– Purtroppo a questo giovanotto non piace la trippa, disse l’avvocato rivolto all’oste, illustragli le specialità della casa, Manuel.
L’oste si mise i pugni sui fianchi e dette una sbirciatina a Firmino che abbassò lo sguardo con imbarazzo.
– Don Fernando, rispose tranquillamente l’oste, se non riuscirò a soddisfare il suo ospite mi impegno a offrire il pranzo. È straniero?
– Quasi, rispose l’avvocato, ma si sta abituando ai costumi di questa città.
– Potrei proporre il nostro riso di fagioli rossi con spinarelli fritti, spiegò l’oste, oppure il rotolo di baccalà al forno.
Firmino guardò l’omone con aria smarrita, come se volesse significare che un piatto o l’altro per lui andava bene.
– Facciamo tutti e due, decise l’avvocato, così spizzichiamo. E per me la trippa, naturalmente.
Il ristorante, che poi vero ristorante non era ma piuttosto una cantina ingombra di botti, si trovava al fondo di un vicolo accanto a Rua das Flores, e apparentemente non aveva nome. Firmino aveva notato che sopra la porta c’era una specie di insegna di legno dipinta in maniera ingenua che diceva: “La cantina dell’occhio è qui”.
– Come crede che possiamo procedere?, chiese Firmino.
– Come si chiama il testimone?, chiese l’avvocato.
– Si chiama Torres, rispose Firmino, fa l’elettrauto all’officina Faisca.
– Nel pomeriggio passo a prenderlo e lo porto con me dal giudice istruttore, disse l’avvocato.
– E se il Torres non volesse testimoniare?, obiettò Firmino.
– Le ho detto che lo porto con me dal giudice istruttore, rispose placidamente l’avvocato.
Versò nei bicchieri del vino verde e alzò il suo in segno di brindisi.
– È un Alvarinho non commerciale, disse, questo non si trova in giro, ma è solo per aperitivo, poi si beve vino rosso.
– Io non sono mica tanto abituato al vino, si scusò Firmino.
– Fa sempre in tempo a abituarcisi, rispose l’avvocato.
In quel momento l’oste arrivò con i vassoi e si rivolse all’avvocato, come se Firmino non esistesse.
– Ecco qua, Don Fernando, esclamò con soddisfazione, e se al suo ospite non piace, il pranzo lo offro io, come ho già detto, però poi è meglio che il signore abbandoni questa città.
Il riso di fagioli, affogato in un sugo castano, aveva un aspetto poco invitante. Firmino prese due spinarelli fritti e si tagliò una fetta del rotolo di baccalà. L’avvocato lo guardò con i suoi occhietti inquisitori.
– Mangi, giovanotto, disse, è meglio tenersi in forza, sarà una faccenda lunga e complicata.
– Io cosa devo fare, a questo punto?, chiese Firmino.
– Lei domani va dal Torres e gli fa una bella intervista, disse l’avvocato, più lunga e dettagliata possibile, e la pubblica sul suo giornale.
– E se il Torres non vuole?, chiese Firmino.
– Certo che vuole, rispose l’avvocato tranquillamente, non ha scelta, il perché è semplice e il Torres lo capirà al volo, credo che non sia uno stupido.
L’avvocato si asciugò con il tovagliolo il sugo della trippa che gli colava sul mento, e come se spiegasse una cosa elementare continuò con tono distaccato:
– Perché il Torres è un uomo bruciato, disse, questo pomeriggio renderà la sua testimonianza al magistrato, sotto la mia sorveglianza, questo glielo posso assicurare, ma sa, un verbale che resta in mano agli inquirenti è una mina vagante, è sempre bene non fidarsi, di quel verbale potrebbe venire a conoscenza qualcuno e non gradirlo, figuriamoci, con tutti gli incidenti stradali che succedono al giorno d’oggi, a proposito, lo sapeva che il Portogallo è al primo posto in Europa nelle statistiche degli incidenti stradali?, pare che i portoghesi guidino come degli irresponsabili.
