La grande macchina.
Nel 1974 il Giappone era già stato pacificamente conquistato da Mazinga e avrebbe presto scoperto Jeeg, Ufo Robot e tanti altri robot che incarnavano l’idea di una tecnologia al servizio dell’umanità, esoscheletri perfettamente manovrabili come fossero un’estensione del corpo dei loro piloti. Ma nell’aprile di quell’anno la televisione mandava in onda il primo episodio di una serie che introduceva una novità di peso: la serie si chiamava Getter Robot e la sua peculiarità consisteva nel fatto che il robottone protagonista non era una macchina tutta d’un pezzo, ma si componeva unendo tre navicelle. Nacque cosí il sottofilone dei mecha componibili, che un decennio piú tardi ebbe in Golion, americanizzato in Voltron, l’esponente piú celebre. Voltron era il risultato dell’assemblaggio di cinque robot con le fattezze di leoni che andavano a comporre ciascuno una parte diversa del suo gigantesco corpo: gamba destra, gamba sinistra, braccio destro, braccio sinistro e infine tronco con testa. Ai bambini dell’epoca, questa grande macchina antropomorfa non poteva ricordare che una cosa e una soltanto: il celebre frontespizio del Leviatano di Hobbes.
O perlomeno è quello che fa pensare a noi.
Il frontespizio, che peraltro esiste in due versioni, è una delle immagini piú celebri della storia della filosofia, variamente glossata e interpretata, e mette in scena un uomo composto da tanti piccoli uomini. Il grande uomo è appunto il Leviatano, forma mitologica (e squisitamente barocca) in cui s’incarna l’idea dello Stato moderno: una mega-macchina che ha come scopo quello di garantire la sicurezza entro i confini di un determinato territorio. Una machina machinarum, macchina tra le macchine o macchina di macchine, perché in fondo, nella visione materialista-meccanicista di Hobbes, anche gli uomini che la compongono sono macchine. Per come sono state programmate dalla natura – Rousseau correggerà poi: dalla civiltà –, queste piccole macchine tendono a essere competitive e diffidenti, e perciò portate al conflitto. Trasferendo i loro poteri a una creatura artificiale mostruosa, esse si vincolano alla convivenza. Proprio come succede nel nostro cartone animato, se crediamo alle parole della sigla, cosí sfrontatamente hobbesiana: «la leggenda di Voltron ha contribuito alla pace in tutti i piú remoti recessi della galassia».
La storia del pensiero politico successivo a Hobbes consisterà nel capire come tenere sotto controllo la violenza superiore dello Stato che mette fine alla violenza diffusa dello stato di natura, come impedire che la macchina si rivolti contro i suoi costruttori o li schiacci nei suoi ingranaggi. Il Leviatano non è infallibile. E quando qualcosa va storto, a mettersi in moto è una macchina potentissima contro la quale c’è poco da fare. I suoi margini d’errore diventano dei margini di orrore. Animata dalla pura ragione strumentale, la macchina che doveva servire l’umanità prende vita propria e si rivolta, come le intelligenze artificiali in Terminator. Secondo Bauman, è proprio questa la tragedia sulla quale la Shoah, «esito di una combinazione unica di fattori di per sé assai ordinari e comuni», ci ha aperto gli occhi1. Emancipato da ogni contropotere, lo Stato moderno ha potuto esercitare senza limiti il monopolio della violenza assieme alle sue «esasperate ambizioni di ingegneria sociale».
Thomas Hobbes metteva già in guardia dal vizio che avrebbe paralizzato la macchina: la divisione disordinata dei poteri. Immaginate i cinque leoni robot che non riescono piú a coordinarsi, la gamba di Voltron che attacca il suo braccio, il suo braccio che combatte con la sua testa. Ma questa divisione è inesorabile dal momento in cui la giurisdizione statale tende a estendersi a un numero sempre crescente di fenomeni e rapporti che devono essere gestiti nella maniera piú efficiente. La proliferazione di funzionari addetti al controllo e all’amministrazione della società, come angeli di una gerarchia celeste, caratterizza la storia della modernità politica. E forse anche i cartoni animati giapponesi: nella seconda stagione di Voltron (in realtà ottenuta rimontando episodi della serie Armored Fleet Dairugger XV) i singoli mini-robot passano da cinque a ben quindici.
Il filosofo inglese non è assolutamente isolato nelle sue visioni. La nascita della modernità coincide con la diffusione massiccia tra il XVII e il XVIII secolo di metafore meccaniciste applicate alla società2. Nell’incipit del Leviatano, Hobbes descrive lo Stato come un «animale artificiale» che imita la natura, «anche se ha una statura e una forza maggiori rispetto all’uomo naturale, per proteggere e difendere il quale è stato voluto»3. Per il filosofo, questa macchina è dotata di un’anima artificiale (la sovranità), di articolazioni (la tecnostruttura dei funzionari), di nervi (il sistema di incentivi e di sanzioni che spinge gli uomini a obbedire), ma anche di forza (la ricchezza), memoria (gli intellettuali, anche qui per usare un termine contemporaneo). Per parlare dello Stato, Hobbes oscillava tra la piú antica metafora del corpo, già presente nel pensiero medievale4, e quella dell’orologio, tipica del suo tempo, nella convinzione che il corpo umano fosse a sua volta una sorta di orologio5.
