3.
Nel suo vivido ritratto del mondo di ieri, ovvero della Vienna prima della caduta dell’Impero austroungarico, Stefan Zweig parlava di un «mondo della sicurezza» ormai perduto1: in effetti, il primo segno del benessere coincide con l’essere al sicuro dai pericoli, dalla miseria, dalla paura. Questo ci riporta alla radice hobbesiana dell’ordine politico moderno, costituito proprio sulla paura. A questa paura lo Stato oppone un sistema di protezione: innanzitutto dell’incolumità fisica, poi della proprietà, infine della libertà di intraprendere e di prosperare.
La nascita dello Stato moderno tra il Cinquecento e il Seicento inaugurava una lunga fase nella quale l’espansione crescente dei poteri pubblici – incaricati appunto di produrre sicurezza – andava di pari passo con lo sviluppo economico, la prima propiziando il secondo e il secondo finanziando la prima. Questo circolo virtuoso richiedeva inoltre crescenti investimenti nella competenza, cioè nel capitale culturale e nella specializzazione professionale degli individui: la sicurezza moderna non consiste soltanto nell’essere al sicuro dai pericoli, ma nell’essere sicuri, nell’essere in grado di capire il funzionamento della natura e di prevedere il corso degli eventi. Per questo Max Weber, un secolo fa, individuava nella razionalizzazione la cifra essenziale dell’età moderna e annunciava l’inesorabile fusione tra capitalismo e burocrazia.
Cosí facendo, l’Occidente ha goduto di vari secoli di espansione. Il ciclo della modernizzazione, tuttavia, è virtuoso solo finché riesce ad auto-sostenersi: ovvero finché gli investimenti in sicurezza e competenza possono essere ripagati con lo sviluppo che generano. Se consideriamo l’ordine politico moderno come un rapporto di scambio ineguale tra un Centro dove si concentra il capitale-competenza e una Periferia che fornisce il lavoro materiale, allora tale rapporto entra in crisi nel momento in cui lo scambio non viene piú ritenuto vantaggioso. Di fronte all’esplosione di nuovi rischi – ecologici, epidemici, finanziari, sociali, tecnologici –, la classe competente fatica a onorare l’antica promessa di sicurezza sulla quale aveva fondato la propria legittimità.
La dinamica della modernizzazione veniva concepita come un circolo virtuoso: riducendo l’incertezza del mondo, gli investimenti in competenza permettevano di generare sviluppo economico, il quale, a sua volta, finanziava nuovi investimenti in competenza. Il successo di questa dinamica ha permesso di legittimare la classe dei competenti presso un’ampia massa che fornisce forza-lavoro in cambio di una quota minoritaria della ricchezza generata; seguendo tale logica, il Novecento ha portato a un’estensione senza precedenti di questa classe di «produttori di sicurezza» composta da intellettuali, manager, scienziati, professori, knowledge workers. La modernizzazione è, per cosí dire, il processo storico che rende ognuno competente: se, in senso stretto, i competenti equivalgono alla sola classe istruita, monopolista del capitale cognitivo, in senso piú ampio competente è l’intera umanità, sempre piú specializzata, prodotta dalla divisione del lavoro.
L’inizio di questa storia secolare può essere situato in diversi momenti: se non già ai tempi dell’invenzione dello Ius romano, allora nella costituzione, nel basso Medioevo, di una classe competente incaricata di somministrare la giustizia; oppure nei primi vagiti di centralizzazione amministrativa che coincidono con la nascita dello Stato moderno; o forse piú tardi, nella rottura culturale costituita dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Proprio in quel periodo appaiono chiaramente i due principî costitutivi dell’ideologia della modernizzazione: razionalità e universalità. Creando le condizioni per l’uguaglianza dei cittadini davanti allo Stato e limitando l’esercizio di poteri intermedi (clan, feudi, autorità religiose ecc.), questi concetti hanno anche propiziato l’avvento della democrazia liberale: un regime basato sulla combinazione tra il principio di sovranità popolare e il principio delle libertà individuali garantite dallo Stato di diritto.
