bruno R. – o forse soltanto dell’idea della sua opera – fu dirompente. Quando in 1984 George Orwell evocava il libro immaginario intitolato The Theory and Practice of Oligarchical Collectivism, bibbia del regime totalitario in cui vivono i suoi personaggi, era evidente il riferimento alla teoria rizziana; il che tuttavia non basta a concludere che lo scrittore inglese avesse letto il libro, il quale come sappiamo era circolato in poche decine di copie. Semplicemente, le idee di Rizzi si erano irradiate. Malgrado la censura, La burocratizzazione del mondo aveva avuto (almeno) tre lettori celebri, che fecero la fortuna delle sue idee.

Il primo era lo stesso Trockij, il quale, nel poco tempo che gli restava prima di essere assassinato dagli emissari di Stalin nell’agosto del 1940, citò Rizzi in alcune conferenze, scritti e lettere. Soprattutto, giudicava incontestabile l’esistenza di una tendenza generale a convergere dei diversi sistemi, ovvero del fascismo, del nazionalsocialismo, dell’economia pianificata e del New Deal17. Si potrebbe persino dire che Trockij fosse tormentato dalle tesi di Rizzi: perché se queste si fossero rivelate corrette – cioè se il regime di Stalin non fosse stato un semplice incidente di percorso, ma la prima fase di una nuova società di sfruttamento – allora l’intero programma socialista non sarebbe stato altro che un’utopia18. In queste riflessioni si intravedeva il germe per lo sviluppo di una critica ancora piú radicale, ma la morte prematura del dissidente sovietico rimandò di qualche decennio la liquidazione senza appello dell’esperienza sovietica da parte della sinistra occidentale.

Il secondo lettore di Rizzi era James Burnham, prima leader del movimento trotskista americano e poi – subito dopo la lettura della Bureaucratisation du monde – fervente antimarxista, intellettuale maccartista e (per non farsi mancare nulla) infiltrato dei servizi segreti americani. La sua fama è dovuta soprattutto alla pubblicazione nel 1941 di un libro, The managerial revolution, che annunciava come la vecchia borghesia sarebbe stata presto sostituita da una nuova classe di organizzatori19. Qui Burnham non si rivolgeva ai delusi della rivoluzione, ma alle élite competenti americane, annunciando il radioso futuro che le attendeva. Secondo Burnham, a Est come a Ovest, la società industriale stava superando la rigida divisione tra classe proprietaria e classe lavoratrice per sciogliersi in una grande classe di funzionari, pubblici e privati, al ritmo della divisione del lavoro amministrativo e della domanda di competenze sempre piú astratte. Un plagio, insomma, delle tesi di Rizzi. Ma anche una straordinaria operazione di riciclaggio, che trasformava un’oscura diatriba tra militanti socialisti in una lettura obbligatoria per l’élite americana.

Il terzo lettore era, appunto, Guy Debord, che tanto fu influenzato da Rizzi da decidere, nel 1971, di ripubblicare lui stesso il primo capitolo dell’opera maledetta per le edizioni Champ Libre di Gérard Lebovici, denunciando en passant tanti altri lettori (tra i quali, secondo lui, Castoriadis) che lo avevano occultato dopo averne plagiato le tesi20. Nel frattempo Rizzi era scomparso. Ritornato in Italia, venne avvistato qualche anno dopo a Verona, dove lavorava come rappresentante di scarpe.

Il ricorso al «metodo dialettico» non basta a spiegare come un outsider assoluto come Rizzi fosse arrivato a conclusioni tanto dirompenti. Sarà piú realistico ammettere che La bureaucratisation du monde è stato un incidente imprevisto al crocevia tra diverse tradizioni intellettuali, occorso sotto l’influsso di una certa proficua confusione ideologica: una mutazione imprevista come quelle che governano l’evoluzione delle specie. Di fatto, anche Rizzi si inseriva in dibattiti precedenti, il che ci impone di fare un ulteriore salto indietro di una generazione.

