«Lo scenario di questa triste, misteriosa e, aggiungeremmo, truculenta storia, è la ridente e operosa città di Oporto. Proprio così: la nostra portoghesissima Oporto, dolce città accarezzata da docili colline e solcata dal placido Douro. Vi navigano fin dai tempi più remoti i caratteristici Rabelos carichi di botti di rovere, portando alle cantine della città il prezioso nettare che, elegantemente imbottigliato, prenderà le vie dei più lontani paesi del mondo, contribuendo alla fama imperitura di uno dei più pregiati vini del globo.
E i lettori del nostro giornale sanno che questa triste, misteriosa e truculenta storia riguarda nientedimeno che un cadavere decapitato: i miserabili resti mortali di uno sconosciuto, orrendamente mutilati, abbandonati dall’assassino (o dagli assassini) in un terreno selvatico della periferia, come se si trattasse di una scarpa vecchia o di una pentola bucata.
Così, purtroppo, sembrano andare le cose al giorno d’oggi nel nostro Paese. Un Paese che ha ritrovato solo di recente la democrazia e che è stato accolto nella Comunità Europea assieme ai più civili e progrediti paesi del vecchio continente. Un Paese composto di gente onesta e laboriosa, che la sera rientra stanca nelle proprie case dopo una giornata di duro lavoro e rabbrividisce leggendo le torbide cronache che la stampa libera e democratica, come questo giornale, deve purtroppo fornirle, anche se lo fa con il cuore sanguinante.
Ed è davvero con il cuore sanguinante, e insieme con un turbamento profondo, che il vostro inviato a Oporto è obbligato dalla sua deontologia professionale a descrivervi la triste, torbida e truculenta storia che lui stesso ha vissuto in prima persona. Storia che comincia in uno dei tanti alberghi di questa città, dove il vostro inviato riceve una telefonata anonima: perché, come tutti i giornalisti che seguono casi difficili, riceve decine di telefonate anonime. Lui risponde alla telefonata, con lo scetticismo di un vecchio giornalista navigato, preparato all’eventuale mitomane che gli dirà che un certo assessore è corrotto o che la moglie del presidente di un certo club sportivo va a letto con un torero... E invece no. La voce è asciutta e quasi autoritaria, con un marcato accento del Nord: una voce giovanile, che potrebbe essere baldanzosa se non parlasse in tono sommesso. Gli dice: la testa appartiene al signor Damasceno Monteiro, di anni ventotto, lavorava come garzone alla ditta Stones of Portugal, la sua residenza è nella Ribeira, in Rua dos Canastreiros, il numero non lo conosco perché sulla casa non c’è numero, è davanti a una fontanella, la famiglia l’avvisi lei perché io non posso farlo per ragioni che non le sto a spiegare, arrivederci. Il vostro inviato speciale rimane allibito. Lui, esperto giornalista cinquantenne che in vita sua ha vissuto le situazioni più orribili, deve assumersi il compito doloroso, e insieme cristiano, di recare alla famiglia della vittima la ferale notizia. Che fare? Il vostro inviato è attraversato dal dubbio, ma non si lascia vincere dallo sconforto. Sa che la sua professione prevede anche missioni come quelle, dolorose ma imprescindibili. Scende per strada, prende un taxi e si fa portare alla Ribeira, in Rua dos Canastreiros. E qui si apre un altro scenario della ridente e operosa città di Oporto, per il quale la penna del vostro inviato è inadeguata, perché sarebbe necessario un sociologo, un antropologo: cosa che il vostro giornalista ovviamente non è. Questa Ribeira, la zona più popolare della città, la gloriosa Ribeira che appartenne agli artigiani, ai bottai, al popolo minuto dei secoli passati, adagiata sulle rive del Douro; questa Ribeira, che certe superficiali guide turistiche cercano di contrabbandare come il luogo più pittoresco della città; ebbene, cos’è, effettivamente, questa Ribeira? Il vostro inviato non vuole fare retorica a buon mercato, non vuole ricorrere a illustri esempi letterari, e sospende il giudizio. Si limita a descrivervi la casa, chiamiamola così, una casa come ce ne sono tante nella Ribeira, che appartiene alla famiglia della vittima. L’ingresso serve anche da cucina, un misero fornello a gas e un rubinetto. Una parete di cartone separa l’ingresso da un cubicolo che è la camera da letto dei genitori di Damasceno Monteiro. La camera di Damasceno è ricavata nel sottoscala dell’edificio, dove si entra solo a testa bassa: un materasso, una coperta di tipo messicano e un poster di un indiano Dakota alla parete. Il gabinetto è nel cortile, ed è utilizzato da tutto il caseggiato.