Ma mentre tutti osservavano i principî, si faceva meno attenzione alla schiera di operatori specializzati che teneva in piedi lo spettacolo. Fin dal 1789 sorse un dibattito intellettuale sul trade-off tra i vantaggi dell’economia morale dell’Antico regime, con le sue reti di protezione comunitarie spesso inique e spietate, e quelli del nuovo ordine governato dalla diade Stato-Mercato, con le sue garanzie civili. Dibattito indubbiamente vinto dalla fazione progressista, che nei secoli successivi ha avuto dalla sua gli straordinari risultati economici della modernizzazione. Salvo crisi, che pure erano ricorrenti. Ma ogni crisi diventava l’occasione per rilanciare il ciclo della modernizzazione a un ritmo ancora piú sostenuto: dopo il 1945 si è assistito a un’accelerazione del processo di centralizzazione e burocratizzazione, unita a una crescente internazionalizzazione delle filiere commerciali, ristrutturazione che ha permesso (perlomeno in Occidente) il trionfo della cosiddetta «società opulenta».
Tuttavia il ciclo sicurezza-sviluppo contiene fin dal principio le ragioni del suo cedimento: la dinamica della produzione di sicurezza risponde alla legge dei rendimenti decrescenti, in quanto ogni ulteriore investimento in competenza contribuisce in maniera sempre piú marginale al benessere collettivo. Per non parlare delle crisi che hanno iniziato a manifestarsi con frequenza sempre maggiore: crisi economiche, le quali venivano tamponate conquistando nuovi mercati, abbassando il costo del lavoro oppure ricorrendo al debito; poi, anche a causa di queste soluzioni, nuove crisi sociali e sanitarie. Inoltre il sistema produce inevitabilmente degli scarti, che si aggiungono all’insieme dei rischi da gestire. Mentre riduce l’incertezza da una parte, la razionalità tecnica crea nuova incertezza dall’altra: gli scarti sono di tipo sia materiale (rifiuti del processo di produzione), sia umano (esclusi dal processo di riproduzione) e procedurale (effetti di secondo ordine iatrogeni).
Costretto all’espansione dalla sua dinamica interna, il paradigma entra ben presto in una fase di stiramento, nella quale gli investimenti vengono ripagati sempre meno: questo squilibrio apre una crisi di legittimità che rimette in discussione lo scambio ineguale tra competenza e forza-lavoro. In questa fase, malgrado i risultati insoddisfacenti, a breve-medio termine apparirà comunque piú razionale proseguire seguendo le regole dell’assetto in vigore. Tuttavia, di fronte all’incapacità delle istituzioni di soddisfare integralmente i bisogni creati dalla loro stessa esistenza (bisogno di riconoscimento, di sicurezza, di salute), si creano le condizioni per un’ondata di ripiego identitario attraverso processi locali di dissimilazione dalla narrazione modernizzatrice: radicalismo religioso, xenofobia, rifiuto del consenso scientifico. A questo punto, la sottoclasse «disagiata» degli esclusi dal processo di riproduzione dell’élite competente può decidere di associarsi ad altre classi per tentare di rovesciare il paradigma dominante e imporne un altro – che potrebbe mostrarsi a medio-lungo termine piú efficace. Ma se questa strategia di distruzione creatrice permette in rari casi di riavviare un nuovo ed efficiente ciclo economico-politico (quando esistono le opportune condizioni storiche), piú spesso essa porta alla catastrofe e al declino.
Alla massa critica di risentimento che si è accumulata negli ultimi decenni non si riesce a opporre altro che una gestione muscolare dell’ordine pubblico; alla caduta delle strutture comunitarie non si trova altro palliativo che la militarizzazione dello spazio urbano. La necessità di amministrare una crescente mole di rischi rende la società sempre piú dipendente da una tecnostruttura altamente qualificata, che la società stessa riesce a finanziare e legittimare sempre meno.
2.
Nel 1964, sul quarto numero della rivista antologica «Futuro» Lino Aldani pubblica un racconto intitolato Trentasette gradi2. Vi si immagina una civiltà distopica nella quale i medici hanno preso il potere, imponendo a tutti di essere sani. In ogni momento della loro esistenza, i cittadini sono controllati da agenti della Convenzione Medica Generale, i quali si assicurano che siano vestiti adeguatamente, abbiano preso le loro medicine e non corrano rischi. L’intera vita in questa «esculapiocrazia» gira intorno alla salute: non soltanto si lavora per pagare la Convenzione Medica, ma si vive in una condizione di angoscia costante nella speranza di non ammalarsi. L’esistenza umana è interamente sussunta entro il regno della precauzione e il dominio degli esperti. Due anni dopo, il racconto viene citato in un articolo della rivista francese «Esprit» dedicato alla fantascienza, che cogliendone l’evidente messaggio di satira sociale conclude: «La paura della morte ha condotto una società a instaurare uno stile di vita che non merita piú di essere vissuto»3. Come abbiamo già detto, questa paura è, dai tempi di Hobbes, il fondamento dell’ordine moderno – l’ordine della sicurezza.