La metafora dell’orologio, alla quale nel Seicento si ricorreva per definire la natura, il corpo umano e il corpo politico, attraversa tutta la modernità per riapparire a inizio Novecento nella letteratura sull’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Taylor. Di fatto, quello che stava avvenendo in tutto il mondo industrializzato, e di cui il taylorismo rappresentava il simbolo, era il passaggio dall’età «eroica» del capitalismo, con al centro la figura dell’imprenditore, all’èra dei tecnici: nella fase di transizione soprattutto ingegneri6, i quali nel secondo dopoguerra sarebbero stati affiancati e sottomessi ai manager-organizzatori.
Al culmine di questo processo storico nasce la burocrazia nel suo senso attuale. Una burocrazia, per citare Robert K. Merton, è una struttura sociale «razionalmente organizzata», in cui «ogni serie di azioni è funzionalmente legata agli scopi dell’organizzazione», e suddivisa in «una serie di uffici e status gerarchici, fra di loro integrati, cui pertiene un certo numero di obblighi e privilegi definiti attentamente da regole limitate e specifiche», secondo la loro «zona di competenza e responsabilità», mantenendo sempre la necessaria «distanza sociale» – non per ragioni igieniche, all’epoca, ma per non turbare la razionalità delle procedure con variabili affettive. Il fine ultimo, anche in questo caso, è di annullare l’incertezza: le formalità servono a «valutare il comportamento altrui» e a stabilire «una serie stabile di aspettative reciproche»7.
Non bisogna fare l’errore di credere che questa descrizione riguardi soltanto le amministrazioni pubbliche (Merton menziona anche «lavoratori scientifici»8), o illudersi che i problemi della burocrazia dipendano dalla sua estraneità alle leggi del mercato. Infatti è proprio la ricerca della massima efficienza e razionalità economica a produrre fenomeni di inefficienza e irrazionalità. Come abbiamo già avuto modo di ripetere, la differenziazione funzionale è la logica generale della divisione del lavoro cognitivo nella società capitalistica, dall’impresa alla scienza. È dunque il settore pubblico che si taylorizza o il privato che si burocratizza? Falsa dicotomia. Un filo rosso unisce il concetto di «Stato moderno», inteso come organizzazione politica che si diffonde in Europa a partire dal XVI secolo e di cui Hobbes è uno degli esegeti, alle teorie della modernizzazione applicate allo sviluppo economico nel mondo contemporaneo: l’idea, potremmo dire, che moderno sia ciò in cui opera in maniera piú perfezionata la divisione del lavoro, e che per andare in questa direzione sia inevitabile razionalizzare i rapporti di produzione e specializzare le competenze.
Questa società si concentra cosí su un unico obiettivo: ridurre ogni incertezza che potrebbe sorgere dallo scarto tra le teorie e i fatti. Stato, Capitalismo e Scienza si sviluppano in parallelo sia perché necessari l’uno all’altro – lo Stato per creare le condizioni istituzionali del Capitalismo, il Capitalismo per garantire lo sviluppo economico con cui lo Stato riesce a finanziarsi, la Scienza per prevedere le misure necessarie da applicare –, sia perché caratterizzati dalla stessa logica organizzativa, quella della parcellizzazione delle funzioni per garantire un’efficienza sempre crescente.
Taylor era ossessionato dallo scorrere del tempo in fabbrica, e nelle sue ricerche sul campo iniziava a cronometrare il lavoro degli operai, anzi ogni singolo loro gesto, per stilare delle medie e calcolare come ottimizzare la produzione. La razionalità moderna è innanzitutto un certo rapporto con il tempo, ed è in ciò che Weber vedeva il rapporto di affinità elettiva tra capitalismo ed etica protestante: massimo risultato nel tempo piú breve, perché, come invece insegna la teoria marxista del valore-lavoro, il tempo risparmiato è profitto estorto al lavoratore.
Furono proprio alcuni intellettuali marxisti a individuare una continuità tra la sfera sociale e la fabbrica, come Herbert Marcuse in Germania9, Mario Tronti in Italia o Guy Debord in Francia, il quale per l’appunto scriveva: «La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, cioè dalla forma generale della scissione nella società, prodotto della divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe»10.