Firmino lo guardò con la perplessità che l’avvocato continuava a suscitargli.
– E l’intervista nel mio giornale a cosa gli giova?, chiese.
L’avvocato inghiottì con voluttà una striscia di trippa. Nonostante fosse tagliata a piccoli pezzi la mangiava cercando inutilmente di arrotolarla con la forchetta.
– Ragazzo mio, sospirò, lei mi stupisce, è da quando è venuto a visitarmi che mi stupisce, lei scrive su un giornale di grande diffusione e sembra non sapere cosa vuol dire opinione pubblica, è riprovevole, cerchi di seguirmi un momento: se il Torres, dopo aver fatto la sua deposizione alle autorità inquirenti, ribadisce tutto sul suo giornale, può stare tranquillo, perché avrà con sé tutta l’opinione pubblica, e un conducente distratto, per esempio, ci penserebbe due volte a investire con la macchina una persona che ha addosso gli occhi dell’opinione pubblica, capisce il concetto?
– Capisco il concetto, rispose Firmino.
– E poi, continuò l’avvocato, e questo la riguarda da vicino come giornalista, lei sa cosa diceva Jouhandeau?
Firmino scosse il capo in senso negativo. L’avvocato bevve una sorsata di vino e si asciugò le labbra carnose.
– Diceva: poiché l’oggetto intrinseco della letteratura è la conoscenza dell’essere umano, e poiché non c’è luogo al mondo in cui la si possa studiare meglio che nelle aule dei tribunali, non sarebbe auspicabile che fra i giurati ci fosse sempre, a norma di legge, uno scrittore?, la sua presenza sarebbe per tutti un invito a riflettere di più. Fine della citazione.
L’avvocato fece una breve pausa e bevve un altro sorso di vino.
– Ebbene, continuò, è evidente che lei non starà mai seduto fra i giurati di un tribunale come sarebbe piaciuto al signor Jouhandeau, anzi non sarà neppure presente agli interrogatori condotti in istruttoria, perché la legge non glielo consente, ed è anche vero che a rigore lei non è esattamente uno scrittore, ma possiamo fare uno sforzo e considerarla tale, visto che scrive su un giornale. Diciamo che lei sarà un giurato virtuale, è questo il suo ruolo, giurato virtuale, afferra il concetto?
– Credo di sì, rispose Firmino.
E poi volle essere onesto e chiese:
– Ma chi è questo Jouhandeau?, non l’ho mai sentito nominare.
– Marcel Jouhandeau, rispose l’avvocato, un irritante teologo francese a cui piaceva dare scandalo, fu anche un celebratore dell’abiezione, se così posso esprimermi, e di una sorta di metafisica perversione, anzi quello che lui credeva fosse metafisica. Sa, scriveva allorché in Francia i surrealisti esaltavano la rivolta e dopo che Gide aveva teorizzato il delitto gratuito. Ma lui naturalmente non aveva la grandezza di Gide, in fondo faceva bassa cucina, anche se qualche frase sulla giustizia l’ha azzeccata.
– Dovremmo ancora definire la questione fondamentale, disse Firmino, perché il mio giornale si fa carico del suo onorario, naturalmente.
L’avvocato lo guardò con i suoi occhietti inquisitori.
– E cioè?, chiese.
– Nel senso che lei sarà ricompensato come è necessario, disse Firmino.
– E cioè?, ripeté l’avvocato, cosa vuol dire in termini numerici?
Firmino sentì un lieve imbarazzo.
– Non saprei, rispose, questo glielo dirà il mio direttore.
– C’è una casa in Rua do Ferraz, disse illogicamente l’avvocato, dove ho passato l’infanzia, proprio sopra Rua das Flores, è un palazzetto del Settecento, ci viveva la marchesa mia nonna.
Sospirò con nostalgia.
– Lei dove ha passato l’infanzia, in che tipo di casa?, chiese poi.