Che cosa renda una vita degna di essere vissuta è piuttosto soggettivo, e ai lamenti dei guastafeste – romantici, asceti, anarchici, santoni, ciarlatani o ipocriti che siano – la modernizzazione ha sempre saputo contrapporre i suoi straordinari risultati. I lamenti sono diventati anch’essi un segmento di mercato. La razionalità amministrativa è apparsa a lungo come la soluzione piú efficace per ridurre l’incertezza e garantire la sicurezza. Via via che hanno iniziato ad aumentare i rischi da gestire, si sono sciolte progressivamente tutte le potenziali alternative: ogni cosa è stata assorbita nella sfera della competenza, surrogando cosí ogni funzione sociale spontanea e riducendo lo spazio lasciato alla decisione democratica. In effetti, se qualcosa appare «sicuro» sotto il profilo della razionalità allora non c’è piú bisogno di discuterlo. A cosa servono, a quel punto, gli scrutini e le assemblee? Come ha scritto un attento analista della storia dell’amministrazione:
L’impressione è che quei regimi politici che chiamiamo democrazie liberali si siano progressivamente trasformate in un sistema sempre piú complesso e che questa trasformazione abbia visto aumentare lo spazio della tecnocrazia, fondata sul principio di competenza, a danno della politica rappresentativa, fondata sul principio democratico4.
La democrazia ha delle condizioni di esistenza: se ne sono accorti tutti coloro che, in passato, hanno provato a esportarla; se ne sono accorti coloro che prima l’hanno avuta e poi l’hanno persa, in seguito a una qualche catastrofe storica che ha dissolto quelle precondizioni; e ce ne siamo accorti pure noi quando, per contrastare l’epidemia di COVID-19, sono state sospese certe elementari garanzie costituzionali in nome della forza maggiore e l’intera società, «commissariata» sulla base di pareri tecnici, si è consegnata temporaneamente a una sorta di tecnocratura – crasi di tecnocrazia e dittatura, forma contemporanea del «dispotismo amministrativo» intravisto da Toqueville due secoli or sono. È questa la Grande Trasformazione denunciata da Giorgio Agamben, ma contrariamente ad Agamben facciamo fatica a vedere come avremmo potuto sottrarci alla sua implacabile logica securitaria.
Con questa crisi abbiamo assistito semplicemente all’accelerazione di un processo, già in atto da anni, di adattamento delle strutture politiche a un mondo sempre piú popolato da rischi ed emergenze. E se fossimo stati democratici soltanto finché abbiamo potuto permettercelo? Il «congelamento» tecnocratoriale della democrazia liberale è stato giustificato in forza dell’eccezionalità della situazione, ma a un certo punto siamo stati costretti a chiederci: cosa succederebbe se le condizioni ideali non tornassero piú? Perché dietro all’onda dell’epidemia segue, ancora piú grossa, l’onda della crisi climatica, accompagnata da tante altre minacce alla sicurezza dell’umanità. Insomma, non sembra esserci altra opzione che affidarsi al dominio della competenza tecnica.
Quali condizioni ci sono oggi per sperare che si possa riavviare un ciclo all’altezza del precedente? Se vengono a galla sempre nuovi bisogni e diritti da promuovere, apparentemente sono finiti i continenti da conquistare e le risorse naturali da sfruttare. C’è una ragione per cui, all’altezza dei nostri giorni, abbiamo l’impressione di vivere contemporaneamente una crisi economica e una crisi ecologica e una crisi epistemologica e una crisi politica e una crisi sociale e una crisi culturale, tutte terminali e ciascuna determinata da logiche endogene, una coincidenza impressionante che potrebbe anche suggerirci che stiamo solo proiettando sulle cose le nostre categorie apocalittiche: e invece la spiegazione è che ogni crisi può essere neutralizzata «scaricandola» su un altro piano, da un sottosistema all’altro. Ma arriva il momento in cui i piani disponibili terminano e i sottosistemi iniziano a saltare in aria tutti insieme come fusibili. Dopo qualche decennio passato a scaricare i nostri problemi da un insieme all’altro, era inevitabile che prima o poi quei problemi riemergessero.