L’opera piú importante di Debord, La società dello spettacolo, aveva portato la critica della modernità capitalistica – nelle sue diverse varianti: liberale, nazionalista e socialista – a uno stadio cosí puro di radicalità che era divenuta indistinguibile dalla malinconia. Assumendo questa posa, Debord finiva per assomigliare a un pensatore barocco: la malinconia è infatti uno dei grandi temi poetici del Seicento, incarnazione di una resistenza all’avvento del razionalismo. In effetti, cosa c’è di piú barocco della metafora dello Spettacolo? La troviamo sia nei testi filosofici dell’epoca, marchiati dal revival dello scetticismo, sia in quelli drammatici, dove si moltiplicano i teatri nei teatri, gli effetti speciali e le meraviglie meccaniche. Se il Barocco è secondo Debord «l’arte di un mondo che ha perduto il suo centro»11 – Amleto parlava di «tempo fuori sesto» o disarticolato –, l’intera sua opera, tre secoli piú tardi, lamenta questa perdita. Il progetto avanguardista dell’Internazionale Situazionista, da lui fondata con altri artisti e scrittori, non era altro che una grande festa mobile, perché «il teatro e la festa, la festa teatrale, sono i momenti dominanti della realizzazione barocca»12.
Guy Debord era l’ultimo dei barocchi proprio perché capace di pensare la società moderna come una tragedia. Nella sua visione ogni cosa è amleticamente disarticolata: Germania nazista, Unione Sovietica, Cina maoista e Occidente capitalistico sono forme diverse di un medesimo totalitarismo burocratico che opera una «divisione mondiale dei compiti spettacolari»13. La divisione del lavoro come proliferazione di filtri tra gli uomini e il mondo suona anch’essa come una metafora barocca, ricorrente nel teatro dell’epoca. Quando Debord proclama: «È la piú vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo»14, non sappiamo piú se parli del suo spectacle o degli spectacula che vanno in scena con attori e attrici. Queste due dimensioni, per la mentalità barocca, sono del tutto interscambiabili. Hobbes, per l’appunto, definiva il rappresentante politico come un attore che recita la parte scritta per lui dal suo «rappresentato». La gerarchia dei poteri si configura quindi come una catena di rappresentazioni: la machina machinarum è anche uno spectaculum spectaculorum.
«Harmonia praestabilita».
Le parti della macchina, ciascuna con la sua specializzazione, devono per quanto possibile «agire come un sol uomo»: all’interno della grande fabbrica come nel corpo collettivo del Leviatano. Ma cosa garantisce la coordinazione della classe competente? In sociologia si definisce «organizzazione» una struttura che pianifica e coordina l’azione di un gruppo di esseri umani sulla base di uno scopo per ottenere un risultato. Però non tutte le classi si coordinano spontaneamente, non tutte hanno un obiettivo comune, e nessuna agisce in maniera pianificata: Marx direbbe del proletariato, ad esempio, che esso deve acquisire una soggettività prima di poterlo fare. E i competenti?
Per capire come tendano a coordinarsi tra loro bisogna tornare ai teorici delle élite. Gaetano Mosca ha esaminato in lungo e in largo la maniera in cui le minoranze, organizzandosi in modo pressoché spontaneo, sono in grado di imporsi sulle maggioranze. Non a caso, James Hans Meisel trasse dalla lettura del teorico elitista italiano la sua «teoria delle tre C», secondo la quale le classi dominanti sarebbero coscienti, cospiranti e coerenti15. In effetti, i diversi membri di una élite condividono un senso di solidarietà di corpo e tendono ad agire spontaneamente in maniera coordinata. Charles Wright Mills osservava il medesimo fenomeno e lo spiegava evocando tre fattori: l’affinità psicologica e culturale tra i membri di un determinato gruppo, l’affinità tra i loro interessi di classe e, se necessario, la coordinazione esplicita, questa possibile soltanto in piccoli gruppi e a determinate condizioni16. Su una scala piú ampia, la sociologia delle organizzazioni ha ampiamente studiato l’esistenza di un «controllo normativo» in grado di produrre coesione attraverso i valori, piuttosto che attraverso una coordinazione esplicita17.
In verità, la comunanza di scopo può manifestarsi senza una coordinazione vera e propria: in questo caso Marx ci direbbe che a incarnarsi nelle «affinità psicologiche e culturali» è la buona e vecchia ideologia. Gran parte delle teorie della cospirazione, in fin dei conti, non è altro che un tentativo fantasioso di spiegare, ricorrendo a un’impossibile «coordinazione esplicita», l’ordine oggettivo che appare osservando il comportamento delle élite: i loro membri sembrano eseguire la stessa partitura, respirare allo stesso ritmo, insomma co-spirare come un gruppo di donne incinte a un corso pre-parto.
Ma il luogo in cui si realizza la cospirazione che rende possibile la divisione del lavoro non è altro che la competenza stessa. Osservare un gran numero di scienziati concordare su un determinato tema è come stupirsi perché un gran numero di copie dello stesso libro riporta al proprio interno, salvo errori di stampa, le stesse identiche frasi. Anche l’etimologia ci riconduce all’idea che «essere competenti» significa cum-petere, andare nella stessa direzione, condividere mezzi e fini. Tuttavia, come vedremo, garantire questa coordinazione non è sempre evidente.