– Sulla costa di Cascais, rispose Firmino, mio padre era nella guardia costiera e aveva in usufrutto una casa sul mare, io e i miei fratelli ci abbiamo praticamente passato l’infanzia.
– Oh sì, disse l’avvocato, la costa di Cascais, quella luce bianchissima del mezzogiorno che si tinge di rosa al tramonto, l’azzurro dell’oceano, le pinete del Guincho, io invece ho i ricordi di un palazzetto cupo, con una nonna impassibile che prendeva il tè e che usava ogni giorno un nastro diverso intorno al collo rugoso, ma sempre di seta nera, a volte semplice, altre volte con un leggero bordo di pizzo. Non mi ha mai toccato, a volte mi sfiorava appena la mano con la sua mano fredda e mi diceva che l’unica cosa che doveva imparare un bambino della sua famiglia era rispettare gli antenati. Io guardavo quelli che lei chiamava gli antenati. Erano antichi ritratti a olio di uomini altezzosi, con un segno di disprezzo sul volto e con le labbra carnose come le mie, me le hanno lasciate in eredità.
Assaggiò un boccone di baccalà e disse:
– Io trovo che questo piatto è divino, mi dica, lei cosa ne pensa?
– Mi piace, rispose Firmino, ma mi stava raccontando della sua infanzia.
– Bene, continuò l’avvocato, quella casa è deserta, con tutti i ricordi di quella signora marchesa che a suo modo mi fece da nonna: i suoi ritratti, la sua mobilia, le sue coperte di Castelo Branco e i suoi alberi genealogici. Diciamo che è la mia infanzia che è rinchiusa lì dentro come in uno scrigno. Qualche anno fa ci andavo ancora a consultare gli archivi di famiglia, ma non so se ha visto come è Rua do Ferraz, per risalirla ci vorrebbe la teleferica, con la mia mole non ce la faccio a arrivarci, dovrei chiamare il taxi per percorrere cinquecento metri, perciò sono sette anni che non ci metto piede. E così ho deciso di venderla, l’ho affidata a un’agenzia, è bene che le agenzie si inghiottano le infanzie, è la maniera più sterilizzata di liberarsene, e lei non può immaginare quanti borghesi danarosi, di quelli che hanno fatto i soldi negli ultimi anni con le sovvenzioni della comunità europea, vorrebbero quella casa. Sa, è un luogo che secondo la loro mentalità gli fornirebbe uno status sociale di cui sono disperatamente alla ricerca, farsi la villa moderna con la piscina nelle zone residenziali è alla loro portata, ma un palazzetto del XVIII secolo è molti gradini più in su, capisce il concetto?
– Capisco il concetto, assentì Firmino.
– E così ho deciso di venderla, disse l’avvocato. Il pretendente più smanioso viene dalla provincia. È un tipico rappresentante della società in cui viviamo oggi. Suo padre era un piccolo allevatore. Lui ha cominciato con una piccola attività di calzature ancora sotto il salazarismo. In realtà fabbricava soprattutto scarpe rivestite di tela cerata, con un paio di operai. Poi nel settantaquattro arrivò la rivoluzione e lui si schierò con le idee cooperativistiche, fece perfino un’intervista quasi rivoluzionaria su un quotidiano infiammato. E poi, dopo le illusioni rivoluzionarie, arrivò il neoliberismo sfrenato, e lui si schierò come doveva. Insomma è uno che si è saputo governare. Possiede quattro Mercedes e un campo da golf in Algarve, credo che abbia azioni nell’edilizia in Alentejo, chissà se non addirittura nella Penisola di Tróia, è uno che se la intende bene con tutti i partiti dell’arco costituzionale, dai comunisti alla destra, e naturalmente la sua fabbrica di scarpe è fiorente, esporta soprattutto negli Stati Uniti. Lei che ne dice, faccio bene a vendergliela?
– La casa?, chiese Firmino.
