Mi dispiace, disse il Tassista, ma non conosco Rua das Pedras Negras, il signore non può fornirmi indicazioni supplementari? Sorrise un sorriso pieno di denti bianchi e continuò: scusi sa, io sono di São Tomé, lavoro a Lisbona da un mese, non conosco le strade, al mio paese ero ingegnere, ma non c’è tanto da ingegnarsi al mio paese, di modo che sono qui a fare il tassista e non conosco le strade, conosco bene la città, questo sì, non mi perdo mai, solo che non conosco il nome delle strade. Oh, dissi io, è una strada che frequentavo venticinque e passa anni fa, neanche più mi ricordo come ci si vada, ad ogni modo resta dalle parti del Castello. Allora per intanto andiamo lì, disse il Tassista sorridendo, e partì in quarta.
Solo allora mi resi conto che grondavo sudore. Avevo la camicia fradicia, incollata alle spalle e sul petto. Mi tolsi la giacca, ma anche così continuavo a sudare. Senta, dissi, forse lei mi può aiutare, ho la camicia completamente zuppa, avrei bisogno di comprare una camicia nuova, è capace di darmi un suggerimento? Il Tassista frenò e mi guardò. Si sente male?, mi chiese con aria preoccupata. No, risposi io, non so, credo di no, dev’essere il caldo, il caldo e un attacco d’ansia, a volte l’ansia fa sudare, avrei bisogno di mettermi una camicia pulita. L’uomo accese una sigaretta e si mise a pensare. Oggi è domenica, disse, e i negozi sono chiusi. Tentai d’aprire il finestrino dalla mia parte, ma la manovella era scassata, il che aumentò la mia ansia, sentivo il sudore inondarmi la fronte e delle gocce mi caddero sui ginocchi. Il Tassista mi guardava afflitto. Senta, disse allora, mi è venuta una magnifica idea, le do la mia camicia, non vuol mettersi la mia camicia? Neanche per sogno, dissi io, mica può guidare a torso nudo. Porto la canottiera sotto, replicò lui, in canottiera posso. Ma ci sarà pure un posto in tutta Lisbona dove si possa comprare una camicia, dissi, magari un centro commerciale, un mercato, o no? Carcavelos!, esclamò il Tassista raggiante, la domenica dev’esserci una fiera a Carcavelos, io ci abito, mia moglie tutte le domeniche va a far compere alla fiera di Carcavelos, o forse è di giovedì. Non so, dissi io, ma non mi sembra una bella pensata, Carcavelos è una spiaggia, oggi è domenica, dev’essere piena di gente, capace che è un orrore, qui a Lisbona non le viene in mente niente? L’uomo si batté la mano sulla fronte. Gli zingari!, esclamò, mi ero scordato degli zingari! Di nuovo sorrise il suo grande sorriso candido e disse: senta amico mio, stia tranquillo, ce l’avrà la sua camicia, mi sono ricordato che di domenica gli zingari vendono della roba all’ingresso del Cimitero dos Prazeres, vendono di tutto, scarpe, vestiti, camicie e camiciole, andiamo dagli zingari, il mio solo problema è che non so come arrivarci, voglio dire, so vagamente dove sta il Cimitero dos Prazeres ma non conosco la strada per andarci, lei, amico mio, è in grado di darmi una mano? Vediamo, dissi, anch’io sono un po’ confuso, vediamo di studiare la situazione, dov’è che ci troviamo? Siamo al Cais do Sodré, disse il Tassista, sull’Avenida, quasi di fronte alla stazione dei treni. Ecco, dissi io, credo di saperci arrivare, ma intanto prendiamo su per la Rua do Alecrim, vorrei passare dalla Brasileira a comprare una bottiglia. Il Tassista fece il giro della piazza e cominciò a salire per la Rua do Alecrim, accese la radio e guardò di traverso verso di me. È proprio vero che non si sente male?, domandò. Lo tranquillizzai e mi lasciai andare sul sedile. Ora ero per davvero in un bagno di sudore. Sbottonai i primi bottoni della camicia e mi arrotolai le maniche. Resto qui ad aspettarla a motore acceso, disse l’uomo