«Affinità elettive» era il termine che impiegava Weber pur di non citare il concetto marxista d’ideologia: sebbene piuttosto vaga, questa espressione tratta da Goethe serviva a indicare un rapporto di causalità biunivoca tra struttura materiale e struttura culturale, da opporre al rigido determinismo economico dei materialisti18. Ora se questa espressione è utilizzata da Weber soprattutto per evocare la sorprendente armonia tra i fenomeni dello spirito (come l’etica protestante) e quelli dell’economia (come il capitalismo), bisogna ammettere che delle affinità elettive si sviluppano anche all’interno dei singoli gruppi sociali. Se la classe competente può essere considerata come una forma di organizzazione spontanea è grazie a certi aspetti formalizzati delle relazioni al suo interno: i meccanismi di selezione assegnano dei ruoli specifici secondo una logica gerarchica, la trasmissione del sapere garantisce un massimo grado di conformità, inoltre l’ideologia associata alle diverse discipline (se non l’ideologia trasversale della modernizzazione) indica come fine collettivo l’assorbimento di sempre piú aspetti dell’esistenza entro la sfera della competenza – insomma una tensione ad amministrare una quantità crescente di rischi e ad aumentare il grado di sicurezza.
La capacità degli individui di coordinarsi per realizzare un fine collettivo dipende dalla struttura organizzativa e dalle catene di comando instaurate. Ma nessuna coordinazione è possibile se gli individui non sono in qualche modo predisposti a collaborare tra loro. Ad esempio, Adolf Eichmann non era un grigio burocrate che si limitava a obbedire agli ordini, come provò a sostenere al processo di Gerusalemme, ma un vero antisemita: criterio con cui era stato scelto per svolgere le sue funzioni e che lo aveva reso piú efficiente. In altre parole, Eichmann non era genericamente intercambiabile, ma scelto in una rosa di individui plasmati dalla cultura nazionalsocialista. In effetti, è difficile assimilare entro un’organizzazione un individuo che non ne condivide certi valori e codici.
La questione della coordinazione tra i singoli individui per garantire il funzionamento ordinato di una macchina piú grande è un problema metafisico prima ancora che sociologico, perché dipende dalla possibilità di far coesistere il libero arbitrio con il finalismo.
Leibniz si era posto ai suoi tempi un problema simile, pur interessandosi a questioni che poco avevano a che vedere con le élite. La rigida dottrina materialista di pensatori come Hobbes escludeva che la materia potesse essere governata da qualcosa di estraneo alla materia stessa, com’era appunto lo spirito. Ma allora perché quando progettiamo nella nostra mente di muovere un braccio, poi lo muoviamo realmente? E soprattutto in che modo opera la Provvidenza in un mondo governato dalle leggi della natura? Leibniz propose una soluzione ingegnosa, ma questa sí un poco astrusa, e per farlo non poteva che ricorrere alla metafora piú inflazionata del suo tempo: il solito orologio19.
Immaginiamo due orologi, separati tra loro come il corpo e lo spirito, quindi del tutto incomunicanti. Quale spiegazione dare al fatto che in ogni momento essi battono la stessa ora? Non sembrano influenzarsi a vicenda, giocare a rincorrersi, come se fossero collegati o cospiranti? Assolutamente no, dice Leibniz. Bisogna inoltre escludere le seguenti ipotesi: che il loro costruttore abbia connesso i due orologi; che intervenga continuamente per accordarli. La soluzione è piú semplice: i due orologi, che sono perfetti, sono stati caricati nello stesso modo e quindi daranno sempre la stessa ora. È per questo motivo che abbiamo l’impressione di un ordine finalistico, semplicemente perché le cose sono state programmate – da Dio, nella filosofia di Leibniz – nello stesso identico modo.
Ma in fondo non accade la stessa cosa quando l’ordine sociale ci appare guidato da una sola volontà, e invece risulta spontaneo? Ecco dunque la verità sulla «cospirazione delle élite». L’istruzione produce l’affinità psicologico-culturale di cui parlava Mills, e alla sua funzione ricorrerà un decennio piú tardi Ralph Miliband per illustrare come mai lo Stato borghese, composto da élite borghesi, non possa fare altro che gli interessi della borghesia20.
Per usare le parole di Leibniz, il sistema educativo garantisce la harmonia praestabilita tra i differenti membri della tecnostruttura: «caricando» ogni individuo con gli stessi valori, gli stessi metodi e gli stessi codici, si dovrebbero produrre pressappoco gli stessi risultati. Le istituzioni di formazione danno agli individui letteralmente la forma che la mega-macchina richiede per funzionare rispettando criteri di regolarità, ripetibilità e calcolabilità. Si tratta di micro-componenti standardizzati che devono svolgere specifiche funzioni all’interno di un flusso di lavoro collettivo. Nessuno nasce razionalizzato. Per Weber, la formazione professionale (Fachschulung) è necessaria per l’applicazione di regole al fine di ottenere una totale razionalità. Il sistema universitario, in particolare, garantisce la produzione di titoli, diplomi e certificati necessari per creare uno strato sociale «privilegiato» di funzionari, i quali andranno a comporre la direzione amministrativa tipica dei raggruppamenti razionali, che siano politici, ierocratici, economici (in particolare capitalistici) o altri21.
