Firmino entrò nel cortile del palazzotto di Rua das Flores e passò davanti allo sgabuzzino della portiera. La donna gli dette una rapida occhiata e rituffò lo sguardo nel suo lavoro a maglia. Firmino attraversò il corridoio e suonò il campanello. La porta si aprì di scatto, come la prima volta.
Don Fernando era seduto a un tavolino coperto di panno verde, quasi in bilico su una sedia che a stento conteneva la sua mole, e davanti a sé aveva un gioco di carte. Il suo sigaro era acceso, ma era posato su un portacenere del tavolo e si stava consumando lentamente. Nella sala c’era un tanfo di muffa e di fumo stantio.
– Sto facendo uno Spite and Malice, disse Don Fernando, ma non mi torna, non sono in giornata. Lei sa giocare a Spite and Malice?
Firmino se ne stava impalato davanti a lui, con un fascio di giornali sotto il braccio e guardò l’avvocato senza dire niente.
– Li chiamano giochi di pazienza, disse Don Fernando, ma è una definizione inesatta, ci vuole anche fiuto e logica, oltre che fortuna, naturalmente. Questa è una variante del Milligan, lei non conosce neppure il Milligan?
– Sinceramente no, rispose Firmino.
– Il Milligan si fa con più giocatori, spiegò Don Fernando, due mazzi di cinquantadue carte e colonne in progressione, si apre con l’asso o con la donna, con l’asso la colonna è ascendente, con la donna è discendente, ma il bello non è questo, il bello sono gli ostacoli.
L’avvocato prese il sigaro che aveva formato due buoni centimetri di cenere e dette una boccata voluttuosa.
– Lei dovrebbe studiarsi un po’ i cosiddetti giochi di pazienza, continuò, alcuni hanno un meccanismo simile a questa insopportabile logica che condiziona la nostra vita, per esempio il Milligan, ma si sieda, giovanotto, prenda quella poltroncina.
Firmino si sedette e appoggiò il fascio di giornali sul pavimento.
– Il Milligan è molto interessante, disse l’avvocato, è basato sulle mosse che ciascun giocatore esegue al fine di frapporre trappole per limitare il gioco dell’avversario che viene dopo di lui, e così a catena, come nelle discussioni internazionali di Ginevra.
Firmino lo guardò e sul suo volto si disegnò un’espressione di stupore. Cercò rapidamente di decifrare quello che voleva dire l’avvocato, ma non gli riuscì.
– Le discussioni di Ginevra?, chiese.
– Sa, disse l’avvocato, qualche anno fa chiesi di fare l’osservatore alle discussioni sul disarmo nucleare e missilistico che avvengono nella sede delle Nazioni Unite di Ginevra. Feci amicizia con una signora, l’ambasciatrice di un paese che proponeva il disarmo. Si dava il caso che il suo paese, che faceva esperimenti atomici, fosse anche impegnato per la denuclearizzazione del mondo, capisce il concetto?
– Capisco il concetto, disse Firmino, è un paradosso.
– Bene, continuò l’avvocato, la signora era una persona di ottima cultura, va da sé, ma soprattutto era un’appassionata di giochi di carte. E io un giorno le chiesi di spiegarmi il meccanismo di quelle trattative, che sfuggiva alla mia logica. Sa cosa mi rispose?
– Non saprei, rispose Firmino.
– Che mi studiassi il Milligan, disse Don Fernando, perché la logica era la stessa, e cioè: che ogni giocatore che pretende di collaborare con l’altro in realtà costruisce catene di carte studiando trappole per limitare il gioco dell’avversario. Che gliene pare?
– Un bel gioco, rispose Firmino.
– Eh sì, disse Don Fernando, è su questo che si regge l’equilibrio atomico del nostro pianeta, sul Milligan.
Dette un colpetto su una colonna di carte.
– Ma io me lo gioco da solo, con la variante dello Spite and Malice, mi sembra più opportuno.
– Vale a dire?, chiese Firmino.
– Che faccio un solitario, in modo da essere simultaneamente me stesso e il mio avversario, mi pare che la situazione lo richieda, in quanto a missili da lanciare e da evitare.
– Un missile ce l’abbiamo, dichiarò Firmino con soddisfazione, non sarà a testata nucleare ma è già qualcosa.
Don Fernando scompigliò il suo gioco di pazienza e cominciò a raccogliere le carte una a una.
– Mi interessa, giovanotto, disse.
