L’Avenida de Montevideu, che si congiungeva con l’Avenida do Brasil, formava un lungomare lunghissimo, molto più lungo di quanto Firmino si era immaginato, e a lui non restava che percorrerlo finché non avesse raggiunto il locale, che non sapeva a che altezza si trovasse. C’era una bella brezza atlantica che faceva sventolare le bandiere di un grande albergo. Il lungomare, per lo meno all’inizio, era affollato di gente, soprattutto famigliole che popolavano le terrazze di gelaterie dove bambini ciondolanti di sonno succhiavano stancamente dei gelati. Firmino pensò che i suoi connazionali mandavano i bambini a letto troppo tardi e che forse facevano troppi bambini. E poi mormorò fra sé e sé: considerazioni cretine. Notò che la zona iniziale affollata e popolare sfumava via via in una zona più solitaria e aristocratica, fatta di ville austere e di edifici del primo Novecento, con balconi inferriati e decorazioni di stucco. L’oceano era abbastanza arrabbiato e le onde violente si infrangevano sulla scogliera.
Il Puccini’s Butterfly occupava un intero palazzotto che Firmino lì per lì calcolò degli anni Venti, una bella costruzione liberty, con cornici di piastrelle verdi e delle verande con piccoli timpani che imitavano lo stile manuelino. Sul terrazzino del primo piano un’insegna al neon violetta, con degli sbuffi rococò, diceva: Puccini’s Butterfly. E su ognuna delle tre porte del locale altre insegne più discrete indicavano rispettivamente il Butterfly Restaurant, il Butterfly Night-Club e il Butterfly Discoteca. La discoteca era l’unico ingresso che non avesse un tappeto rosso. Gli altri due ce l’avevano e li sorvegliava un portiere vestito con una certa eleganza. Firmino pensò che forse la discoteca non era il posto adatto. Era sicuramente un luogo dove non si può parlare, luci psichedeliche e musica assordante. Del ristorante non sapeva che farsene, per quella sera gli bastavano le polpette. Non gli restava che il night-club. Il portiere gli aprì la porta e fece un’impercettibile riverenza. La luce era azzurrina. Il vestibolo proseguiva con un piccolo bar all’inglese, bancone di legno massiccio e poltroncine di cuoio rosso. Era deserto. Firmino lo attraversò, scostò le tende di velluto e entrò nella sala. Anche qui la luce era azzurrina. Come un servo di scena che aspetta l’attore dietro il sipario, una figura premurosa, ma la cui voce aveva qualcosa di scostante, gli sussurrò:
– Benvenuto, signore, ha prenotato?
Era il maître. Sui cinquanta, smoking impeccabile, capelli grigi che nella luce azzurrina sembravano azzurri, un maestoso sorriso stereotipato.
– No, rispose Firmino, me ne sono proprio dimenticato.
– Non importa, sussurrò il maître, ho un buon tavolo per lei, la prego di seguirmi.
Firmino lo seguì. Calcolò una trentina di tavoli, quasi tutti occupati. Avventori di mezza età, soprattutto, gli parve, le signore abbastanza eleganti, i cavalieri più sullo sportivo, con giacche di lino e qualche maglietta. Sul fondo del locale c’era un piccolo palco con il boccascena in stile barocco. Era vuoto. Evidentemente era un intervallo, e nella sala tinta di azzurro aleggiava una musica che a Firmino parve di riconoscere. Si portò un dito all’orecchio in tono interrogativo e il maître gli mormorò:
– Puccini, signore. Questo tavolo è di suo gradimento?
Era un tavolo non troppo vicino al palcoscenico, ma abbastanza laterale, il che gli dava la possibilità di osservare tutta la sala.
– Il signore ha già cenato o le devo portare un menù?, chiese il maître.
– Si può cenare anche qui?, chiese Firmino, credevo che il ristorante fosse accanto.
– Solo bocconcini, rispose il maître, piccoli piatti.
– Per esempio?
– Pesce spada affumicato, specificò il maître, ciotolina di aragosta fredda, cose così, ma preferisce che le porti il menù o gradisce solo qualcosa da bere?
– Bah, rispose Firmino distrattamente, cosa mi propone?
– Per non sbagliare direi una buona coppa di champagne, tanto per cominciare, rispose il maître.