Nell’economia liquida e precarizzata di un secolo piú tardi, dobbiamo includere tra questi «funzionari» in senso lato tutti coloro che, nelle piú varie forme giuridiche e contrattuali, svolgono una qualche mansione cognitiva lungo la catena del valore globale – e che non potrebbero svolgerla se non fossero stati programmati dal sistema educativo a padroneggiare, in primo luogo, certi codici linguistici e comportamentali; in secondo luogo, delle competenze specialistiche. La logica della modernizzazione, per come è stata definita dai sociologi americani dopo il 1945, consiste in questa programmazione culturale degli individui in vista del loro inserimento nell’organizzazione razionalizzata del lavoro.
Certo, la storia della razionalizzazione precede di molto la modernità politica (l’ascesa in Europa dello Stato territoriale tra il XVI e il XIX secolo) e la modernizzazione economica (il trionfo del capitalismo burocratico nel Novecento). Quando Carlomagno lanciava nel IX secolo il suo grande programma di alfabetizzazione dell’antico regno dei Franchi, lo faceva all’interno di un piú ampio piano di centralizzazione imperiale che richiedeva una circolazione uniforme del potere: non c’è divisione del lavoro politico senza standardizzazione delle pratiche e dei codici. Prima ancora, fu un grandioso sforzo di razionalizzazione l’invenzione dello Ius e la sua diffusione capillare in tutto il bacino del Mediterraneo da parte degli antichi Romani: una sola legge, per quanto rispettosa delle differenze comunitarie, con regole di applicazione chiare. In Cina, ancora piú indietro nel tempo, Confucio predicava al principe del regno Wei la «rettificazione dei nomi» (zhengming) per un simile cruccio di governabilità22. La sua riflessione ha influenzato generazioni e generazioni di giuristi, dalla Cina imperiale – di cui viene considerato l’ideologo – ai tempi nostri: infatti nel III secolo a.C. Han Fei faceva evolvere lo zhengming in xingming, «la scienza del rapporto tra i nomi e le forme», al fine di fondare un sistema penale su criteri puramente oggettivi; mentre due millenni dopo, il governo maoista avrebbe lanciato un ulteriore programma di rettificazione, lo zhengfeng, seguendo una logica di modernizzazione forzata che sarebbe sfociata nella rivoluzione culturale23.
Per gli antichi Cinesi, come piú tardi per i Romani e i Franchi, si trattava di perfezionare le tecnologie necessarie ad amministrare vasti territori, garantendo la pace e la prosperità. E come per Hobbes, si trattava di far funzionare nel modo migliore le articolazioni della grande macchina statale, progettando in maniera regolare, ripetibile e calcolabile quelli che la scienza informatica odierna chiamerebbe «protocolli di comunicazione».
Rettificare i nomi significa, in ultima analisi, rettificare i parlanti: la mega-macchina produce gli elementi che la compongono, in modo che possano comunicare tra loro e interagire nella maniera corretta. Per poter fungere da servo-unità della tecnostruttura, il singolo individuo deve essere prodotto egli stesso come tecnologia. Cosí si spiega la fioritura nella Cina dinastica del mastodontico sistema degli esami imperiali, con i suoi funzionari-letterati detti mandarini, ma anche lo sviluppo alla corte di Carlomagno di quella scuola palatina che rivivificò la ricerca filosofica proprio a partire dalla riscoperta di un testo che problematizzava la stabilità della comunicazione umana, il De interpretatione di Aristotele.
Né la divisione del lavoro, né la burocrazia sono invenzioni moderne. Il mondo ha conosciuto società ed economie altamente complesse in tempi e luoghi remoti, dall’antica Roma all’Impero del Mali, passando per Bisanzio, la Cina e i grandi sultanati arabi del Medioevo.
La storia euro-americana degli ultimi cinque secoli rappresenta tuttavia un unicum, perché lo Stato moderno, nel suo processo di sviluppo, ha finito per sottomettere l’intero spazio sociale alla governamentalità burocratica e una parte crescente della sua forza-lavoro al principio della specializzazione. La modernità segna un vero e proprio cambio di scala nel processo di razionalizzazione amministrativa che nasceva con gli imperi: con il suo sistema educativo obbligatorio e gratuito, con il suo sapere scientifico sempre piú globalizzato, manifesta il sogno di una burocrazia universale. O piú precisamente, la sostituzione del mondo con la tecnostruttura.