– Certo, la casa, rispose l’avvocato. Magari gliela vendo. Qualche giorno fa è venuta a parlarmi sua moglie, che credo sia l’unica alfabeta in famiglia. Le risparmio la descrizione di quella dipinta signora. Ma io ho alzato le quotazioni, perché ho detto che vendevo la casa con la mobilia antica e con i quadri nobili, e le ho chiesto: cosa se ne fa una famiglia come la sua, gentile signora, di una casa come questa senza la mobilia antica e i quadri nobili? Lei che ne dice, giovanotto, ho fatto bene?
– Secondo me ha fatto molto bene, rispose Firmino, visto che tiene alla mia opinione le posso dire che ha fatto molto bene.
– E allora, concluse l’avvocato, riferisca pure al suo direttore che le spese per Damasceno Monteiro sono ampiamente pagate da due quadri del Settecento della mia casa di Rua do Ferraz, e che non mi stia a fare proposte per il mio onorario, per favore.
Firmino non replicò e continuò a mangiare. Aveva timidamente assaggiato il riso di fagioli rossi e l’aveva trovato squisito, perciò ne aveva preso un’altra porzione. Avrebbe voluto dire una cosa, ma non sapeva come dirla. Alla fine cercò di formularla.
– Il mio giornale, balbettò, beh, il mio giornale è quello che è, voglio dire, lei sa bene qual è il suo stile, lo stile con il quale dobbiamo catturare i nostri lettori, insomma, è un giornale popolare, magari coraggioso, ma è un giornale popolare, concede quello che deve concedere, insomma, per vendere più copie, non so se mi spiego.
L’avvocato era preso dalle vivande e non disse nulla. Ora era tutto assorto a mangiare il baccalà.
– Non so se afferra il concetto, disse Firmino ricorrendo alla formula dell’avvocato.
– Non afferro il concetto, rispose l’avvocato.
– Insomma, continuò Firmino, voglio dire che il mio giornale è il giornale che lei sa, e lei, beh, lei è un avvocato importante, ha il cognome che ha, insomma volevo dire che lei ha una reputazione da difendere, non so se mi spiego.
– Lei continua a deludermi, giovanotto, rispose l’avvocato, cerca a tutti i costi di essere inferiore a se stesso, non dobbiamo mai essere inferiori a noi stessi, cos’è che ha detto di me?
– Che ha una reputazione da difendere, rispose Firmino.
– Senta, mormorò l’avvocato, credo che non ci siamo capiti, le dirò una cosa una volta per tutte, ma spalanchi bene le orecchie. Io difendo gli sciagurati perché sono come loro, questa è la pura e semplice verità. Della mia nobile casata utilizzo solo il patrimonio materiale che mi è rimasto, ma come i disgraziati che difendo credo di aver conosciuto le miserie della vita, di averle capite e anche assunte, perché per capire le miserie della vita bisogna mettere le mani nella merda, scusi la parola, e soprattutto esserne consapevoli. E non mi costringa alla retorica, perché questa è retorica a buon mercato.
– Ma lei in cosa crede?, chiese d’impeto Firmino.
Non avrebbe saputo dire perché fece quell’ingenua domanda in quel momento, e proprio mentre la pronunciava gli sembrò una di quelle domande che si fanno a scuola alla compagna di banco e che fanno arrossire chi le fa e chi le riceve. L’avvocato alzò la testa dal piatto e lo guardò con i suoi occhietti inquisitori.
– Mi sta facendo una domanda personale?, chiese con esplicito fastidio.
– Diciamo che è una domanda personale, rispose Firmino coraggiosamente.
– E perché mi fa questa domanda?, insisté l’avvocato.
– Perché lei non crede in niente, esclamò Firmino, ho l’impressione che lei non creda in niente.
L’avvocato sorrise. A Firmino sembrò che fosse a disagio.
– Potrei credere per esempio in una cosa che a lei forse potrebbe sembrare insignificante, rispose.
– Mi spieghi, per esempio, insisté Firmino, una cosa che possa essere convincente.