– Al Puccini’s Butterfly si spaccia, disse Firmino, e si consuma in loco. Ci sono dei salottini riservati nel corridoio, musica operistica e comodi sofà, credo che sia soprattutto cocaina, ma potrebbe esserci anche altra roba, una sniffata costa duecento dollari, e chi gestisce i concertini è sicuramente Titânio Silva. Gli faccio un siluro sul mio giornale?
L’avvocato si alzò e attraversò la stanza con passo incerto. Si fermò vicino a una console stile impero sulla quale c’era una fotografia incorniciata che Firmino non aveva notato. Si appoggiò con un gomito al marmo della console, in un atteggiamento che a Firmino parve insieme teatrale e tribunalizio, quasi che davanti a lui ci fosse una corte a cui rivolgersi.
– Lei è un bravo reporter, giovanotto, esclamò, con certi limiti, naturalmente, ma non mi venga a fare il Don Chisciotte, perché il sergente Titânio Silva è un mulino a vento molto pericoloso. E poiché noi sappiamo bene che il nostro eroico Don Chisciotte si trovò a mal partito dopo essere stato trascinato dalle pale dei mulini, e poiché io non posso né voglio essere il suo Sancho Panza che cosparge il suo miserevole corpo contuso con oli balsamici, le dirò solo una cosa, e apra bene le orecchie. Apra bene le orecchie perché è fondamentale come mossa del nostro Milligan. Lei ora elabora un dettagliato comunicato stampa da inviare a un’agenzia, e questo dettagliato comunicato stampa che descrive per filo e per segno il Puccini’s Butterfly, con i suoi teneri salottini, musica operistica, bustine di sostanze varie e dollari contati abilmente dall’esperto cassiere Titânio Silva, tutto questo, dicevo, sarà riportato in blocco dalla stampa portoghese, tutta la stampa possibile e immaginabile, quella alla quale stanno a cuore le magnifiche sorti e progressive del genere umano e quella a cui stanno a cuore le macchine sportive degli industrialotti del Nord, che poi è un’altra maniera di concepire le magnifiche sorti e progressive del genere umano, insomma, ognuno a suo modo dovrà fornire la notizia, chi con ferocia, chi con scandalo, chi con riserve, ma tutti dovranno scrivere che probabilmente, dicasi probabilmente, in seguito a precise testimonianze, nel locale suddetto si spacciano impunemente, avverbio confortato dalla curiosa distrazione della Guarda Nacional, che non lo ha mai perquisito, nel locale suddetto si spacciano polverine onirizzanti, le piace l’aggettivo? al modico prezzo di duecento dollari a bustina, vale a dire un terzo dello stipendio mensile di un normale lavoratore portoghese, in questo modo gli inviamo, al Puccini’s e ovviamente al signor Titânio, una bella perquisizione della polizia giudiziaria.
L’avvocato sembrò prendere fiato. Inspirò aria come uno che affoga e la sua respirazione fece il rumore di un vecchio mantice.
– È tutta colpa dei “puros”, disse, mi tocca comprare i “puros” spagnoli perché ormai gli Avana non si trovano più, sono diventati un ricordo, ma forse anche quell’isola ormai è solo un ricordo. E poi continuò:
– Stiamo divagando, in realtà sono io che sto divagando, le chiedo scusa, oggi ho troppe cose per la testa.
La mano alla quale il suo volto era appoggiato tormentava la guancia cadente.
– E poi ho dormito male, aggiunse, ho troppe insonnie, e le insonnie portano fantasmi e fanno rinculare il tempo. Lei lo sa cosa significa il tempo quando rincula?
Guardò Firmino con aria inquisitoria, e Firmino provò di nuovo un irritato imbarazzo. Non gli piaceva quel modo che Don Fernando usava con lui e forse con altri, come se volesse una complicità, come se aspettasse una conferma ai suoi dubbi, ma quasi in modo minaccioso.
– Non so cosa significa, avvocato, disse, lei usa espressioni troppo ambigue, non so cosa vuol dire il tempo che rincula.