Proprio come all’altezza dell’età barocca è fiorita, in parallelo con la nascita dello Stato moderno, la domanda di una nuova classe di amministratori della cosa pubblica, allo stesso modo lo sviluppo capitalistico ha richiesto, per garantire il funzionamento dell’organizzazione collettiva del lavoro, una nuova classe di operatori specializzati: una parte addetta ai lavori manuali e una parte (sempre piú importante nelle economie avanzate) addetta alle mansioni cognitive.
Weber ha descritto questa dinamica nel modo piú chiaro, identificando nell’amministrazione burocratica l’essenza stessa dello Stato occidentale moderno. Senza il ricorso a un simile apparato – fondato sulla disciplina, sulla formazione specialistica e successivamente sui progressi nelle telecomunicazioni – «l’esistenza moderna diventerebbe impossibile». Ma allora, a fronte di un simile rapporto di pura dipendenza, sarebbe inutile cercare, come pure si era ostinato a fare Weber, una qualche legittimazione nella tradizione, nel diritto o nel carisma: la sola fonte dell’obbedienza che la società riserva ai competenti risiede nel fatto che non esistono alternative. La famosa metafora della «gabbia» non era stata scelta a caso. La conclusione del sociologo tedesco è rassegnata e ci presenta una dicotomia tecnologica ben piú realistica di quella ideologica:
C’è soltanto la scelta tra la «burocratizzazione» e «dilettantismo» nell’amministrazione ed il grande strumento di superiorità dell’amministrazione burocratica è il sapere specializzato che è reso del tutto indispensabile dalla moderna tecnica ed economia della produzione dei beni, tanto se questa è organizzata in modo capitalistico, quanto se è organizzata su base socialistica24.
O meglio, cosí accadrebbe se gli esseri umani fossero degli orologi; ma poiché siamo un po’ piú complessi di un orologio, l’armonia prestabilita sarà sempre un’approssimazione di come funzionano davvero le cose, un modello idealtipico della società al suo massimo grado di razionalità… Proprio perché la società non funziona e non può funzionare come un orologio, il progetto moderno rischia sempre di andare in crisi.
Tempo fuori sesto.
Se Weber identificava la modernizzazione con una gabbia d’acciaio, forse per nostalgia di un’epoca eroica come quella di Conan il barbaro, in nessun momento sembrava sospettare che la razionalità burocratica potesse generare nuove forme di irrazionalità, intuizione che invece aveva avuto il suo contemporaneo Robert Michels. Bisognerà tuttavia attendere che Robert K. Merton scriva nel 1940 l’articolo Struttura burocratica e personalità per leggere una compiuta critica della ragione amministrativa25.
In queste pagine il sociologo americano individuava una serie di disfunzioni, a partire dalla michelsiana «sostituzione dei fini»26, che diventeranno un topos irrinunciabile di tutta la successiva letteratura su organizzazione e management, ma che piú in generale servono a spiegare perché un sistema funzionante sulla carta fallisca spesso nella realtà. A causa di inevitabili imperfezioni nella progettazione dell’interfaccia e del sistema d’incentivi, tante piccole decisioni formalmente ineccepibili possono portare a risultati opposti a quelli per cui il sistema è stato concepito.
Le disfunzioni possono essere ricondotte alla tendenza generale ad assolutizzare norme e regolamenti. In effetti, l’individuo convertito alla mentalità burocratica finisce per concentrarsi quasi esclusivamente sull’applicazione zelante di alcuni dettagli che dovrebbero essere soltanto strumentali, come il rispetto e l’attuazione letterale di ogni passaggio previsto dalla procedura, invece di tendere alle finalità per le quali la procedura stessa è stata concepita. Tale atteggiamento rischia di degenerare in una situazione (vista all’opera nel precedente capitolo) in cui la conformità alle norme, divenuta un interesse primario, ostacola il raggiungimento degli scopi dell’organizzazione. Questa rigidità, tipica sia dei paradigmi scientifici che delle organizzazioni, porta cosí al fenomeno noto come «incapacità addestrata», al paradosso cioè di formare degli individui che si dimostrano tanto meno efficaci di fronte all’imprevisto quanto piú sono competenti. Le competenze consolidate non soltanto possono mancare l’obiettivo di offrire soluzioni ai problemi nuovi, ma trasmettono ai soggetti un eccessivo senso di sicurezza che li porta a perseverare nell’errore con ostinazione. Spiega Merton:
Generalmente si adottano quei provvedimenti che sono maggiormente in armonia con la propria preparazione professionale e la propria esperienza, e, sotto nuove condizioni, non riconosciute come significativamente differenti, proprio la serietà e la validità di tale preparazione professionale può condurre all’adozione di provvedimenti erronei27.
C’è un ultimo fattore di criticità da prendere in considerazione, sul quale, come abbiamo visto, si erano concentrati i sociologi elitisti. Ogni burocrazia sviluppa uno «spirito di corpo», che porta i suoi membri a difendere i propri interessi di classe piuttosto che quelli dell’intera società: non attraverso l’infrazione di procedure interne, salvo in casi di corruzione, ma precisamente rispettando quelle stesse procedure nel modo piú rigoroso. La rigida applicazione della norma, anche quando si mostra inadeguata al caso particolare, presenta almeno due vantaggi per il competente: da un lato, lo mette al riparo da ogni contestazione; dall’altro, gli consente di fornire il minor sforzo cognitivo possibile.