accostando all’angolo di Largo Camões, ma faccia in fretta per piacere, perché se salta fuori una guardia mi manda via. Scesi dal tassì, lo Chiado era deserto, una donna vestita di nero con una borsa di plastica era seduta sotto la statua di António Ribeiro Chiado, entrai nella Brasileira ed il cameriere al banco mi guardò con l’aria di prendermi in giro, il signore è cascato nel Tago?, mi chiese. Peggio, dissi io, c’è un fiume dentro di me, ha dello champagne francese? Laurent-Perrier e Veuve Cliquot, rispose lui, tutti e due allo stesso prezzo, e freschi freschi. Quale mi consiglia?, domandai. Senta, fece lui con l’aria di chi se ne intende, al Veuve Cliquot fanno un sacco di pubblicità, a leggere le riviste sembra che sia lo champagne migliore del mondo, ma io lo trovo un pochettino acido, e poi non mi piacciono le vedove, mai piaciute, insomma, se fossi in lei comprerei il Laurent-Perrier, a parte che costa lo stesso, come le ho detto. Sta bene, dissi io, compro il Laurent-Perrier. Il cameriere aprì il frigorifero, avvolse la bottiglia in un foglio di carta e l’infilò in un sacchetto di plastica con su scritto a lettere rosse: “Brasileira do Chiado, il più antico caffè di Lisbona”. Pagai, uscii sotto il sole a sudare in maniera invereconda ed entrai nel tassì. Bene bene, disse il Tassista, ora deve indicarmi la strada. È facile, dissi io, entra nel Largo Camões e lì, dove c’è la gioielleria Silva, prende quella strada in discesa, è la Calçada do Combro, poi prende la Calçada da Estrela, quando arriva al Largo da Estrela infila la Domingos Sequeira fino a Campo de Ourique, lì deve cercare sulla sinistra la Saraiva de Carvalho che ci porta dritti dritti al Largo del Cimitero dos Prazeres. Amico mio, disse il Tassista partendo in quarta, mi farà il favore d’indicarmi le strade una per una, scusi sa, abbia pazienza. Per piacere, dissi io, mi lasci chiudere gli occhi per qualche minuto, sono esausto, mi creda, è facile da tenere a mente: Calçada do Combro, Calçada da Estrela, Largo da Estrela, Domingos Sequeira, Campo de Ourique, quando siamo arrivati a Campo de Ourique le dico.
Finalmente ero riuscito ad aprire il finestrino, ma l’aria che entrava era torrida. Chiusi gli occhi e pensai ad altre cose, alla mia infanzia, mi ricordai di quando era estate e andavo in bicicletta a prendere l’acqua fresca alle “caroline”, con la bottiglia nel cestino di paglia. Una frenata brusca mi fece riaprire gli occhi. L’uomo era uscito dal tassì e si guardava attorno con aria desolata. Mi sono sbagliato, disse, vede?, mi sono sbagliato, siamo a Campo de Ourique, io ho preso a sinistra la strada che lei mi aveva detto, ma non credo che sia la Saraiva de Carvalho, ho preso un’altra strada che è in senso vietato, guardi un po’, tutte le macchine sono parcheggiate contromano, mi sono infilato in un senso vietato. Niente di male, replicai, l’importante è che abbia svoltato a sinistra, adesso ci facciamo questo senso vietato e arriviamo a Largo dos Prazeres. Il Tassista si portò una mano sul cuore e disse con aria grave: non posso, il signore mi scuserà ma proprio non posso, la mia licenza di tassista non è ancora in ordine, se salta fuori una guardia mi dà una multa spropositata e poi lo sa cosa mi succede?, mi tocca tornarmene a São Tomé, ecco cosa mi succede, il signore mi scusi ma non posso proprio. Guardi, dissi io, la città è deserta, in ogni caso non si preoccupi, se salta fuori una guardia ci parlo io, la multa la pago io, mi prendo tutta la responsabilità, glielo garantisco, non vede come sto sudando?, ho bisogno di una camicia, anche di due forse, per favore, non vorrà che mi senta male qui in questa strada sconosciuta di Campo de Ourique, no?