– Il tempo, sussurrò l’avvocato, mi rendo conto che lei non è l’interlocutore adatto. Certo, lei è giovane, e per lei il tempo è un nastro che le si dispiega davanti, come un automobilista che corre su una strada ignota e il cui unico interesse è ciò che verrà dopo la prossima curva. Ma non è tanto questo che voglio dire, mi riferivo a un concetto teorico, accidenti, chissà perché le teorie mi coinvolgono così tanto, forse perché mi occupo di diritto, e anch’esso è un’enorme teoria, un incerto edificio sul cui soffitto si apre una cupola infinita, come la volta celeste che osserviamo comodamente seduti sulle poltroncine di un planetario. Sa, una volta mi è capitato fra le mani un trattato di fisica teorica, una di quelle elucubrazioni elaborate da certi matematici rinchiusi in confortevoli celle universitarie, e che parlava del tempo, e una frase mi ha fatto riflettere, una frase che diceva che a un certo tempo, nell’universo, il tempo ha cominciato a esistere. Lo scienziato aggiungeva perfidamente che questo concetto risulta incomprensibile alle nostre categorie mentali.
Guardò Firmino con i suoi occhietti inquisitori. Cambiò posizione. Si mise le mani in tasca, con l’atteggiamento di un monello che sta provocando qualcuno.
– Non voglio sembrarle presuntuoso, disse con aria di sfida, ma un concetto così astratto aveva bisogno di una traduzione umana, capisce?
– Faccio il possibile, rispose Firmino.
– Il sogno, continuò l’avvocato, la traduzione della fisica teorica sul piano umano è possibile solo nel sogno. Perché in realtà la traduzione di questo concetto può avvenire semplicemente qui, proprio qui dentro.
Si dette un colpetto con l’indice sulla tempia.
– Nelle nostre testoline, continuò, ma solo mentre stanno dormendo, in quello spazio incontrollabile che secondo il dottor Freud è l’Inconscio allo stato libero. È vero che quel formidabile detective non poteva mettere in relazione il sogno con il teorema della fisica teorica, ma sarebbe interessante se un giorno qualcuno lo facesse. Le dispiace se fumo?
Traballò fino al tavolinetto e accese uno dei suoi sigari. Dette una boccata senza ingoiare il fumo e disegnò dei cerchi nell’aria.
– A volte sogno mia nonna, disse in tono meditativo, troppo spesso sogno mia nonna. Sa, è stata molto importante per la mia infanzia, praticamente sono cresciuto con lei, anche se in realtà di me si occupavano le istitutrici. E qualche volta la sogno bambina. Perché anche mia nonna è stata bambina, certo. Quella vecchia atroce, grassa come sono grasso io, i capelli racchiusi a crocchia, il nastrino di velluto sul collo, le nere vesti di seta, la sua maniera di scrutarmi in silenzio quando mi obbligava a prendere il tè nelle sue stanze, quella donna spaventosa che fu il mio incubo da sveglio è entrata nei miei sogni, e c’è entrata bambina, che strano, non avrei mai immaginato che quella vecchia megera fosse stata bambina, e invece nel mio sogno è una bambina, veste un vestitino azzurro leggero come una nuvola, va a piedi scalzi, i riccioli le cadono sulle spalle, e sono riccioli biondi. Io sto dall’altra parte di un ruscello e lei tenta di raggiungermi cercando di mettere i suoi piedini rosei sulle pietre del corso d’acqua. Io so che lei è mia nonna, ma allo stesso tempo è bambina come io sono bambino, non so se mi spiego, mi spiego?
– Non saprei, rispose cautamente Firmino.
– Non mi spiego, continuò l’avvocato, perché i sogni non si spiegano, non avvengono sul terreno del formulabile come vorrebbe farci credere il dottor Freud, volevo solo dire che il tempo può cominciare così, dentro i nostri sogni, ma non sono riuscito a dirlo.
Schiacciò il sigaro nel portacenere e dette uno di quei suoi grandi sospiri che sembravano il soffio di un mantice.
– Sono stanco, disse, ho bisogno di distrarmi, avrei cose più concrete da dirle, ma ora dobbiamo uscire.
– Sono venuto a piedi, specificò Firmino, come sa non ho mezzi di trasporto.
– A piedi no, disse Don Fernando, con tutta questa ciccia faccio troppa fatica a andare a piedi, forse potremmo farci condurre da Manuel, se stasera non ha troppo da fare nella sua cantina, è lui che mi fa da autista in rare occasioni, si prende cura della macchina di mio padre, è una Chevrolet del ’48 ma funziona benissimo, ha un motore che va come un olio, potremmo chiedergli se ci porta a spasso.
Firmino si rese conto che l’avvocato voleva la sua approvazione e si affrettò a fare un cenno di assenso con la testa. Don Fernando prese il telefono e chiamò il signor Manuel.
– Non è facile evadere da Oporto, disse l’avvocato, ma forse il problema vero è che non è facile evadere da noi stessi, scusi l’ovvietà.