Il principio di armonia prestabilita che doveva garantire il funzionamento perfetto della mega-macchina rischia in ogni momento di portare al suo malfunzionamento. Il problema sorge quando la minoranza competente inizia a «lavorare per sé», distorcendo i fini collettivi a profitto dei suoi interessi di classe, e facendo della propria funzione una fonte di rendita di posizione. Dai tempi di Carlomagno, se non da quelli dell’Impero romano o cinese, la questione della divisione del lavoro amministrativo è indissociabile da quella della corruzione dei funzionari, ma anche lasciando da parte questa condizione patologica si pone comunque il tema della loro eventuale inefficienza. Ogni organizzazione deve quindi sobbarcarsi i costi ulteriori necessari per controllare le proprie performance ed evitare che l’élite si dedichi soltanto al proprio interesse.
L’eccesso di affinità costituisce una sorta di «cospirazione sostanziale» e una coincidenza – ovviamente occulta – vuole che a occuparsene siano stati soprattutto autori che iniziano con la lettera emme. Oltre ai già citati Mosca, Michels, Merton, Meisel, Mills e Miliband dobbiamo nominarne un settimo, forse meno noto che, prima degli altri e nel modo piú esplicito, aveva ravvisato nella costituzione della classe dei competenti una nuova forma di potere: il rivoluzionario polacco Jan Wacław Machajski.
Come altri protagonisti della storia che stiamo raccontando – da Rizzi a Debord, passando da Castoriadis – Machajski critica i politici socialisti da una prospettiva marxista. Il rivoluzionario ha ben chiaro fin dal 1898 che «la funzione di direzione (...) costituisce il monopolio esclusivo del mondo istruito», composto sia dai borghesi tradizionali, sia dai «mercenari privilegiati dello Stato capitalistico» come i politici, i giornalisti, gli scienziati e i professionisti28. La classe competente, secondo Machajski, vive delle proprie conoscenze e capacità specifiche: è quindi un prodotto della società industriale, che le delega «sempre piú mansioni intellettuali, fino ad allora riservate agli sfruttatori stessi, e crea sempre nuovi campi di attività». In un articolo del 1905 dal titolo La scienza socialista, nuova religione degli intellettuali, con indubbia aggressività Machajski scrive:
La scomparsa dei capitalisti privati non basterebbe a liberare la classe operaia, gli schiavi moderni, dalla condanna a vita al lavoro manuale; perché il plusvalore da loro estratto non scomparirebbe ma verrebbe trasferito nelle mani dello Stato democratico, in qualità di rendita che garantirebbe l’esistenza parassitaria di tutti i razziatori che compongono la società borghese. Quest’ultima, anche dopo la soppressione dei capitalisti, continuerebbe a essere una società di sfruttamento proprio come prima, a opera dei dirigenti e governanti istruiti, con i loro «guanti bianchi»29.
Lo spectaculum spectaculorum della grande macchina dello Stato moderno si fondava sull’idea che fosse possibile aggregare gli interessi dei cittadini-contraenti attraverso una specie di «catena di rappresentazioni» che delegava alla tecnostruttura l’esecuzione della volontà generale. Ciò che Machajski capisce prima di altri è che esiste una divergenza oggettiva – ovvero di classe – tra rappresentanti e rappresentati sulla base dei loro interessi differenti. Una divergenza strutturale, potremmo dire, tra le finalità del sistema controllato (la società) e quelle del sistema controllante (la tecnostruttura), ognuno impegnato a preservare se stesso. La crescente divisione del lavoro – economico, politico, cognitivo – in una società industriale complessa non può che moltiplicare le rendite di posizione e i costi di gestione, trasformandosi cosí in una fonte ricorrente di controproduttività.
È inutile tentare di correggere queste disfunzioni con procedure sempre nuove che inquadrino e normalizzino ogni possibile scarto dalla norma: se è evidente che la principale fonte di abuso è l’insopprimibile elemento umano nella macchina, è altrettanto vero che i margini di libertà devono essere mantenuti per permettere al paradigma di adattarsi agli imprevisti. C’è una differenza lampante tra un orologio e un’organizzazione umana: il primo è fatto di latta e la seconda, come ci mostrava il frontespizio del Leviatano, di esseri viventi dotati, si presume, di libero arbitrio. Questo dettaglio non è privo di conseguenze, perché non va da sé che degli individui liberi si comportino ordinatamente come ingranaggi.