Firmino pensò che doveva telefonare con urgenza al direttore perché gli mandasse un vaglia telegrafico, ormai l’anticipo delle spese era finito, e viveva sul prestito di Dona Rosa.
– D’accordo, rispose con noncuranza, vada per lo champagne, ma che sia del migliore.
Il maître si allontanò in punta di piedi. La musica pucciniana cessò, le luci si abbassarono e un riflettore illuminò il palcoscenico. Di un cono azzurro, naturalmente. Nel cono di luce sbucò una ragazza giovane e bella con i capelli raccolti a crocchia, e cominciò a cantare. Cantava senza accompagnamento musicale, le parole erano portoghesi ma la melodia era una specie di blues, e solo dopo un po’ Firmino si rese conto che era un vecchio fado di Coimbra che la ragazza cantava come se fosse un pezzo di jazz. Ci fu un applauso molto discreto e le luci si alzarono di nuovo. Il cameriere arrivò con la coppa di champagne e gliela posò sul tavolo. Firmino ne bevve un sorso. Non che si intendesse molto di champagne, ma quello era tremendo, con un gusto dolciastro. Si guardò intorno. Tutto era soffice e tranquillo, l’atmosfera ovattata. I camerieri si aggiravano fra i tavoli con passo felpato, un altoparlante trasmetteva in sordina una morna di Cesária Évora, i clienti chiacchieravano a voce bassa. Al tavolo accanto al suo c’era un signore solo che fumava una sigaretta dietro l’altra, fissando con ostinazione il secchiello con la bottiglia di champagne che aveva di fronte. Quello era champagne vero, notò Firmino leggendo l’etichetta, una nota marca francese. Il signore si accorse che Firmino lo guardava e a sua volta lo guardò. Era sui cinquanta, occhiali di tartaruga, un baffetto arruffato, i capelli rossicci. Vestiva finto sportivo, una maglietta malva sotto una giacca di lino spiegazzata. L’uomo alzò il bicchiere con mano malferma verso Firmino e gli indirizzò un brindisi. Anche Firmino alzò il suo bicchiere, ma non bevve. L’uomo lo guardò con aria interrogativa e avvicinò la sedia.
– Non beve?, chiese.
– Non è buono, rispose Firmino, però idealmente mi unisco al suo brindisi.
– Sa quale è il segreto?, chiese l’uomo strizzando un occhio, chiedere una bottiglia intera, su quella si può essere sicuri, se chiede una coppa di champagne le servono spumante nazionale e gliela fanno pagare un occhio della testa.
Si versò un altro bicchiere e lo bevve d’un fiato.
– Sono molto giù, mormorò in tono confidenziale, caro amico, sono molto giù.
Dette un sospiro profondo e appoggiò il viso a una mano. Aveva un’aria sconsolata. Mormorò:
– Lei mi fa: frena. Così, all’improvviso: frena. E questo sulla strada di Guimarães, che oltre tutto è piena di curve. Io rallento e la guardo e lei mi fa: ti ho detto frena. Apre la portiera, si strappa la collana di perle che le avevo regalato la mattina, me la butta in faccia e scende, senza nemmeno una parola, niente di niente, e sbatte lo sportello. Ho ragione a essere giù?
Firmino non si pronunciò, ma fece un leggero cenno come se annuisse.
– Venticinque anni di differenza, confidò l’uomo, non so se mi spiego. Ho ragione di sentirmi giù?
Firmino fece per dire qualcosa ma l’uomo continuò per conto suo, perché ormai andava a ruota libera:
– È per questo che sono venuto al Puccini’s, è il posto giusto quando uno si sente giù, no?, è il posto giusto per tirarsi su, e lei lo sa meglio di me.
– Certo, rispose Firmino, capisco perfettamente, è proprio il posto giusto.
L’uomo dette un colpetto sulla bottiglia di champagne e insieme si toccò il naso.
– Questa, disse, questa ci vuole, è chiaro, però il posto migliore è di là, nel salottino.
Fece un gesto vago verso il fondo della sala.
– Ah, mormorò Firmino, il salottino, certo, è quello che ci vuole.
L’uomo si toccò di nuovo il naso con l’indice.
– La cosa migliore, prezzo accessibile e discrezione assicurata, lei però verrà dopo di me.