Ormai si era messo in quel pasticcio e voleva sostenere il suo ruolo.
– Per esempio una poesia, rispose l’avvocato, pochi versi, potrebbe sembrare una sciocchezza, ma potrebbe anche essere una cosa fondamentale, per esempio: «Tutto ciò che ho conosciuto, Tu me lo scriverai per ricordarmelo, Con lettere, E così anch’io, Ti dirò tutto il passato».
L’avvocato tacque. Aveva allontanato il piatto e la sua mano tormentava il tovagliolo.
– Hölderlin, continuò, è una poesia intitolata Wenn aus der Ferne, e cioè Se dalla Lontananza, è una delle ultime. Diciamo che ci possono essere persone che aspettano lettere dal passato, le sembra una cosa plausibile nella quale credere?
– Forse, rispose Firmino, potrebbe essere plausibile, anche se mi piacerebbe capire meglio.
– Semplice, mormorò l’avvocato, lettere dal passato che ci spieghino un tempo della nostra vita che non abbiamo mai capito, che ci diano una spiegazione qualsiasi che ci faccia afferrare il senso di tanti anni trascorsi, di quello che allora ci sfuggì, lei è giovane, lei aspetta lettere dal futuro, ma supponga che esistano persone che aspettano lettere dal passato, e io forse sono una di queste, e magari mi spingo a immaginare che un giorno mi arriveranno.
Fece una pausa, accese uno dei suoi sigari e chiese:
– E sa come mi immagino che mi arriveranno?, faccia uno sforzo.
– Non ne ho la minima idea, rispose Firmino.
– Ebbene, disse l’avvocato, in un pacchettino tenuto insieme da un fiocco rosa, proprio così, e profumato di violetta, come nei peggiori romanzi d’appendice. E io quel giorno avvicinerò questo mio orribile nasone al pacchettino, disferò il fiocco rosa, aprirò le lettere e capirò con chiarezza meridiana una storia mai capita prima, una storia unica e fondamentale, ripeto, unica e fondamentale, una cosa che può accadere una sola volta nella vita, che gli dei ci concedono che accada una sola volta nella nostra vita, e alla quale allora non prestammo la dovuta attenzione, proprio perché eravamo degli idioti presuntuosi.
Fece un’altra pausa, questa volta più lunga. Firmino lo guardava in silenzio, osservava le sue guance grasse e cadenti, le labbra carnose e quasi ributtanti, quell’espressione perduta nei ricordi.
– Perché, continuò l’avvocato a bassa voce, que faites-vous des anciennes amours? Beh, me lo chiedo anch’io, que faites-vous des anciennes amours? È il verso di una poesia di Louise Colet, che continua così: les chassez-vous comme des ombres vaines? Ils ont été, ces fantômes glacés, coeur contre coeur, une part de vous même. Sicuramente è diretta a Flaubert. Bisogna specificare che la Colet scriveva poesie penose, poveretta, anche se si credeva una grande poetessa e voleva dare la scalata ai salotti letterari parigini, proprio versi mediocri, non c’è che dire. Ma questi pochi versi sono una spina nel fianco, mi pare, perché che ne facciamo degli amori passati?, li mettiamo in un cassetto con i calzini bucati?
Guardò Firmino come se aspettasse una conferma, ma Firmino non si pronunciò.
– Sa cosa le dico?, continuò l’avvocato, che se Flaubert non l’ha capita era proprio un idiota, in questo caso bisognerebbe dare ragione a quel presuntuoso di Sartre, ma forse Flaubert capì, lei cosa pensa, Flaubert capì oppure no?
– Forse capì, rispose Firmino, ora così su due piedi non potrei affermarlo, forse capì, ma io non sono in grado di affermarlo.
– Scusi, giovanotto, disse l’avvocato, lei pretende di studiare la letteratura, di volere addirittura scrivere un saggio sulla letteratura, e mi confessa che non sa esprimersi su questo fatto fondamentale, se Flaubert capì o non capì il messaggio cifrato di Louise Colet.