Fin dal 1918 Karl Kautsky, custode del marxismo ortodosso, aveva presagito il rischio che la Rivoluzione russa sfociasse nella dittatura oligarchica di un singolo partito, guadagnandosi cosí da Lenin in persona l’appellativo di «rinnegato» con cui è stato tramandato ai posteri. Contemporaneamente Rosa Luxemburg proponeva, dal carcere, il suo «esame critico»21 dei frutti del marxismo-leninismo, mentre in Russia, in Ucraina, in Polonia, tanti rivoluzionari iniziavano ad alzare la voce, e talvolta le armi, contro quel nuovo tipo di dominazione che si spacciava per socialismo. Nel 1933 la filosofa Simone Weil denunciava «una burocrazia permanente, irresponsabile, reclutata per cooptazione, e in possesso, grazie all’accentramento nelle sue mani di tutti i poteri economici e politici, di un potere fino ad ora sconosciuto nella storia»22.

La questione piú frequente nei dibattiti dell’epoca era se la rivoluzione avesse abolito lo sfruttamento di classe o se invece si fosse costituita una nuova classe dominante, eventualmente peggiore della precedente. Gli anarchici ci terranno a ricordare che il primo ad annunciare queste derive era stato Michail Bakunin, che fin dai tempi della Prima Internazionale era entrato in conflitto con Marx, denunciando il rischio che si formasse una «burocrazia rossa» composta da una «nuova e molto ristretta aristocrazia di veri o di pretesi sapienti»23. Ma questi restarono dibattiti marginali, tacciati di «ultrasinistra», per almeno mezzo secolo, mentre il dibattito politico s’instradava su binari che non potevano portare da nessuna parte: quelli di una rigida opposizione tra «liberalismo» e «statalismo», che ormai apparteneva al secolo precedente.

Come ha ricordato Alessandro Aresu in un libro recente, citando non a caso un’espressione di Weber, il capitalismo come lo conosciamo oggi è «capitalismo politico» oppure non è24. Leo Panitch e Sam Gindin hanno sostenuto nel loro The Making of Global Capitalism che l’egemonia del capitalismo americano ha dei tratti imperiali in quanto il potere politico s’impegna a garantire le condizioni di sicurezza che permettono alle multinazionali di esercitare ovunque nel globo. Dagli anni Cinquanta in poi, nessuno studioso serio poteva pensare che l’economia complessa di una superpotenza non andasse pianificata. Il dibattito poteva vertere semmai sul «come». Piú che negare la necessità della pianificazione, gli economisti neoliberali e ordoliberali (e poi persino quelli «socialisti» in Cina) sembravano impegnati a dimostrare come gli stessi effetti di coordinamento delle forze produttive si potevano ottenere regolando il mercato a monte, come un orologio. La pianificazione andò quindi a nascondersi alla bell’e meglio nel sistema educativo, nel diritto, nella fiscalità, nella finanza. Lo smistamento nelle gerarchie delle aziende private di milioni di manager e tecnici formati sugli stessi libri era un modo efficace di garantire un’azione coordinata, ma due ulteriori dispositivi completarono l’opera: la gabbia normativa, che definiva forme e modi dell’attività economica canalizzandola in determinate direzioni; e naturalmente la finanza, che decideva quali imprese dovevano vivere e quali morire, ovvero quanto respiro meritasse ogni scintilla di genio imprenditoriale. E dove non bastavano le spinte gentili, continuavano beninteso a operare le strutture di pianificazione tradizionali attraverso la vecchia politica.

Questi dispositivi – management, scienza, legge, finanza – erano in fondo la molteplice espressione di una singola volontà pianificatrice, quella della tecnostruttura: un esercito di individui che operavano in base ai medesimi principî e valori. Negli anni successivi si sarebbe diffusa una nuova figura, quella dei consulenti, chiamati indifferentemente nel pubblico come nel privato per esaminare le performance, individuare le disfunzioni, proporre strategie: insomma, per governare le organizzazioni dall’esterno, sulla base della propria competenza manageriale. Il mercato, rigidamente inquadrato dalla logica della competenza, era ormai concepito come un puro dispositivo di pianificazione tecnocratica. Cosí si realizzava un’altra intuizione di Weber, secondo il quale «il potere reale» risiede nell’amministrazione e «non si manifesta né in discorsi parlamentari, né in dichiarazioni di sovrani»25.