– Sa, disse Firmino, stasera mi sento un po’ giù anch’io, certo, accetto il mio turno.
Il cinquantenne depresso indicò una tenda di velluto proprio accanto al palco.
– La Bohème è proprio quello che ci vuole, ridacchiò, è la musica giusta per tirarsi su. E con l’indice si dette nuovamente un colpetto sul naso.
Firmino si alzò con noncuranza e aggirò la sala lungo le pareti. Accanto alla tenda indicata dal cinquantenne depresso ce n’era un’altra con scritto “Servizi”, con due figurine in costume regionale, un contadinello e una contadinella. Firmino entrò nelle toilettes, si lavò le mani e si guardò allo specchio. Pensò alla raccomandazione dell’avvocato di non sentirsi Philip Marlowe. Non era proprio il suo ruolo, ma l’indicazione del cinquantenne depresso lo stava interessando. Uscì dalle toilettes e, sempre con aria noncurante, si infilò nella tenda accanto. La tenda si apriva su un corridoio foderato di moquette sul pavimento e sulle pareti. Firmino avanzò tranquillamente. Sulla destra c’era una porta imbottita, con una targhetta d’argento sulla quale c’era scritto “La Bohème”. Firmino l’aprì di colpo e infilò la testa dentro. Era un piccolo boudoir foderato d’azzurro, con luci soffuse e un divano. Sul divano c’era un uomo disteso e la musica era pucciniana, gli parve, anche se non riuscì a capire di quale opera si trattava. Firmino si avvicinò alla figura distesa a pancia all’aria e gli dette un colpetto sulla spalla. L’uomo non si mosse. Firmino lo scrollò per un braccio. L’uomo sembrava in coma profondo. Firmino uscì rapidamente e chiuse la porta.
Raggiunse il suo tavolo. Il cinquantenne depresso continuava a fissare ostinatamente la sua bottiglia di champagne.
– Mi sa che deve aspettare un po’, gli mormorò, il salottino è occupato.
– Crede?, chiese l’uomo con ansia.
– Ne sono sicuro, rispose Firmino, dentro c’è un signore nel mondo dei sogni.
Il cinquantenne depresso fece un’aria disperata.
– Ma per me sarebbe una cosa rapida, disse, due minuti, magari faccio un salto nell’ufficio del direttore.
– Ah, certo, rispose Firmino.
L’uomo fece un cenno al maître, ci fu un breve confabulare, si allontanarono insieme lungo le pareti della sala e sparirono dietro la tenda di velluto. Le luci si abbassarono, la ragazza che prima cantava i blues si affacciò sul palco, intrattenne il pubblico con due battute simpatiche e promise di cantare un fado degli anni Trenta pregando di pazientare ancora dieci minuti, perché, specificò, il suonatore di viola aveva avuto un contrattempo. Firmino teneva gli occhi fissi sulla tenda del corridoio. Il cinquantenne depresso sbucò e con passo agile attraversò la sala passando fra i tavoli. Quando si sedette guardò Firmino. Non era più depresso, aveva gli occhi lustri e un’espressione piena di vitalità. Fece a Firmino un gesto col pollice in alto, come se fosse un pilota che dice OK.
– In forma?, gli chiese Firmino.
– Venticinque anni meno di me, ma era una puttanella, sussurrò l’uomo, solo che per accorgermene ci voleva un momento di riflessione.
– Una riflessione un po’ cara, sussurrò a sua volta Firmino.
– Duecento dollari ben spesi, disse l’uomo, proprio a buon mercato, se considera la discrezione.
– Effettivamente non è carissima, rispose Firmino, purtroppo mi sono dimenticato i dollari a casa.
– Titânio accetta solo dollari, disse il cinquantenne, caro amico, si metta nei suoi panni, lei li accetterebbe gli scudi portoghesi con tutti i rischi che deve correre?
– Certo che no, confermò Firmino.
– Si era prenotato per La Bohème?, chiese l’uomo, peccato per lei.
Firmino guardò lo scontrino e contò i soldi al centesimo. Per fortuna si pagava in scudi. Aveva voglia di percorrere a piedi tutto il lungomare, era sicuro che un po’ d’aria gli avrebbe fatto bene.