Non avevo nessuna intenzione di minacciarlo, stavo parlando sul serio, ma lui evidentemente prese le mie parole per una minaccia, perché si affrettò a risalire sul tassì e rimise in moto senza protestare. Come vuole il signore, disse in tono rassegnato, non voglio che si senta male nel mio tassì, non ho la licenza in ordine, capisce o no?, per me sarebbe una rovina. Percorremmo in senso vietato tutta la strada che forse era proprio la Saraiva de Carvalho, non so, e sbucammo sul Largo dos Prazeres. Gli zingari stavano proprio all’entrata del cimitero, avevano messo su un piccolo mercato con bancarelle di legno e pezze stese al suolo. Scesi dal tassì e dissi all’uomo di stare lì ad aspettarmi. Il Largo era deserto e gli zingari dormivano per terra. Mi avvicinai al banco di una vecchia zingara vestita di nero con un fazzoletto giallo in testa. Sul suo banco c’era una montagna di magliette Lacoste impeccabili, solo che non avevano il coccodrillo al suo posto. Zingara, chiamai, voglio fare acquisti. Ma che cos’hai, figlio mio?, chiese la Vecchia Zingara alla vista della mia camicia, hai la malaria o che? Non so che cosa ho, zingara, risposi, so solo che ho sudato come un cavallo, ho bisogno di una camicia pulita, magari di due. Dopo te lo dico io che cos’hai, disse la Vecchia Zingara, dopo te lo dico, ma intanto compra le camicie, figliolo, non puoi restare in queste condizioni, se il sudore ti si secca sulle spalle ti fa venire un malanno. Cosa mi consigli, domandai, una camicia o una maglietta? La Vecchia Zingara sembrò che pensasse un momento. Ti consiglio una maglietta Lacoste, disse poi, tengono un bel freschino, se vuoi una Lacoste falsa costa cinquecento escudos, una autentica cinquecentoventi. Accidenti, dissi io, una Lacoste a cinquecentoventi mi sembra proprio a buon mercato, ma che differenza c’è tra la falsa e l’autentica? Avere una Lacoste autentica è una stupidaggine, disse la Vecchia Zingara, prima compri la falsa, che costa cinquecento, poi compri il coccodrillo che ne costa venti ed è autocollante, incolli il coccodrillo al suo posto e così hai una maglietta autentica. Mi indicò un sacchettino pieno di coccodrilli. Per di più, disse, per venti escudos di coccodrilli te ne do quattro, figliolo, così ne hai tre di riserva, che tante volte questi autocollanti non valgono niente, si scollano. Mi pare una proposta molto ragionevole, dissi io, voglio comprare due Lacoste autentiche, che colore mi consigli? A me piacciono rosse o nere, che sono i colori degli zingari, disse lei, ma con questo sole il nero non è l’ideale, perché tu devi essere molto delicato, e il rosso è troppo vistoso, non ce l’hai più l’età per vestirti di rosso. Non sono neanche vecchio, protestai, un colore allegro posso portarlo. Ti consiglio il celeste, disse la Vecchia Zingara, il celeste mi pare il colore ideale per te, e adesso, figlio mio, te lo dico io cos’hai e perché stai sudando in questa maniera penosa, senti, per duecento escudos in più ti dico tutto, quel che stai facendo e quel che ti aspetta in questa domenica di caldo, lo vuoi conoscere il tuo destino? La Vecchia Zingara si appropriò della mia mano sinistra e guardò con molta attenzione il palmo aperto. È un po’ complicato, figliolo, disse la Vecchia Zingara, è meglio che ci sediamo qui sulla panca. Io mi sedetti, ma lei non mi lasciò la mano. Figlio, disse la vecchia, ascolta, così non può andare, non puoi vivere da due parti, dalla parte della realtà e dalla parte del sogno, così ti vengono le allucinazioni, sei come un sonnambulo che attraversa un paesaggio a braccia tese e tutto quello che tocchi entra a far parte del tuo sogno, anch’io, che sono vecchia e grassa e peso ottanta chili, mi sento dissolvere nell’aria a toccarti la mano, come se anch’io facessi parte del tuo sogno. E cosa devo fare?, domandai, di’ un po’, Vecchia Zingara. Per adesso non puoi fare niente, rispose lei, questo