Chissà a cosa era dovuta la sua antipatia per Oporto. Firmino ci rifletté. Il taxi stava attraversando la Praça da Batalha. Una piazza nobile, austera, in stile inglese. Certo, Oporto aveva un’aria inglese, con le sue facciate vittoriane di pietra grigia e la gente che camminava ordinatamente per strada. Sarà perché con gli inglesi non mi sento a mio agio?, si chiese Firmino. Poteva essere, ma non era la ragione principale. A Londra, per esempio, l’unica volta che c’era andato si era sentito perfettamente a suo agio. Certo Oporto non era Londra, chiaro, era un’imitazione di Londra, ma forse non era per questo, concluse Firmino. E si ricordò la sua infanzia, gli zii di Oporto dove i suoi genitori lo portavano inevitabilmente tutte le vacanze di Natale. Terribili, quei Natali. A Firmino affiorarono alla mente come se fossero cose del giorno prima. Rivide la zia Pitú e lo zio Nuno, lei alta e magra, vestita sempre di nero, con un cammeo sul petto, lui grassotto e gioviale, specializzato nel raccontare barzellette che non facevano ridere nessuno. E la casa. Una villetta primo Novecento nella zona borghese della città, mobili tristi e divani cosparsi di centrini fatti a mano, fiori di carta e vecchie fotografie ovali alle pareti, la genealogia della famiglia di cui la zia Pitú andava tanto fiera. E la cena di Natale. Un incubo. Per cominciare l’inevitabile minestra di cavolo verde servita nelle scodelle di Canton che erano l’orgoglio della zia Pitú, e della bontà della quale la mamma cercava di convincerlo anche se gli provocava conati di vomito. E poi la tortura della sveglia alle undici di sera per la messa bassa, il rituale della vestizione con l’abitino elegante, l’uscita nella fredda nebbia dicembrina di Oporto. Le nebbie invernali di Oporto. Firmino ci rifletté e concluse che l’antipatia per quella città era un’eredità della sua infanzia, forse Freud aveva ragione. Pensò alle teorie di Freud. Non che le conoscesse a fondo, ma non gli avevano ispirato troppa fiducia. Lukács, con quell’esatta radiografia della letteratura come espressione di classe, ecco, Lukács sì, e poi gli era più utile per il suo studio sul romanzo portoghese del dopoguerra, gli serviva più Lukács che Freud, ma magari quel medico viennese in certe cose poteva avere ragione, chissà.
– Ma dov’è questa benedetta pensione?, chiese al tassista.
Si sentiva nel diritto di chiederlo. Circolavano da almeno mezz’ora, prima nelle ampie strade del centro e ora in viuzze impossibili e strette di un quartiere che Firmino non conosceva.
– Ci vuole il tempo che ci vuole, borbottò con malagrazia il tassista.
Tassisti e poliziotti, pensò Firmino, erano le due categorie che odiava di più. Eppure aveva a che fare soprattutto con tassisti e poliziotti, con il mestiere che faceva. Il giornalista per un periodico di scandali e di morti ammazzati, divorzi, donne sventrate e cadaveri decapitati, era la sua vita. E pensò a come sarebbe stato bello scrivere il suo libro su Vittorini e il romanzo portoghese del dopoguerra, era sicuro che avrebbe costituito un avvenimento nell’ambiente accademico, magari gli avrebbe perfino aperto le porte del dottorato di ricerca.
Il taxi si fermò nel bel mezzo di una stradetta, di fronte a un edificio che mostrava tutti i suoi anni, e il conducente inaspettatamente si girò verso di lui e gli rivolse un commiato cordiale.
– Aveva paura di non arrivare, cavaliere, disse con simpatia, guardi che noi di Oporto non truffiamo nessuno, non facciamo percorsi inutili per spillare soldi ai passeggeri, non siamo mica a Lisbona, sa.
Firmino scese, ritirò il bagaglio e pagò. Sul portone c’era scritto: Pensione Rosa, Primo piano. L’atrio era occupato da un parrucchiere per signora. Non c’era ascensore. Firmino salì le scale, ornate da una guida rossa, o meglio che una volta era stata rossa, il che lo confortò e lo immalinconì nello stesso tempo. Le pensioni dove lo mandava il suo direttore le conosceva a memoria: cene meste alle sette del pomeriggio, camere con lavandino e soprattutto vecchie megere per proprietarie.