Insomma, la macchina perfetta non è poi cosí perfetta e progressivamente inizia a divergere dalle finalità per le quali è stata programmata. In fin dei conti, lo diceva già Leibniz a proposito dei suoi orologi: il presupposto dell’armonia è che questi siano costruiti con sufficiente skill and accuracy, il che è realistico soltanto all’interno di un esperimento mentale. Gli orologi reali, che non sono perfetti perché in natura non esiste la perfezione, tendono inevitabilmente a desincronizzarsi. Si parla in questo caso di clock drift: l’orologio rallenta impercettibilmente, a un ritmo impossibile da prevedere. Per questo sono stati inventati i cosiddetti orologi atomici, che hanno un clock drift prossimo allo zero e servono da riferimento per tutti gli altri. Il piú accurato, sviluppato all’Università del Colorado, dovrebbe ritardare di un solo secondo ogni quindici miliardi di anni, che è piú della durata prevista dell’intero universo. Poiché l’investimento oneroso rappresentato da una simile tecnologia non ci consente di sostituire ogni orologio con un orologio atomico, dobbiamo accontentarci di orologi imperfetti, lievemente fuori sincrono.
La stessa cosa accade per il sistema di formazione, al quale gli individui si sottopongono per acquisire le competenze specialistiche che permetteranno loro di partecipare alla divisione del lavoro cognitivo. L’effetto della coordinazione all’interno delle organizzazioni umane è simile a quello che vediamo in una scena del film Fracchia la belva umana, in cui il commissario Auricchio, interpretato da Lino Banfi, prima di lanciare un’importante operazione ricorda ai suoi uomini che ogni loro movimento deve essere sincronizzato al secondo:
– Che ora fate?
– Le 10:30!
– 11:15…
– 10:20.
– Le 10:15.
– Le 10:35.
– Facciamo a occhio che è meglio…
È questo il problema fondamentale con cui deve fare i conti la divisione razionale del lavoro: come già ricordato, gli esseri umani non sono orologi perfetti. Hanno interessi, pregiudizi, debolezze, sentimenti, persino buchi di memoria. Sono diversi tra loro e ognuno, per quanto sincronizzato da anni di istruzione, darà un tempo piú o meno differente. La disparità delle condizioni socioeconomiche degli individui porterà a una ricezione disomogenea del segnale, a seconda di quanto è elevato il grado di perdita dell’informazione. Lo stesso Taylor sapeva bene che la condizione fondamentale affinché il suo sistema operasse era la disponibilità di «uomini di prima classe»30. È lecito supporre, in effetti, che in funzione di variabili culturali ed economiche ogni individuo sia piú o meno adatto a eseguire determinate mansioni: alcuni si adopereranno molto bene e altri molto male, spesso perché impiegati in una disciplina che non amano, mentre potrebbero dare il meglio di loro stessi in un altro ambito. Per questo motivo i progressi nella divisione del lavoro consistono nel semplificare sempre di piú le mansioni, in modo da limitare ogni margine di arbitrio individuale e rendere realmente intercambiabili gli individui. Questo vale per la produzione industriale come per la divisione delle competenze all’interno della tecnostruttura.
Inoltre bisogna considerare la disomogeneità del processo formativo che dovrebbe trasferire le medesime competenze a ogni individuo. Ci troviamo di fronte a un classico problema della teoria dell’informazione: in che modo possiamo garantire che un segnale arrivi integro a destinazione? Dipenderà dalla qualità del canale di trasmissione, dalla presenza di rumore, ma anche dalla codifica e dalla decodifica. La storia dell’ultimo secolo, vista con gli occhi della sociologia, ci racconta la tensione a cui è stato sottoposto il sistema educativo per venire incontro alle trasformazioni della società. L’evoluzione della domanda di competenze, che come abbiamo visto è cresciuta in modo significativo, ha portato a un sovraccarico dei canali di trasmissione (scuola e università), a un aumento del rumore ed eventualmente a una codifica meno efficace (cicli di formazione piú brevi o superficiali). L’estensione dell’élite competente non ha portato a un generale allentamento della competenza, ma di sicuro a una differenziazione tra diversi livelli di competenza e alla costituzione di un ampio esercito di «semi-competenti» equamente distribuiti in ogni livello della tecnostruttura. Questo non impedirà alla mega-macchina di funzionare, ma la farà funzionare in modo imperfetto e imprevedibile, sempre in balia dei rischi legati alla rigidità della procedura (che penalizza l’esercizio della competenza nei casi non previsti dalla teoria) e al difetto di competenza (che porta a un uso disfunzionale della tecnologia), tra l’errore tecnico in senso stretto e quel particolare tipo di errore tecnico che è l’errore umano.
Se il processo di formazione serve a garantire l’unità armoniosa della macchina, proprio nella sfera in cui vengono riprodotte le competenze sorgono molte sue disfunzioni. Ecco insomma il segreto oscuro dell’universo ordinato della grande macchina: ogni cosa è razionalizzata, ma tutto è leggermente sfasato. L’incubo della gabbia d’acciaio non è la sua inscalfibile razionalità, ma sono le venature di follia che la percorrono.