giorno ti aspetta e tu non puoi sfuggirgli, non puoi sfuggire al tuo destino, sarà un giorno di tribolazione ma anche di purificazione, forse poi sarai in pace con te stesso, figliolo, perlomeno è quel che ti auguro. La Vecchia Zingara accese un sigaro e aspirò il fumo. Ma dammi la mano destra, disse, così finisco di dirti tutto per benino. Guardò attentamente e mi accarezzò il palmo con le sue dita ruvide. Vedo che devi far visita ad una persona, disse, ma la casa che vai cercando esiste solo nella tua memoria o nel tuo sogno, puoi dire al tassì che ti sta aspettando che ti lasci qui, anche la persona che cerchi sta qui vicino, oltre quel portale. Fece un cenno verso il cimitero e disse: vai, figlio mio, va’ all’incontro che ti aspetta. La ringraziai e andai a raggiungere il Tassista. Sono arrivato, resto qui, dissi tirando fuori il portafoglio per pagare, grazie mille, è stato davvero gentile. Le magliette sono proprio simpatiche, disse il Tassista guardando le Lacoste che tenevo ripiegate sottobraccio, ha fatto un buon acquisto, amico mio. Presi la mia giacca e la bottiglia di champagne. Il Tassista mi strinse la mano con energia e mi diede un biglietto da visita. Questo è il mio telefono, disse, se vuole un tassì alla porta basta che mi chiami, mia moglie prende il messaggio, può anche chiamare un giorno per l’altro, se vuole. La macchina partì, ma dopo qualche metro si fermò e tornò a marcia indietro. Non si sente più male, vero?, mi chiese l’uomo dal finestrino. No, dissi io, ora sto meglio, grazie. Il Tassista sorrise e la macchina sparì dietro l’angolo.
Attraversai il portale ed entrai. Nel cimitero non c’era nessuno, solo un gatto a passeggiare tra le prime tombe. Alla mia destra, subito dopo l’entrata, vicino al portale, c’era una piccola casa e la porta era aperta. Con permesso, dissi, posso entrare? Chiusi gli occhi per abituarli all’oscurità, poiché la stanza era immersa nella penombra. Arrivai a distinguere delle bare ammonticchiate l’una sull’altra, un vaso di fiori secchi, un tavolo al quale era appoggiata una lapide. Avanti, disse una voce, e vidi che in fondo alla stanza, accanto ad un armadio monumentale, c’era un omino piccino piccino. Portava gli occhiali, vestiva un grembiule color cenere e in testa aveva un berretto nero con la visiera di plastica, come quello dei controllori del treno. Il signore desidera?, mi domandò, il cimitero è chiuso, apre solo tra un po’, adesso è ora di pranzo, io sono il guardiano. Solo allora mi accorsi che stava mangiando, da una gavetta d’alluminio, ed era rimasto con il cucchiaio sospeso a mezz’aria. Vuole favorire?, mi chiese il Guardiano del Cimitero seguitando a mangiare. Grazie, buon appetito, dissi io, ma se permette resto qui ad aspettare che abbia finito, altrimenti posso anche aspettare lì fuori. Feijoada, commentò il Guardiano del Cimitero come se non mi avesse sentito, feijoada tutti i giorni, mia moglie sa fare solo feijoada. E poi continuò: neanche a pensarci, lei se ne sta qui all’ombra, non aspetta là fuori dove fa un caldo che si crepa, si sieda, si trovi un posto e si sieda. Allora, dissi io, visto che è tanto gentile le chiedo un favore, permette che mi cambi la camicia?, sono fradicio di sudore e ho comprato due magliette dagli zingari. Appoggiai la bottiglia di champagne sopra una bara, mi tolsi la camicia e mi misi la Lacoste autentica. Mi sentivo meglio, avevo smesso di traspirare e nella stanza faceva proprio un bel freschino. Sono venuto qui che ero un ragazzo, disse il Guardiano del Cimitero, cinquant’anni fa, ho passato la vita a fare la guardia ai morti. Eh già, risposi. Tra di noi cadde il silenzio. L’uomo mangiava con calma la sua feijoada, di tanto in tanto si levava gli occhiali e tornava a rimetterseli. Senza occhiali non vedo niente, con gli occhiali neanche, disse, vedo sempre una nebbia, il dottore dice che è la cataplasma. La cataratta, dissi io, si