E invece non era affatto così, per lo meno per quanto riguardava la padrona. Dona Rosa era una signora sui sessanta, con una bella permanente azzurra, non indossava la solita vestaglia a fiori come le proprietarie delle altre pensioni di sua conoscenza, ma un elegante tailleur grigio, ed esibiva un sorriso gioviale. Dona Rosa gli dette il benvenuto ed ebbe cura di spiegargli gli orari della pensione. La cena era alle otto, e quella sera il piatto era trippa alla moda di Oporto. Se voleva cenare per conto suo, uscendo a destra, nella piazza, c’era un caffè di grande tradizione, magari lui lo conosceva, era uno dei più vecchi caffè di Oporto, praticamente un’istituzione, si cenava bene e a buon mercato, ma forse era meglio se prima si faceva una doccia, non voleva accomodarsi in camera?, era la seconda a destra del corridoio, doveva scambiare due parole con lui ma lo avrebbe fatto dopo cena, tanto lei si coricava tardi.
Firmino entrò nella sua camera e la positiva impressione della Pensione Rosa si consolidò. Un’ampia finestra sul giardinetto del retro, soffitto alto, solida mobilia di provincia, letto a due piazze. E una stanza da bagno rivestita di piastrelle fiorite, con vasca. C’era perfino l’asciugacapelli. Firmino si spogliò con calma e fece una doccia tiepida. Tutto sommato a Oporto non faceva poi quel caldo umido che aveva temuto, o per lo meno la sua stanza era fresca. Indossò una camicia a maniche corte, per precauzione si mise una giacca leggera sul braccio e uscì. La stradetta sembrava abbastanza animata. I negozi avevano già abbassato le saracinesche, ma gli inquilini stavano alle finestre a prendere il fresco e parlavano con i dirimpettai. Indugiò ad ascoltare quel chiacchiericcio che gli provocava una certa tenerezza. Colse qualche frase qua e là, specie da una ragazza robusta che si sporgeva dal suo davanzale. Parlava della squadra del Porto che il giorno prima aveva giocato in Germania e aveva vinto. La ragazza sembrava entusiasta soprattutto del centravanti, il cui nome gli era sconosciuto.
Sbucò nella piazza e vide subito il caffè. Non c’era possibilità di sbagliarsi. Era un edificio ottocentesco con la facciata carica di stucchi e una porta di ingresso circondata da una larga cornice di legno. L’insegna raffigurava un ometto rubicondo seduto su un barile di vino. Firmino entrò. La sala del caffè era sterminata, con vecchi tavoli di legno, un enorme bancone intarsiato e molti ventilatori d’ottone sul soffitto. Gli ultimi tavoli erano riservati al ristorante, ma non c’erano avventori. Firmino si sedette e si apprestò a una lauta cena studiando attentamente il menù. Aveva deciso, e già sentiva l’acquolina in bocca quando arrivò il cameriere. Era un giovane snello, con una barbetta bruna e i capelli tagliati a spazzola.
– La cucina è chiusa, signore, lo informò il cameriere, si possono mangiare solo piatti freddi.
Firmino guardò l’orologio. Erano le undici e mezzo, non si era accorto di aver fatto così tardi. Comunque alle undici e mezzo a Lisbona si poteva cenare tranquillamente.
– A Lisbona a quest’ora si cena ancora, disse tanto per dire qualcosa.
– Lisbona è Lisbona e Oporto è Oporto, rispose filosoficamente il cameriere, ma vedrà che i nostri piatti freddi non la deluderanno, se mi posso permettere un suggerimento la cuoca ha preparato un’insalata di gamberi con maionese fresca che fa resuscitare i morti.
Firmino acconsentì e il cameriere tornò poco dopo con il vassoio con l’insalata di gamberi. Gliene servì una porzione abbondante e mentre lo serviva disse:
– La squadra del Porto ieri ha vinto in Germania, i tedeschi sono robusti, ma noi li abbiamo fregati sulla velocità.
Evidentemente aveva voglia di chiacchierare, e Firmino lo assecondò.
– Il Porto è una bella squadra, rispose, ma non ha la tradizione del Benfica.
– Lei è di Lisbona?, chiese prontamente il cameriere.
– Lisbona centro, confermò Firmino.
– L’avevo capito dall’accento, disse il cameriere. E poi continuò:
– E cosa ci fa di bello nella nostra città?
– Cerco un gitano, rispose Firmino senza pensarci.