La gabbia d’acciaio.

L’incapacità di recepire la questione della burocratizzazione del capitalismo da parte dei marxisti ortodossi fino agli anni Settanta discendeva forse dalla resistenza nei confronti della sociologia delle élite, che l’aveva anticipata. Tra le righe di La bureaucratisation du monde si leggeva infatti l’influenza documentata degli studi di Robert Michels sull’oligarchia26, pubblicati nel 1910. In effetti, nella Russia sovietica si assisteva a una «sostituzione dei fini», quel processo descritto da Michels secondo cui un’organizzazione cessa di perseguire gli scopi per i quali è stata concepita (in quel caso, gli interessi del proletariato) e impiega tutte le risorse per garantire la propria autoconservazione (e quindi gli interessi della burocrazia)27.

Dopo avere per anni sostenuto che con l’avvento del socialismo sarebbe cessata la dominazione dell’uomo sull’uomo, Lenin aveva portato al potere una combriccola d’intellettuali e tecnici, remunerandoli generosamente e ricreando di fatto una gerarchia in seno alla sua utopia realizzata. Malgrado gli strali di anarchici e trotskisti, ci volle qualche decennio agli intellettuali occidentali per capire che la presunta alternativa al capitalismo era soltanto un altro capitalismo, se non addirittura un’immagine del suo futuro. A Weber bisogna invece riconoscere il merito di avere, fin dal 1918, inquadrato la questione nei termini che sarebbero poi tornati continuamente.

In una conferenza tenuta davanti a 118 ufficiali austriaci e pubblicata lo stesso anno, cioè pochi mesi dopo la rivoluzione d’ottobre e pochi mesi prima della fine della guerra mondiale, il sociologo tedesco lanciava le seguenti profezie: 1) lo sviluppo di un corpo di funzionari competenti formati nelle università era il destino delle democrazie di massa, che sarebbero diventate delle «democrazie burocratizzate» in quanto l’economia moderna non poteva essere gestita in altro modo; 2) la guerra avrebbe svolto un ruolo di acceleratore di questo sviluppo, perché sotto la sua influenza si stava già realizzando una forma embrionale di economia pianificata; 3) la medesima «burocratizzazione universale» sarebbe stata l’esito naturale del programma socialista in Unione Sovietica28.

Nella Russia appena conquistata dai bolscevichi, Weber individuava i primi germi della degenerazione burocratica: da una parte un governo composto da rivoluzionari di professione che avevano studiato a Vienna o in Germania, insomma un governo degli intellettuali; dall’altra la reintroduzione di meccanismi di sfruttamento (come il cottimo) nelle fabbriche. Gli indizi per arrivare a simili conclusioni, va detto, erano già sotto gli occhi di tutti. Uno dei piú sorprendenti era l’elogio del taylorismo firmato da Lenin in un articolo del 28 aprile 1918 sui Compiti immediati del potere sovietico, pochi anni dopo aver definito lo stesso taylorismo un sistema schiavista e inumano:

Imparare a lavorare: ecco il compito che il potere dei Soviet deve porre di fronte al popolo in tutta la sua ampiezza. L’ultima parola del capitalismo a questo proposito, il sistema Taylor, come tutti i progressi del capitalismo, unisce in sé la crudeltà raffinata dello sfruttamento borghese e una serie di ricchissime conquiste scientifiche per quanto riguarda l’analisi dei movimenti meccanici durante il lavoro, l’eliminazione dei movimenti superflui e maldestri, l’elaborazione dei metodi di lavoro piú razionali, l’introduzione dei migliori sistemi di inventario e di controllo, ecc. La Repubblica sovietica deve ad ogni costo assimilare tutto ciò che vi è di prezioso tra le conquiste della scienza e della tecnica in questo campo. La possibilità di realizzare il socialismo sarà determinata appunto dai successi che sapremo conseguire nel combinare il potere sovietico e l’organizzazione amministrativa sovietica con i piú recenti progressi del capitalismo. Bisogna introdurre in Russia lo studio e l’insegnamento del sistema Taylor, sperimentarlo e adattarlo sistematicamente29.

