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Il venerdì seguente, quando arrivò in redazione con il suo pacchetto con pane e frittata, Pereira vide, sostiene, una busta che faceva capolino dalla cassetta delle lettere del “Lisboa”. La prese e se la mise in tasca. Sul pianerottolo del primo piano trovò la portiera che gli disse: buongiorno dottor Pereira, c’è una lettera per lei, è un espresso, l’ha portata il postino alle nove, ho dovuto firmare io. Pereira borbottò un grazie fra i denti e continuò a salire le scale. Mi sono presa questa responsabilità, continuò la portiera, ma non vorrei avere seccature, visto che non c’è il mittente. Pereira ridiscese tre scalini, sostiene, e la guardò in viso. Senta, Celeste, disse Pereira, lei è la portiera e tanto mi basta, lei è pagata per fare la portiera e riceve uno stipendio dagli inquilini di questo palazzo, fra questi inquilini c’è anche il mio giornale, ma lei ha il difetto di ficcare il naso nelle cose che non la riguardano, dunque, la prossima volta che arriva un espresso per me, lei non lo firmi e non lo guardi, dica al postino di ripassare più tardi e di consegnarmelo personalmente. La portiera poggiò al muro la scopa con cui stava pulendo il pianerottolo e mise le mani sui fianchi. Dottor Pereira, disse, lei crede di parlarmi in questo modo perché io sono una semplice portiera, ma sappia che ho amicizie altolocate, persone che mi possono proteggere dalla sua maleducazione. Lo suppongo, anzi lo so, sostiene di aver detto Pereira, è proprio questo che non mi piace, e ora arrivederci.

Quando aprì la porta della sua stanza Pereira si sentiva spossato e era in un bagno di sudore. Accese il ventilatore e si sedette alla sua scrivania. Depositò il pane e frittata su un foglio della macchina per scrivere e prese la lettera di tasca. Sulla busta c’era scritto: Dottor Pereira, “Lisboa”, Rua Rodrigo da Fonseca 66, Lisbona. Era una calligrafia elegante a inchiostro azzurro. Pereira posò la lettera accanto alla frittata e accese un sigaro. Il cardiologo gli aveva proibito di fumare, ma ora aveva voglia di tirare due boccate, magari poi l’avrebbe spento. Pensò che avrebbe aperto la lettera più tardi, perché per il momento doveva organizzare la pagina culturale per l’indomani. Pensò di rivedere l’articolo per la rubrica “Ricorrenze” che aveva scritto su Pessoa, ma poi decise che andava bene così. Allora si mise a leggere il racconto di Maupassant che aveva tradotto lui stesso, per vedere se c’erano correzioni da fare. Non ne trovò. Il racconto era perfetto e Pereira si congratulò con se stesso. Questo lo fece sentire un po’ meglio, sostiene. Poi tirò fuori dalla tasca della giacca un ritratto di Maupassant che aveva trovato in una rivista della biblioteca municipale. Era un ritratto a matita, fatto da un pittore francese sconosciuto. Maupassant aveva un’aria disperata, con la barba incolta e gli occhi persi nel vuoto, e Pereira pensò che era perfetto per accompagnare il racconto. Del resto era un racconto di amore e di morte, ci voleva un ritratto che pendesse verso il tragico. C’era bisogno di una finestrina in mezzo all’articolo, con le basiche notizie biografiche di Maupassant. Pereira aprì il Larousse che teneva sulla scrivania e si mise a copiare. Scrisse: «Guy de Maupassant, 1850-1895. Con il fratello Hervé ereditò dal padre una malattia di origine venerea, che lo condusse prima alla pazzia e poi, giovane, alla morte. Partecipò a vent’anni alla guerra franco-prussiana, lavorò presso il ministero della marina. Scrittore di talento, di visione satirica, descrisse nelle sue novelle le debolezze e la vigliaccheria di una certa società francese. Scrisse anche romanzi di grande successo come Bel-Ami e il romanzo fantastico Le Horla. Colto da crisi di follia fu ricoverato nella clinica del dottor Blanche, dove morì povero e derelitto».

Poi prese il pane e frittata e gli dette tre o quattro morsi. Il resto lo buttò nel cestino perché non aveva fame, faceva troppo caldo, sostiene. A quel punto aprì la lettera. Era un articolo scritto a macchina, su carta velina, e il titolo diceva: È scomparso Filippo Tommaso Marinetti. Pereira sentì un tuffo al cuore perché senza guardare nell’altra pagina capì che chi scriveva era Monteiro Rossi e perché capì subito che quell’articolo non serviva a niente, era un articolo inutile, lui avrebbe voluto un necrologio di Bernanos o di Mauriac, che probabilmente credevano nella resurrezione della carne, ma quello era un necrologio di Filippo Tommaso Marinetti, che credeva nella guerra, e Pereira si mise a leggerlo. Era proprio un articolo da cestinare, ma Pereira non lo cestinò, chissà perché lo conservò, ed è per questo che può produrlo come documento. Cominciava così: «Con Marinetti scompare un violento, perché la violenza era la sua musa. Aveva cominciato nel 1909 con la pubblicazione di un Manifesto Futurista su un giornale di Parigi, manifesto in cui esaltava i miti della guerra e della violenza. Nemico della democrazia, bellicoso e bellicista, esaltò poi la guerra in uno strambo poemetto intitolato Zang Tumb Tumb, una descrizione fonica della guerra d’Africa del colonialismo italiano. E la sua fede colonialista lo portò a esaltare l’impresa libica italiana. Scrisse fra l’altro un manifesto ributtante: Guerra sola igiene del mondo. Le fotografie ci mostrano un uomo con pose arroganti, i baffi arricciati e la casacca da accademico piena di medaglie. Il fascismo italiano gliene ha conferite molte, perché Marinetti ne è stato un accanito sostenitore. Con lui scompare un losco personaggio, un guerrafondaio...».

Pereira smise di leggere la parte battuta a macchina e passò alla lettera, perché l’articolo era accompagnato da una lettera scritta a mano. Diceva: «Egregio dottor Pereira, ho seguito le ragioni del cuore, ma non è colpa mia. Del resto lei stesso mi ha detto che le ragioni del cuore sono le più importanti. Non so se è un necrologio pubblicabile, e poi magari Marinetti camperà altri vent’anni, chissà. A ogni modo, se volesse mandarmi qualcosa gliene sarei grato. Io per ora non posso passare in redazione, per ragioni che non le sto a spiegare. Se vuole mandarmi una piccola somma a sua discrezione può infilarla in una busta a mio nome e indirizzarla alla casella postale 202, Posta Centrale, Lisbona. Io mi farò vivo per telefono. I migliori saluti e auguri dal suo Monteiro Rossi».

Pereira infilò il necrologio e la lettera in una cartellina dell’archivio e sulla cartella scrisse: Necrologi. Poi indossò la giacca, numerò le pagine del racconto di Maupassant, raccolse i suoi fogli dal tavolo e uscì per portare il materiale in tipografia. Sudava, si sentiva a disagio e sperava di non incontrare la portiera sulle scale, sostiene.