La macchina stava correndo sulla litoranea, il signor Manuel guidava con molta compunzione, l’oscurità era calata e alla loro sinistra si vedevano ormai in lontananza le luci della città. Passarono davanti a un edificio imponente ricoperto di ardesia, l’avvocato lo indicò con un distratto gesto della mano.
– È la vecchia sede dell’Energia Elettrica, disse, che edificio sinistro, vero?, ora è una specie di deposito delle memorie della città, ma quando io ero bambino e mi portavano alla fattoria l’elettricità in campagna non arrivava ancora, la gente aveva lumi a petrolio.
– Alla Casa delle Bestie?, chiese il signor Manuel voltandosi leggermente.
– Alla Casa delle Bestie, rispose l’avvocato.
Abbassò il finestrino e fece entrare un po’ di brezza.
– La Casa delle Bestie è la mia prima infanzia, mormorò, i miei primi anni di vita li ho passati lì, in città mi ci portava l’istitutrice tedesca per il tè domenicale con mia nonna, chi ha fatto le veci di mia madre abitava là, si chiamava Mena.
L’automobile attraversò il ponte, prese a destra, prese una strada di poco traffico. Alla luce dei fari Firmino riuscì a decifrare un paio di indicazioni: Areinho, Massarelos. Località che non gli dicevano niente.
– Quand’ero bambino era una bella fattoria fiorente, disse l’avvocato, per questo si chiamava la Casa delle Bestie, cavalli, soprattutto, e muli, e maiali. Le vacche no, le vacche i fattori le tenevano a Nord, vicino a Amarante, qui c’erano soprattutto cavalli.
Sospirò. Ma il suo sospiro fu tenue, quasi impercettibile.
– La mia balia si chiamava Mena, continuò in un sussurro, era un diminutivo, io l’ho sempre chiamata Mena, mamma Mena, una donna giunonica con un seno che avrebbe potuto allevare dieci bambini e dove io mi rifugiavo per trovare conforto, il seno di mamma Mena.
– In fondo sono dei bei ricordi, osservò Firmino.
– La Mena morì troppo presto, purtroppo, continuò l’avvocato senza fare caso alla frase di Firmino, la fattoria l’ho regalata a suo figlio, facendogli promettere di tenere ancora qualche cavallo, e lui ne tiene ancora tre o quattro, anche se ci rimette, lo fa solo per assecondare questo mio capriccio, per farmi sentire nella casa della mia infanzia, dove io mi rifugio quando ho bisogno di conforto e di riflessione, e Jorge, il figlio di mamma Mena, è l’unico parente che mi resta, è mio fratello di latte, gli posso arrivare a casa all’ora che voglio. Guardi, stasera lei ha un grande privilegio.
– Me ne rendo conto, rispose Firmino.
Il signor Manuel imboccò una stradetta sterrata che sollevava una nuvola di polvere dietro l’automobile. La stradetta terminava in un’aia, con una casa colonica costruita alla maniera antica. Sotto il portico c’era un signore anziano che li aspettava. L’avvocato scese e lo abbracciò. Firmino gli strinse la mano, l’uomo mormorò un benvenuto e lui capì che era il fratello di latte di Don Fernando. Entrarono in una sala rustica con le travi di legno, dove c’era una tavola apparecchiata per cinque persone. Firmino fu invitato a sedersi, l’avvocato sparì in cucina preceduto dal signor Jorge. Quando tornarono reggevano entrambi un calice di vino bianco, e la ragazza che li seguiva riempì tutti i bicchieri.
– Questo è il vino della fattoria, spiegò l’avvocato, mio fratello lo esporta sul mercato estero, ma questa bottiglia sul mercato non si trova, è solo per consumo interno.
Fecero un brindisi e si sedettero a tavola.
– Fai venire anche tua moglie, disse l’avvocato al signor Jorge.
– Lo sai che si vergogna, replicò il signor Jorge, preferisce cenare in cucina con la ragazza, dice che è una conversazione tra uomini.
– Fai venire anche tua moglie, ripeté Don Fernando in tono autoritario, voglio che venga a tavola con noi.
La moglie entrò con un vassoio di coccio, salutò e si sedette in silenzio.
– Rosticciana, spiegò il signor Jorge all’avvocato, come se si giustificasse, tu telefoni sempre all’ultimo momento, è tutto quello che abbiamo potuto preparare, il maiale non è dei nostri, ma puoi fidarti.