Per un paio di secoli la logica dello sviluppo è consistita nel trovare sempre nuovi piani sui quali scaricare le anomalie prodotte dalla saturazione dei piani precedenti, illudendoci che fossero infiniti e che le funzioni di produzione – del sapere, del benessere, della sicurezza – fossero lineari, mentre invece sono logistiche, irrimediabilmente destinate ai rendimenti decrescenti. Il Novecento è stato, in questo senso, la grande pattumiera in cui è stata occultata la crisi dell’imperialismo occidentale. Oggi infatti non c’è nessuna curva, nemmeno una, che non mostri che la fine è già iniziata. Ma se i sottosistemi entrano in crisi uno dopo l’altro come tessere di un domino è perché il sistema della competenza, nel suo complesso, è arrivato al suo stiramento definitivo. Il problema è che questo benessere ci costa sempre di piú. Cosa succederebbe se non potessimo piú permettercelo? A poco serve elencare quante vite salvate, quante sacche di povertà debellate, quanti razzi spediti nello spazio: il problema è ciò che rischia di succedere nel momento in cui non riuscissimo piú a finanziare i dispositivi che tengono sotto controllo gli effetti collaterali del sistema. E questo momento sembra già iniziato.
Il capitalismo si era proposto come l’unico paradigma in grado di gestire i pasticci da esso stesso combinati, soprassedendo su quanti ne avrebbe combinati ancora. Oggi, portando all’estremo la traiettoria della modernizzazione, l’emergenza sanitaria ha tentato di far evolvere gli ordinamenti democratici in qualcosa di piú simile al modello cinese: un sistema piú razionalizzato, centralizzato e gerarchizzato. L’eclissi dei piú elementari diritti civili sembra sollevare solo poche timide obiezioni di fronte alla nostra paura animale per la sopravvivenza. «Non c’è alternativa»: dobbiamo accelerare o morire. Il progresso tecnologico prometteva di liberare l’umanità; ha finito invece per scaraventarci nella «gabbia d’acciaio» intravista da Max Weber. Forse ci salverà dalle malattie, isolandoci da ogni contatto con il mondo esterno e imponendoci il trionfo definitivo della separazione generalizzata; ma quello che oggi ci sembra un rifugio sicuro potrebbe presto rivelarsi come il luogo del pericolo piú grande.
1.
Quando morí nel 1920, Max Weber era una vittima della quarta ondata della cosiddetta febbre spagnola, che aveva iniziato a circolare nella primavera di due anni prima. A cinquantasei anni, il pensatore tedesco aveva posto le basi per un’intera disciplina – la sociologia – e tra le righe aveva consegnato al secolo un problema di filosofia della storia che tanti avrebbero tentato di risolvere: possiamo deviare dal destino che prevede, a ogni latitudine, una crescente razionalizzazione amministrativa dell’esistenza?
Il sociologo era stato il profeta di una società che iniziava a delegare sempre piú funzioni autonome a una classe d’individui competenti, rendendosene dipendente. Pur attraversato dall’inquietudine di un mondo del tutto burocratizzato, Weber sembrava sicuro della capacità del paradigma di garantire sistematicamente il livello ideale di razionalità per cui era stato progettato. Men che meno, sospettava della disfunzione che avrebbe portato il sistema stesso a pretendere sacrifici sempre maggiori. Cosí pare realizzarsi, con un aggiustamento che assomiglia a un rovesciamento, la celebre profezia di Francis Fukuyama sulla fine della Storia: non sarebbe la società liberale a costituire il «destino» dell’umanità, bensí la modernizzazione, che tutto annienta al suo passaggio – inclusa la società liberale.
Per sopravvivere ai rendimenti decrescenti, il sistema è entrato nella fase piú acuta della grande ristrutturazione che stiamo vivendo ormai da mezzo secolo. Questo ennesimo passo in avanti sembra richiedere però un sacrificio enorme: quello, definitivo, della democrazia. In effetti, la modernizzazione era una condizione necessaria della democrazia, ma non sufficiente: a questo punto della nostra storia è opportuno riflettere sulla possibilità che la prima sopravviva alla seconda – cioè che si apra una fase di modernizzazione senza democrazia.