Il vostro inviato, latore di quella terribile notizia, è riuscito a balbettare che era un giornalista di Lisbona che seguiva il caso del cadavere decapitato. Lo ha ricevuto la madre, una donna di una cinquantina d’anni con l’aria malata. Gli ha detto che fino al mese scorso guadagnava uno stipendio lavando biancheria per certe famiglie di Oporto, ma ora aveva dovuto rinunciare al lavoro perché soffriva di perdite di sangue, il medico le aveva diagnosticato un fibroma e lei si era curata da una guaritrice della Ribeira che prepara i decotti. Però i decotti non le avevano fatto niente, anzi, le emorragie erano aumentate: ora doveva ricoverarsi in ospedale, ma per il momento non c’era un letto libero, così doveva aspettare. Suo marito, il signor Domingos, una volta faceva il canestraio, ma da quando non lavorava più aveva cominciato ad andare alla bettola tutte le sere. Ora prendeva l’Antabuse, perché era alcolizzato. Ma siccome prendeva l’Antabuse, come gli aveva ordinato il medico, e allo stesso tempo beveva l’acquavite, aveva crisi di intossicazione durante le quali vomitava per un giorno intero. E ora era di là in camera che stava vomitando. Damasceno era l’unico figlio maschio, ha detto la madre, la signora Maria de Lourdes. Avevano anche una figlia di ventuno anni che era emigrata a Bruxelles per fare la cameriera in un bar, però non avevano sue notizie da tempo.
Il vostro inviato ha dunque dovuto comunicare alla povera donna stravolta che la testa si trovava all’obitorio dell’Istituto di medicina legale, e che era necessario che lei facesse il riconoscimento. La sciagurata madre si è precipitata in camera ed è tornata un attimo dopo, calzando dei sandali neri col tacco alto e uno scialle frangiato. Ha detto che quegli indumenti glieli aveva regalati la cantante di un locale di Oporto, la Borboleta Nocturna, dove suo figlio Damasceno andava a fare piccole riparazioni elettriche, e che erano gli unici indumenti decenti che possedeva.
Quando, dopo aver cercato inutilmente un mezzo di trasporto, il vostro inviato e la povera madre sono arrivati all’Istituto di medicina legale, il medico si era appena sfilato i guanti e stava mangiando un panino. Era un medico giovane e simpatico, dall’aria sportiva. Ha chiesto se eravamo venuti per il riconoscimento e ha specificato che andava di fretta, perché in serata c’era una partita di hockey a rotelle degli Invictos, squadra in cui giocava come portiere. Ci ha condotti nella saletta attigua, e...
Ebbene: quello che eviterò di descrivere ai miei lettori, ma che certo possono immaginare, è la reazione della povera madre. Un grido soffocato: Damasceno!, il mio Damasceno! Una specie di singhiozzo, quasi un rantolo, un tonfo per terra: la povera donna si era accasciata prima che si potesse soccorrerla. La testa, quella spaventevole testa, era posata su un tavolo di marmo, come un feticcio amazzonico. Era tagliata lungo il collo in modo regolare e preciso, come se il lavoro fosse stato eseguito con una sega elettrica. La faccia era gonfia e violetta, perché probabilmente era rimasta nel fiume per qualche giorno, ma la fisionomia era riconoscibile: era quella di un giovane dai tratti forti e regolari nei quali si decifrava una certa nobiltà popolare: i capelli corvini, il naso affilato, la mascella forte. Damasceno Monteiro.»