Durante la cena non dissero niente, o poche cose. Il tempo, quel caldo umido, il traffico divenuto impossibile: cose così. Il signor Manuel osò una battuta e disse:
– Ah, caro Jorge, se nel mio ristorante potessi avere un cuoco come il tuo!
– Il mio cuoco è mia moglie, rispose con semplicità il signor Jorge.
La conversazione finì lì. La ragazza che aveva servito il vino entrò dalla cucina e portò il caffè.
– È la nipote del Joaquim, disse il signor Jorge rivolto a Don Fernando, sta più da noi che a casa sua, te lo ricordi il Joaquim?, prima di morire ha sofferto tanto.
L’avvocato annuì e non rispose. Il signor Jorge stappò una bottiglia di grappa e fece il giro dei bicchieri.
– Fernando, disse, io e Manuel restiamo qui a tavola a chiacchierare, abbiamo molte cose da dirci sulle automobili antiche, se vuoi portare il tuo ospite a vedere i cavalli vai pure.
L’avvocato si alzò con il bicchiere di grappa in mano e Firmino lo seguì fuori della casa. La notte era stellata, e il cielo di una luminosità straordinaria. Da dietro la collina sorgeva il riverbero delle luci di Oporto. L’avvocato avanzò nell’aia di qualche passo con Firmino a fianco. Alzò un braccio e fece un gesto circolare seguendo la circonferenza dell’aia.
– Cotogni, disse, qui tutto intorno c’erano meli cotogni, una volta. Sotto ci pascolavano i maiali, perché molti frutti cadevano per terra. La Mena faceva la marmellata in un pentolone annerito, la faceva bollire nel camino.
Oltre l’aia si vedevano le sagome scure delle stalle e dei fienili. L’avvocato vi si diresse col suo passo incerto.
– Il nome di Artur London le dice qualcosa?, mormorò.
Firmino rifletté un istante. Aveva sempre paura di sbagliarsi rispondendo a quelle domande improvvise che gli faceva l’avvocato.
– Non era quel dirigente politico cecoslovacco che fu torturato dai comunisti del suo paese?, ribatté.
– Perché confessasse il falso, aggiunse l’avvocato, vi ha scritto sopra un libro, si chiama La confessione.
– Ho visto il film, dichiarò Firmino.
– Fa lo stesso, mormorò l’avvocato, i nomi dei suoi principali aguzzini sono Kohoutek e Smola, questi sono i loro nomi esatti.
Aprì la porta della stalla ed entrò. C’erano tre cavalli, e uno di essi scalpitò come se fosse spaventato. Sopra la porta c’era una lampada azzurrina come quella dei treni. L’avvocato si sedette pesantemente su un cubo di paglia pressata e Firmino seguì il suo esempio.
– Mi piace questo odore, disse Don Fernando, quando mi sento depresso vengo qui, respiro questo odore e guardo i cavalli.
Si dette un colpetto sull’enorme ventre.
– Credo che per un uomo come me, con il fisico così deformato e repellente, guardare la bellezza di un cavallo sia una specie di consolazione, dà fiducia nella natura. A proposito, il nome di Henri Alleg le dice qualcosa?
Firmino si sentì di nuovo preso alla sprovvista. Scosse semplicemente il capo nella semioscurità e preferì non rispondere.
– Peccato, disse l’avvocato, era un suo collega, un giornalista, ha scritto un libro che si chiama La question, ci racconta come nel 1957, accusato dalle forze armate francesi di essere comunista e filoalgerino, lui, europeo e francese, venne torturato a Algeri per rivelare i nomi degli altri resistenti. Ricapitolando: London fu torturato dai comunisti, Alleg fu torturato perché era comunista. Il che ci conferma che la tortura può venire da ogni parte, è questo il vero problema.
Firmino non rispose. Un cavallo nitrì all’improvviso, con un grido che a Firmino parve inquietante.
– L’aguzzino di Alleg si chiamava Charbonnier, sussurrò l’avvocato, era un luogotenente dei paracadutisti, Charbonnier, era lui che gli dava scariche elettriche sui testicoli, ho la mania di fissare i nomi dei torturatori, chissà perché ho l’impressione che fissare i nomi dei torturatori abbia un senso, e sa perché?, perché la tortura è una responsabilità individuale, l’obbedienza a un ordine superiore non è tollerabile, troppa gente si è nascosta dietro questa miserabile giustificazione facendosene uno schermo legale, capisce?, si nascondono dietro la Grundnorm.
Dette un enorme sospiro e un cavallo rispose scalpitando con fastidio.