Il programma di modernizzazione del sistema produttivo russo fu tra le prime misure adottate dai bolscevichi. In pratica, Lenin fu il primo dirigente della storia ad applicare il principio secondo cui un Paese doveva essere governato come un’azienda. L’adesione entusiastica ai principî dell’organizzazione scientifica del lavoro culminò nei cosiddetti piani quinquennali, esplicitamente ispirati a Taylor senza rinunciare alla loro raffinata crudeltà30. In pochi decenni la Russia si sarebbe trasformata in modo radicale, anche se non nella direzione auspicata dai socialisti europei.

Per Weber i socialisti avevano correttamente identificato nel sistema capitalistico la «dominazione delle cose sull’uomo», ma non erano riusciti a proporre una vera soluzione: con il concetto di dittatura del proletariato avevano sostituito uno sfruttatore privato con uno sfruttatore pubblico, ancora piú potente. Critico del capitalismo, che definiva incompatibile con la democrazia e la libertà31, Weber si era rassegnato al ruolo di testimone di un millenario processo di «disincanto del mondo» (Entzauberung der Welt), che culminava nella società industriale moderna. Ma se per gli autori del Manifesto del Partito Comunista le contraddizioni del capitalismo avrebbero inesorabilmente portato il sistema al crollo e al suo superamento, secondo il sociologo le medesime contraddizioni avrebbero generato ovunque una crescente burocratizzazione dell’economia.

Avendo intuito che la Rivoluzione russa costituiva di fatto una fase di accelerazione del processo di modernizzazione, Weber prevedeva che in Russia si sarebbe assistito a un aumento esponenziale della casta degli impiegati, di individui cioè con una formazione specializzata, commerciale o tecnica; una nuova classe intermedia tra padroni e lavoratori. Tuttavia, poiché gli interessi di quest’ultima avrebbero deviato da quelli degli operai, si sarebbe arrivati a una «dittatura dei funzionari e non degli operai». Weber anticipava cosí uno dei principali elementi della critica «da sinistra» al regime sovietico – a partire da Rizzi, Trockij, Castoriadis e Gilas –, l’idea quindi che lo sfruttamento non coincideva con il possesso privato dei mezzi di produzione, ma con il diritto di disporne a proprio piacimento.

Nel socialismo reale, come nel capitalismo totalmente razionalizzato, la gestione avrebbe alla fine sostituito la proprietà. In fondo, bastava prestare attenzione a come era cambiato concretamente il lavoro dietro il velo delle forme giuridiche. Ricorrendo a un termine che sembra evocare la teoria marxista, Weber parlava alla sua platea di ufficiali austriaci della «separazione» tra lavoratore e mezzi di produzione. Ma a differenza di Marx, che si limitava a rimarcare l’opposizione tra capitale e lavoro, Weber attirava l’attenzione sul modo in cui la burocrazia occupava e colonizzava lo spazio della separazione, ponendosi come mediatrice universale tra capitale e lavoro. Quando, quarantanove anni piú tardi, Guy Debord definiva la separazione generalizzata come «l’Alfa e l’Omega dello Spettacolo»32, non si trattava certo dell’unica reminiscenza weberiana ormai compiutamente assorbita dall’ultrasinistra.

La concordanza delle opinioni sulla burocratizzazione del mondo del borghesissimo Weber e del marxista Debord non deve stupire: è la punta dell’iceberg, il segno di una sotterranea tradizione di un «marxismo weberiano» che ha percorso l’intero Novecento33. Era forse necessario officiare a una tregua improbabile tra le due grandi scuole della scienza sociale, marxisti e weberiani appunto, per iniziare a capire la rivoluzione attraverso la quale la tecnostruttura stava prendendo il potere. Rivoluzione che ciascuna scuola, presa isolatamente, mascherava: i marxisti ortodossi non riuscivano a prendere le misure di quella terza classe che non era né proletariato né borghesia; mentre i weberiani puri si erano bevuti un po’ troppo facilmente il mito della razionalità del sistema. La «gabbia d’acciaio» della razionalità non era poi tanto razionale: la mega-macchina aveva i suoi momenti di follia, i suoi incidenti, le sue insostenibili pretese… O, per citare Lewis Mumford, «la macchina tendeva sempre piú a determinare gli obiettivi cui doveva servire e a escludere necessità umane piú autentiche»34.