Dona Rosa alzò gli occhi dal giornale, guardò Firmino e disse:
– Mi ha fatto venire i brividi, è così realistico e insieme scritto in modo classico.
– Non è esattamente il mio stile, tentò di spiegare Firmino, ma fu interrotto.
– Ma se il suo direttore è entusiasta, esclamò Dona Rosa, dice che l’edizione straordinaria è andata a ruba.
– Bah, commentò Firmino.
– Coraggiosi, disse Dona Rosa con ammirazione, questo è quello che mi piace, un giornale coraggioso, mica come la rivista Vultos, che parla solo di ricevimenti eleganti.
– Il mio direttore mi ha detto che il mio giornale appoggia la famiglia Monteiro per costituirsi parte civile, disse Firmino, e abbiamo bisogno di un avvocato. Solo che non navighiamo nell’oro, ci serve un avvocato che ci venga incontro sul prezzo, mi suggerisce di chiedere a lei, Dona Rosa, perché dice che lei un avvocato che fa al caso nostro lo conosce senz’altro.
– Certo che lo conosco, assicurò Dona Rosa, quando vuole incontrarlo?
– Domani andrebbe benissimo, disse Firmino.
– A che ora?
– Non saprei, rifletté Firmino, all’ora di pranzo, per esempio, potrei passare da lui e invitarlo a pranzo, ma chi sarebbe?
Dona Rosa fece un sorriso e prese fiato.
– Fernando Diogo Maria de Jesus de Mello Sequeira, disse.
– Caspita, esclamò Firmino, che nome.
– Ma se lo chiama così non lo conosce nessuno, aggiunse Dona Rosa, bisogna dire avvocato Loton, questo è il nome con cui tutti lo conoscono a Oporto.
– È un soprannome?, chiese Firmino.
– È un soprannome, rispose Dona Rosa, perché assomiglia a quell’attore inglese grasso che recitava sempre nei ruoli dell’avvocato.
– Vuol dire Charles Laughton?, chiese Firmino.
– A Oporto si dice Loton, tagliò corto Dona Rosa. E poi aggiunse:
– Appartiene a una famiglia di antica nobiltà che nei secoli scorsi possedeva quasi tutta la regione, ma che ora ha perso quasi tutto. È un genio, a vedere come va vestito non gli si darebbe un centesimo, ma è un genio, ha studiato all’estero.
– Scusi Dona Rosa, chiese Firmino, ma perché lui dovrebbe accettare di difendere gli interessi della famiglia di Damasceno Monteiro?
– Perché è l’avvocato dei disgraziati, rispose Dona Rosa, in vita sua ha difeso solo poveracci, è la sua vocazione.
– Quand’è così, rispose Firmino, e dove lo posso trovare?
Dona Rosa prese un pezzo di carta e vi scrisse un indirizzo.
– All’appuntamento ci penso io, disse, lei non si preoccupi, lo vada a trovare a mezzogiorno.
In quel momento squillò il telefono. Dona Rosa andò a rispondere e guardò Firmino facendogli il suo solito richiamo con l’indice.
– Pronto, disse Firmino.
– Il riconoscimento è stato fatto, disse la voce, come vede avevo ragione.
– Senta, disse Firmino cogliendo l’occasione al volo, non riattacchi, lei ha bisogno di parlare, lo intuisco, ha cose importanti da dire e le vuole dire a me, anch’io vorrei che me le dicesse.
– Non certo per telefono, disse la voce.
– Non certo per telefono, disse Firmino, mi dica dove e quando.
Dall’altra parte ci fu un silenzio.
– Domattina?, chiese Firmino, le va bene domattina alle nove?
– Va bene, disse la voce.
– Dove?, chiese Firmino.
– A San Lázaro, disse la voce.
– Cos’è?, chiese Firmino, non sono di Oporto.
– È un giardino pubblico, rispose la voce.
– Come la riconosco?, chiese Firmino.
– Sarò io che riconoscerò lei, scelga una panchina solitaria e tenga sulle ginocchia il suo giornale, se ci fosse qualcuno con lei io non mi fermo.
E il telefono fece che.