– Molti anni fa, quando ero un giovane pieno di entusiasmo, e quando credevo che scrivere servisse a qualcosa, mi ero messo in testa di scrivere sulla tortura. Tornavo da Ginevra, allora il Portogallo era un paese dittatoriale dominato da una polizia politica che sapeva come estorcere le confessioni alla gente, non so se mi spiego. Avevo un discreto bagaglio nazionale da studiare, tutto a mia disposizione, l’Inquisizione portoghese, e cominciai a frequentare gli archivi della Torre do Tombo. Le assicuro che quei raffinati metodi degli aguzzini che hanno seviziato le persone per secoli nel nostro Paese sono di un interesse tutto speciale, così attenti alla muscolatura del corpo umano che fu studiata dal nobile Vesalio, alle reazioni cui possono rispondere i nervi principali che attraversano le nostre membra, i nostri poveri genitali, una conoscenza anatomica perfetta, tutta fatta in nome di una Grundnorm che più Grundnorm di così non si può, la Norma Assoluta, capisce?
– Vale a dire?, chiese Firmino.
– Dio, rispose l’avvocato. Quei diligenti e raffinatissimi aguzzini lavoravano per conto di Dio, da lui avevano ricevuto l’ordine superiore, il concetto è praticamente lo stesso: io non sono responsabile, sono un umile sergente, e me lo ha ordinato il mio capitano, io non sono responsabile, sono un umile capitano, e me lo ha ordinato il mio generale, oppure lo Stato. Oppure: Dio. È più incontrobattibile.
– E poi non scrisse niente?, chiese Firmino.
– Ci rinunciai.
– Perché?, chiese Firmino, mi scusi se glielo chiedo.
– Chi lo sa, rispose Don Fernando, forse mi sembrava inutile scrivere contro la Grundnorm, fra l’altro avevo letto sulla tortura un saggio di un certo tedesco pieno di boria, e questo mi fece scegliere.
– Perdoni la domanda, disse Firmino, ma lei legge solo i tedeschi?
– Soprattutto, rispose Don Fernando, forse è la cultura a cui appartengo davvero, anche se sono cresciuto in Portogallo, è la prima lingua in cui ho imparato a esprimermi. L’autore di quel saggio si chiamava Alexander Mitscherlich, è uno psicoanalista, purtroppo di questi problemi hanno cominciato a occuparsene anche gli psicoanalisti, sa, tirò fuori l’immagine del Cristo crocifisso affermando che è un’immagine associata alla nostra cultura e in qualche modo utilizzandola per sostenere che se la morte in sé non costituisce nell’Inconscio una punizione sufficiente, beh, la conclusione pratica è: non facciamoci illusioni, la tortura non scomparirà mai, perché non possiamo sopprimere le pulsioni distruttive dell’uomo. Per dirla più brevemente, rassegnamoci, perché l’homme est méchant. Tutto qua, voleva dire quel tizio con tutte le sue teorie freudiane, l’homme est méchant. Per questo feci un’altra scelta.
– Vale a dire?, chiese Firmino.
– Passare all’atto pratico, rispose Don Fernando, è più umile, andare in tribunale a difendere coloro che subiscono simili trattamenti. Non saprei dirle se sia più utile scrivere un trattato sull’agricoltura o rompere una zolla con la zappa, ma io scelsi di rompere le zolle con la zappa, come un contadino. Ho parlato di umiltà, ma non mi creda troppo, in fondo la mia è soprattutto una posizione di superbia.
– Perché mi racconta tutto questo?, chiese Firmino.
– Damasceno Monteiro è stato torturato, mormorò l’avvocato, ha segni di bruciature di sigaretta su tutto il corpo.
– Come lo sa?, chiese Firmino.
– Ho chiesto una seconda autopsia, disse Don Fernando, la prima autopsia si è dimenticata di riportare questo particolare insignificante.
Respirò profondamente con un gorgoglio da asmatico.
– Usciamo, disse, ho bisogno d’aria. Ma intanto questo lo scriva sul suo giornale, ovviamente la fonte è ignota, ma lei lo faccia sapere subito all’opinione pubblica, fra due o tre giorni parleremo eventualmente del cosiddetto segreto istruttorio e degli interrogatori in corso, ma una cosa alla volta.
Uscirono sull’aia. Don Fernando alzò la testa e guardò la volta celeste.
– Milioni di stelle, disse, milioni di nebulose, cazzo, milioni di nebulose, e noi qui ci stiamo occupando di elettrodi che ci infilano nei genitali.