chiama cataratta. Cataratta o cataplasma è tutt’uno, disse il Guardiano del Cimitero, sempre una fregatura è. Si levò il cappello e si grattò la testa. Che razza d’idea venire al cimitero a quest’ora e con questo caldo, disse il Guardiano del Cimitero, non passerebbe per la testa a nessuno. È che qui c’è un mio amico, risposi, è stata la zingara che me lo ha detto, la vecchia zingara che vende magliette là fuori, mi ha detto che dovevo cercarlo qui, è un vecchio amico, abbiamo passato tanto di quel tempo assieme, come fratelli, mi piaceva fargli una visita, mi piaceva fargli una domanda. E pensa che lui le risponderà?, disse il Guardiano del Cimitero, guardi che i morti sono molto silenziosi, permetta che glielo dica, li conosco bene io. Voglio provarci, dissi, vorrei capire una cosa che non ho mai capito, lui è morto senza spiegarmi niente. Donne?, chiese il Guardiano del Cimitero. Non risposi, e lui continuò: c’è sempre di mezzo una donna in storie del genere. Non so, dissi, può anche esserci stata un po’ di cattiveria, mi piacerebbe capire la cattiveria se ce n’è stata, non so. Come si chiamava?, disse il Guardiano del Cimitero. Si chiamava Tadeus, risposi, Tadeus Waclaw. Che razza di nome, disse il Guardiano del Cimitero. Era figlio di genitori polacchi, replicai, ma lui non era polacco, era proprio portoghese, aveva persino scelto uno pseudonimo portoghese. E che faceva nella vita?, chiese il Guardiano del Cimitero. Beh, dissi io, lavorava, ma era soprattutto scrittore, ha scritto delle belle pagine in portoghese, belle non è la definizione giusta, erano pagine amare, era un uomo pieno di emozione e di amarezza. Il Guardiano del Cimitero mise da parte la gavetta e si alzò, andò all’armadio monumentale e prese un libro grande come i registri dei professori di liceo. Qual è il cognome?, chiese. Slowacki, dissi io, Tadeus Waclaw Slowacki. Ma è sepolto col nome vero o con lo pseudonimo?, osservò giustamente il Guardiano del Cimitero. Non so, risposi perplesso, ma penso che sia sepolto col nome vero, mi sembra più logico. Silva, Silva, Silva, Silva, Silva... Slowacki, disse il Guardiano del Cimitero alla fine, sta qui, Slowacki Tadeus Waclaw, Prima Campata Destra numero 4664. Il Guardiano del Cimitero si levò gli occhiali e sorrise. È un numero che si può leggere da sinistra a destra e da destra a sinistra, disse, al suo amico piaceva scherzare? Come no, risposi, ci ha passato la vita a scherzare, anche con se stesso. Voglio appuntarmelo questo numero, disse il Guardiano del Cimitero, mi piacciono i numeri così, me li gioco al lotto, a volte sono gli strani incontri come il nostro che portano fortuna.
Ringraziai l’uomo e partii. Presi la mia bottiglia di champagne e uscii nel caldo. Cercai la Prima Campata Destra e cominciai a percorrerla con passo incerto. Ora una grande ansia mi aveva ripreso, e mi sentivo battere il cuore ai polsi. Era una tomba modesta, appena una lapide poggiata sul terreno. Lui stava lì col suo nome polacco, e sopra al nome c’era una fotografia che riconobbi. Era una fotografia a figura intera, lui indossava una camicia con le maniche rimboccate, stava appoggiato a una barca e sullo sfondo si vedeva il mare. Quella foto l’avevo scattata io nel millenovecentosessantacinque, era di settembre, stavamo allora alla Caparica, eravamo felici, lui era uscito di prigione da una settimana grazie alle pressioni dell’opinione pubblica straniera, un giornale francese diceva: “Il regime salazarista ha dovuto liberare gli scrittori”, e lui se ne stava lì, appoggiato alla barca, col giornale francese in mano, mi avvicinai per vedere se arrivavo a distinguere il titolo del giornale, ma nella fotografia non ci si riusciva, era sfocato, altri tempi, pensai, il tempo si è ingoiato tutto, e poi dissi: ehilà Tadeus, sono qui, sono venuto a farti visita. E a voce poco più alta ripetei: ehilà Tadeus, sono qui, sono venuto a farti visita.