Ai competenti appare impossibile gestire le conseguenze dello sviluppo senza rinunciare a quei principî non-negoziabili che hanno caratterizzato la democrazia liberale negli ultimi due secoli, ma che oggi sembrano renderla vulnerabile di fronte ai rischi che deve fronteggiare: libertà di espressione, libertà di mobilità ecc. La modernizzazione, per bocca dei suoi sacerdoti (tecnici e organizzatori), richiede a gran voce di entrare in una nuova fase, in cui il dominio della razionalità lascia sempre meno spazio agli imprevisti: la società deve essere definitivamente prosciugata da tutte le sue funzioni autonome, le quali vanno delegate al sistema della competenza.
Se la finzione della sovranità popolare è stata definitivamente annientata dalla logica della decisione tecnica, essa rimane tuttavia nella forma mitizzata fornita dalla retorica populista: facciata che serve a mascherare la danza armoniosa degli ingranaggi della tecnostruttura. L’inconfessabile verità è che oggi nessuna forza politica intende prendersi la responsabilità di abbattere la tecnostruttura da cui dipendono le piú elementari condizioni di sussistenza. Si offrono a questo punto diverse strade, esaminate in alcuni contributi recenti, tra le quali quella del «tecnopopulismo» – coesistenza tra una carrozzeria populista e un motore tecnocratico5 – e quella di una sottomissione sempre maggiore delle tecnostrutture agli interessi nazionali in nome della logica del «capitalismo politico», sulle orme del modello cinese6.
Il meccanismo della competenza, per come è concepito oggi, è una fondamentale fonte di ineguaglianza e di fragilità sistemica. Esso non solo definisce le modalità di selezione sociale e le differenze di reddito associate alle posizioni professionali, non solo fallisce nel trasmettere conoscenze utili e credenziali decifrabili, non solo richiede un crescente ricorso al debito per finanziare la capitalizzazione culturale, ma piú in generale fa pesare sull’intera economia il suo costo crescente. Ripensare questo sistema (che talvolta viene definito «meritocratico») permetterebbe un ricambio sociale piú fluido, un’inclusione maggiore delle minoranze e un impiego piú giusto delle risorse collettive.
Per quanta competenza uno possa avere, o pretendere di avere, su molte questioni fondamentali nessuno saprebbe fare previsioni piú precise di quelle che si otterrebbero lanciando una moneta. Fingere che non sia cosí è sicuramente utile per dare forza alle nostre decisioni, ma questa finzione necessaria ha tre conseguenze spiacevoli: ci porta a ostinarci nei nostri errori; ci costa piú di quanto serva realmente; infine erode il capitale di fiducia nella competenza su cui è fondato l’ordine sociale. L’immensa macchina che abbiamo costruito serve solo in parte a limitare l’incertezza del mondo; una parte considerevole delle risorse che spendiamo per farla funzionare serve soprattutto a darci l’illusione che siamo in grado di tenere sotto controllo questa incertezza. Ma tale illusione è diventata oggi fin troppo costosa. In certi casi, lanciare una moneta potrebbe risultare una pratica non molto piú imprecisa che richiedere il parere di un esperto. E ci costerebbe molto meno.
Probabilmente la storia della modernizzazione non può fare altro che proseguire, attraverso una crescente divisione del lavoro sia materiale che cognitivo. Quanto alla storia della democrazia, potrebbe aver definitivamente fatto il suo tempo. È stata necessaria al pieno sviluppo delle forze produttive in una precisa fase storica; oggi sembra solo un intralcio al dispiegamento della tecnostruttura in nome della nostra sicurezza. Di fronte al trionfo dei competenti, divenuti i mediatori di ogni nostra funzione vitale, la vecchia democrazia ci appare già come il ricordo di un’altra epoca. Eppure non è scontato che le società post-industriali, portatrici dei valori e degli affetti del vecchio mondo liberale, sopportino senza reagire la gigantesca ristrutturazione necessaria per salvare il capitalismo occidentale dal suo stiramento. Al cuore di un sistema fondato sulla paura del rischio, imprevista sale la tentazione della catastrofe.
0.
La storia della Ragione non è altro in fondo che la storia della sua bancarotta. In una civiltà che aveva affidato la legittimazione dei propri poteri alla sola dinamica dello sviluppo – entrato in crisi ormai da mezzo secolo dopo averci regalato una parentesi di prosperità che pareva eterna –, economia e politica si trovano abbracciate nella caduta, come lo erano nell’ascesa. È il suono sordo dell’impatto quello che già sentiamo su di noi, ma rallentato al punto che ci siamo convinti si tratti solo di un rumore di fondo. Il nostro tempo è passato e il mondo in cui siamo cresciuti appartiene già a ieri.