L’intera storia della modernità politica è sospesa tra la devozione per il potere ordinatore della tecnostruttura e il timore che questo possa, un giorno, sfuggire al controllo.

Nello stesso anno, il 1967, in cui uscivano contemporaneamente i libri di Debord, Mumford e Galbraith, la Metro-Goldwyn-Mayer mandava in onda quello che sarebbe stato il penultimo episodio della sua serie animata piú celebre: Tom & Jerry.

È un episodio strano, I robot si ribellano, che sembra reagire all’esaurimento di tutte le possibili idee e soluzioni narrative sviluppate in ventisette anni di onorata carriera decontestualizzando i personaggi in maniera piuttosto improbabile. La storia è ambientata in un pianeta lontano; qui Tom e Jerry non sono piú due semplici animali che litigano in un banale appartamento, ma due operatori che passano le giornate seduti davanti a uno schermo per sorvegliare degli automi che lavorano in una miniera… di formaggio. Dalle loro postazioni, Jerry pilota un robot a forma di topo per rubare il formaggio, mentre ovviamente Tom lo insegue con il suo robot a forma di gatto. Il classico gioco del gatto e del topo prosegue, ma mediato dalla macchina (Debord direbbe «allontanato in una rappresentazione»). Tom e Jerry sono separati tra loro, ma separati anche dal loro stesso lavoro, mentre gli automi svolgono sia il lavoro produttivo (raccogliere il formaggio), che quello improduttivo (inseguirsi a vicenda). Finché i due automi, stufi di combattere, non prendono il controllo: fanno indossare al gatto e al topo reali un casco per il controllo a distanza e li mandano a combattere tra di loro. Advance and be mechanized, intimava il titolo originale. Ecco qui, nella forma di un disegno animato, «l’asservimento dell’uomo alla macchina» che tanto aveva spaventato Lenin nel 1914 e tanto lo aveva entusiasmato nel 1918: l’inconscio collettivo aveva parlato, esprimendo le paure piú profonde della società.

Alla fine, quelli che sembravano soltanto degli oscuri dibattiti sulla vera natura della Rivoluzione russa costituivano in realtà le premesse di una generale presa di coscienza del processo di razionalizzazione che avrebbe contraddistinto l’intero capitalismo nel corso del Novecento. Un esempio della grande convergenza che Weber e Rizzi annunciavano un secolo fa si realizza oggi nel «capitalismo politico» cinese35. Per citare Branko Milanovic, sembra che non ci resti altro che un solo orizzonte, pur diversificato nelle due varianti occidentale e orientale: Capitalism, alone36.

Trotskisti, dissidenti sovietici e un polveroso sociologo borghese sono stati i piú acuti nel demistificare la natura del socialismo reale come pura forma di dominio burocratico, nonché la natura inconfessabile del «capitalismo reale» come progetto di dominio tecnocratico che, nella sua ambizione di tenere «tutto sotto controllo», produce spesso degli effetti collaterali nocivi e imprevisti.

A questo punto dobbiamo risalire indietro nel tempo di qualche secolo e riprendere la storia dal principio, quando in Europa cominciavano a svilupparsi le burocrazie pubbliche e il sistema educativo, e si costituiva timidamente una «nuova classe» di competenti con una missione molto precisa: ridurre l’incertezza del mondo.

1. H. de Balzac, Gli impiegati, Garzanti, Milano 2011.

2. G. Debord, quarta di copertina per Bruno Rizzi, La bureaucratisation du monde, Champ Libre, Paris 1976.

3. J. K. Galbraith, Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino 1968.

4. L. Mumford, Il mito della macchina, il Saggiatore, Milano 2011, p. 264.

5. Ibid., p. 267.

6. V. I. Lenin, Sistema “scientifico” per spremere il sudore, in «Pravda», n. 60, 13 marzo 1913, in Id., Opere complete, vol. XVIII, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 573-74.