– Un gitano?, chiese il cameriere.
– Un gitano, ripeté Firmino.
– A me i gitani sono simpatici, disse il cameriere come se tastasse il terreno. E a lei?
– Li conosco poco, rispose Firmino, anzi, pochissimo.
– Sarà perché io sono di Barcelos, disse il cameriere, sa, quand’ero bambino a Barcelos c’era la più bella fiera di tutto il Minho, ora non è più quella di una volta, ci sono ritornato l’anno scorso e quasi mi ha fatto pena, però a quei tempi era proprio uno spettacolo, ma non vorrei annoiarla, forse la importuno?
– Non mi annoia affatto, disse Firmino, anzi si segga al mio tavolo, così mi fa compagnia, le posso offrire un bicchiere di vino?
Il cameriere si sedette e accettò il bicchiere di vino.
– Le dicevo della fiera di Barcelos, continuò il cameriere, quando ero bambino era magnifica, specie per le bestie del mercato, i buoi di quella razza minhota, con le corna lunghissime, li ha presenti?, beh, ora non ci sono più, e poi i cavalli, i puledri, le giumente, mio padre faceva il sensale e con i gitani commerciava durante l’estate, avevano cavalli superbi, i gitani, e erano persone d’onore, mi ricordo il pranzo che offrivano a mio padre dopo aver concluso un affare, era una tavolata nella piazza di Barcelos e mio padre mi portava con lui.
Fece una pausa.
– Non so perché sto qui a scocciarla con i miei ricordi d’infanzia, disse, sarà perché ora i gitani mi fanno pena, sono ridotti in miseria e per di più subiscono l’ostilità della popolazione.
– Davvero?, chiese Firmino, non lo sapevo.
– È una brutta storia locale, aggiunse il cameriere, ma magari gliela racconto un’altra volta, spero che ritorni a mangiare e che il nostro ristorante le sia piaciuto.
– Era un piatto delizioso, lo rassicurò Firmino.
Anche a lui sarebbe piaciuto restare a chiacchierare, ma si ricordò che Dona Rosa voleva parlargli, così pagò il conto e si affrettò a rientrare. La trovò nel salottino che leggeva una rivista d’attualità. Lei batté con una mano sul sofà invitandolo a sedere e Firmino le si accomodò al fianco. Dona Rosa si informò se la cena era stata di suo gusto. Firmino rispose di sì, e anche il cameriere, un tipo simpaticissimo, aveva un ottimo rapporto con i gitani.
– Anche noi abbiamo un ottimo rapporto con i gitani, rispose Dona Rosa.
– Noi chi? chiese Firmino.
– La pensione di Dona Rosa, rispose Dona Rosa.
E aprendosi in un largo sorriso continuò:
– Manolo il Gitano l’aspetta domani a mezzogiorno all’accampamento, ha accettato di parlare con lei.
Firmino la guardò con stupore.
– Lo ha contattato attraverso la polizia?, chiese.
– Dona Rosa non usa i canali della polizia, rispose placidamente Dona Rosa.
– E allora come ha fatto?, insistette Firmino.
– A un bravo giornalista basta il contatto, non le pare?, disse ammiccante Dona Rosa.
– Dov’è questo accampamento?, chiese Firmino.
Dona Rosa dispiegò una cartina della città che aveva preparato sul tavolino.
– Fino a Matosinhos ci può andare in autobus, spiegò, poi dovrà prendere un taxi, l’accampamento è proprio qui, vede?, dove c’è questa chiazza verde, è un terreno comunale, Manolo l’aspetta allo spaccio che confina con l’accampamento.
Dona Rosa chiuse la carta lasciando intendere che non aveva altro da dirgli.
– Porta un registratore?, chiese.
Firmino annuì.
– Lo tenga in tasca, disse Dona Rosa, ai gitani non piace il registratore.
Si alzò e cominciò a spegnere le luci facendo capire che era ora di andare a letto. Anche Firmino si alzò e fece per accomiatarsi.
– Quanti anni ha?, chiese Dona Rosa.
Firmino rispose con la formula che adoperava sempre quando si sentiva in imbarazzo a confessare che aveva solo ventisette anni. Era una formula goffa, ma non riusciva a trovare niente di meglio.
– Praticamente trenta, rispose.
– Troppo giovane per un lavoraccio come questo, borbottò Dona Rosa. E aggiunse:
– Ci vediamo domani, e riposi bene.