– Ma io studio la letteratura portoghese degli anni Cinquanta, si difese Firmino, cosa c’entra Flaubert con la letteratura portoghese degli anni Cinquanta?
– Apparentemente nulla, riprese l’avvocato, ma solo apparentemente, perché in letteratura tutto c’entra con tutto. Guardi, ragazzo mio, è come una ragnatela, ha presente una ragnatela?, ebbene, pensi a tutte quelle trame complicate tessute dal ragno, sono tutte vie che conducono al centro, a guardarle alla loro periferia non sembrerebbe, ma tutte conducono al centro, le faccio un esempio, lei come potrebbe capire L’educazione sentimentale, questo romanzo così spaventosamente pessimistico e insieme così reazionario, perché secondo i criteri del suo Lukács è spaventosamente reazionario, se non conoscesse i romanzetti di cattivo gusto di quel periodo di terribile cattivo gusto che fu il Secondo Impero? E insieme a tutto questo, facendo i debiti collegamenti, se lei ignorasse la depressione di Flaubert? Perché sa, quando Flaubert se ne stava rinchiuso nella sua casa di Croisset a spiare il mondo da dietro la finestra, era spaventosamente depresso, e tutto questo, anche se a lei non sembra, forma una ragnatela, un sistema fatto di sotterranee congiunzioni, di legami astrali, di inafferrabili corrispondenze. Se lei vuole studiare la letteratura impari almeno questo, a studiare le corrispondenze.
Firmino lo guardò e cercò di replicare. Curiosamente provava di nuovo quell’assurdo senso di colpa che gli aveva provocato l’oste nel descrivergli il menù.
– Cerco umilmente di occuparmi della letteratura portoghese degli anni Cinquanta, rispose, senza montarmi la testa.
– D’accordo, replicò l’avvocato, non deve montarsi la testa, ma deve calarsi in quel periodo. E per farlo magari deve conoscere i bollettini meteorologici che i giornali portoghesi pubblicavano in quegli anni, come le insegnerà un magnifico romanzo di un nostro scrittore che riesce a descrivere la censura della polizia politica utilizzando i bollettini meteorologici dei giornali, l’ha presente?
Firmino non rispose e fece un vago cenno con la testa.
– Bene, disse l’avvocato, glielo lascio come spunto di una possibile ricerca, si ricordi, anche i bollettini meteorologici possono servire, purché presi come metafora, come indizio, senza cadere nella sociologia della letteratura, mi spiego?
– Credo di sì, disse Firmino.
– Sociologia della letteratura, ripeté con aria disgustata l’avvocato, viviamo tempi barbari.
Fece il gesto di alzarsi e Firmino si alzò precipitosamente prima di lui.
– Tutto sul mio conto, Manuel, gridò l’avvocato all’oste, il nostro ospite ha gradito il pranzo.
Si avviarono all’uscita. Sulla soglia l’avvocato si fermò.
– Stasera le farò sapere qualcosa sulla posizione del Torres, disse, le manderò un messaggio alla pensione di Dona Rosa. Ma è importante che lei lo intervisti domani stesso e che il suo giornale faccia un’altra edizione straordinaria, visto che su questa testa tagliata state facendo molte edizioni straordinarie, intesi?
– Intesi, rispose Firmino, conti pure su di me.
Uscirono nella luce pomeridiana di Oporto. Le strade erano animate e il caldo era umido, con una nebbiolina che velava la città. L’avvocato si passò il fazzoletto sulla fronte e gli fece un rapido gesto di saluto.
– Ho mangiato troppo, borbottò, come sempre ho mangiato troppo. A proposito, lo sa come è morto Hölderlin?
Firmino lo guardò senza riuscire a rispondere. Sul momento non riusciva proprio a ricordarsi come era morto Hölderlin.
– È morto pazzo, disse l’avvocato, è una cosa da prendere in considerazione.
Si allontanò traballando con passo incerto sulla sua enorme mole.