7. Mumford, Il mito della macchina cit., p. 276.

8. Testimonianza di J.-P. Voyer: cfr. https://leuven.pagesperso-orange.fr/Boorstin_revisited.htm

9. G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini+Castoldi, Milano 2017, I, 19.

10. Ibid., I, 24.

11. Ibid., VII, 171.

12. Ibid., II, 41.

13. Cornelius Castoriadis raccoglierà una selezione dei suoi scritti sull’Unione Sovietica in un libro eloquentemente intitolato La Société bureaucratique, vol. I, Les Rapports de production en Russie, Union générale d’éditions, Paris 1973.

14. R. Aron, Dix-huit leçons sur la société industrielle, Gallimard, Paris 1962.

15. T. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010.

16. Da poco è disponibile un’edizione completa e ricca di materiali critici, curata da Paolo Sensini: B. Rizzi, La burocratizzazione del mondo, Colibrí Edizioni, Paderno Dugnano 2019.

17. L. Trockij, In difesa del marxismo, Samonà e Savelli, Roma 1969.

18. Ibid. Testimonianza della guardia del corpo di Trockij riportata in N. K. Dahl, With Trotsky in Norway, in «Revolutionary History», 2, estate 1989, p. 37, citato in P. Sensini, Saggio introduttivo, in Rizzi, La burocratizzazione del mondo cit., p. LXXX.

19. J. Burnham, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Burnham non citò mai Rizzi, sebbene sia provato che conoscesse la sua opera, documentato che la possedesse e altamente probabile che l’avesse letta. Lo scrittore americano arrivò persino a mentire, pur di non ammettere di averne seguito le orme.

20. Debord, quarta di copertina per Rizzi, La bureaucratisation du monde cit.

21. R. Luxemburg, La rivoluzione russa. Un esame critico, Massari Editore, Bolsena 2004.

22. S. Weil, Prospettive. Andiamo verso la rivoluzione proletaria?, in Id., Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990.

23. M. A. Bakunin, Stato e Anarchia, Feltrinelli, Milano 2013, p. 198.

24. Cfr. A. Aresu, Le potenze del capitalismo politico, La nave di Teseo, Milano 2020.

25. M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Critica politica della burocrazia e della vita dei partiti, Laterza, Bari 1919, p. 21.

26. Orsini, L’eretico della sinistra cit., pp. 109 sgg.

27. R. Michels, Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Utet, Torino 1912, p. 397. Cfr. anche P. Chiantera-Stutte, Michels e la crisi della democrazia - ieri e oggi, in «Quaderni di Sociologia», 63, 2013, pp. 175-83.

28. Cfr. M. Weber, Il socialismo, Castelvecchi, Roma 2018.

29. Lenin, Opere complete cit., vol. XVII, p. 231.

30. Si vedano M. R. Beissinger, Scientific Management, Socialist Discipline and Soviet Power, Tauris, London 1988; Z. A. Sochor, Soviet Taylorism Revisited, in «Soviet Studies», vol. 33, n. 2, aprile 1981, pp. 246-64.

31. M. Weber, La situazione della democrazia borghese in Russia [1906], in Id., Sulla Russia, a cura di M. Protti, il Mulino, Bologna 1981, p. 71.

32. Debord, La società dello spettacolo cit., I, 25.

33. Secondo Michel Löwy, tracce di webero-marxismo si trovano in Lukács e Gramsci, nella Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse), nella sociologia critica americana (Alvin Gouldner, Daniel Bell, C. Wright Mills) e in Habermas – oltre che, aggiungiamo noi, in Mario Tronti e Cornelius Castoriadis (cfr. M. Löwy, La cage d’acier. Max Weber et le marxisme wébérien, Stock, Paris 2013).

34. Mumford, Il mito della macchina cit., p. 279.

35. Aresu, Le potenze del capitalismo politico cit.

36. B. Milanovic, Capitalism, Alone. The Future of the System That Rules the World, Belknap Press, Cambridge-London 2019.