Il suo Sumol di ananas, disse con aria disgustata il Barman del Museo di Arte Antica posando il bicchiere sul mio tavolino. Questo giardino è una delizia, dissi io tanto per dire qualcosa, persino in un giorno come questo è fresco, hanno fatto molto bene ad aprire un caffè qui, questo museo aveva proprio bisogno di un caffè, ai tempi miei non c’era niente. Eh già, disse lui con la stessa aria disgustata, serviamo bibite alcoliche e tutto il resto, ma purtroppo i clienti bevono Sumol e limonate. Ho bisogno di un Sumol perché mi aiuta a digerire, dissi io, oggi a pranzo ho mangiato pesante e non ho ancora digerito. Si digerisce meglio con qualcosa di alcolico, disse il Barman del Museo di Arte Antica, sono le bevande alcoliche che aiutano la digestione, lei che è straniero dovrebbe saperlo. Perché io che sono straniero dovrei saperlo?, chiesi. Perché è all’estero che si sa tutto, disse lui implacabile, è qui, in questo paese, che la gente non sa mai niente, sono tutti ignoranti, questo è il problema, che viaggiano poco. Non vuole sedersi?, chiesi offrendogli una sedia. Il Barman del Museo di Arte Antica si guardò attorno. Beh, disse, visto che non c’è nessuno posso allungare un poco le gambe, è da stamattina che sto in piedi. Si sedette, incrociò le gambe e si accese una sigaretta. E lei, ha viaggiato molto?, gli domandai riprendendo la conversazione. Sono stato in Francia, rispose, sono stato emigrante per tanti anni, sapesse come stavo bene a Parigi, senonché l’anno scorso ho deciso di tornare e adesso sto qui a servir limonate, per la verità avrei dovuto lavorare in uno di quei bar di lusso che ci sono a Cascais, dove vanno a bere gli inglesi e i francesi, solo che non ho trovato un posto, anzi le dirò di più, là a fare il barman ci trova certi tipi che non sanno nemmeno distinguere un Bourbon da un brandy nazionale, che tristezza. A lei non piace servire limonate?, chiesi. Beh, disse lui, il fatto è che la mia professione era quella del barman, però un barman per davvero, cioè fare cocktails e long-drinks, qui sono dequalificato, pensi che ero il barman dell’Harry’s Bar di Parigi, non so se lo conosce, lo conosce? Non lo conosco, dissi. È in rue Daunau, disse lui, dalle parti dell’Opéra, se una volta o l’altra dovesse capitarci chieda di Daniel, ci vada a nome mio, è il miglior barman del mondo, a me ha insegnato tutto, adesso ha una certa età ma è sempre il migliore, lei gli chieda un “Alexander” e vedrà che non si pente. Il Barman del Museo di Arte Antica spense la sigaretta nel portacenere e sospirò. Così la vede la differenza, disse, ora qui servo limonate, pensi che là, all’Harry’s Bar, avevamo centosessanta etichette diverse di whisky, non so se mi capisce, l’Harry’s Bar è il quartier général degli inglesi e degli americani a Parigi, gente che sa bere bene, mica come i portoghesi che bevono solo aranciate. Arrivai in fondo al mio Sumol con un po’ di vergogna e replicai: non sono d’accordo, quanto al bere i portoghesi si difendono, eccome. Vino, forse, disse il Barman del Museo di Arte Antica, per quel che riguarda il vino niente da dire, non discuto, ma guardi che in pratica sempre di vino si tratta. Anche la grappa, aggiunsi, con la grappa mica ci scherzano. Eh già, disse il Barman del Museo di Arte Antica, ma con i cocktails non ci hanno niente a che fare, non hanno neanche l’idea di quel che è un cocktail. Ma perché è tornato?, dissi io, poteva restare a Parigi. Ho dovuto tornare, sospirò ancora lui, mia suocera si è ammalata, le ha preso una paralisi, viveva da sola a Benfica, mia moglie doveva prendersi cura di sua madre, e poi a mia moglie la Francia non è mai piaciuta, aveva una nostalgia tremenda delle nostre salsicce e delle sardine, mia moglie è portoghese che più non si può, poverina, però è una brava donna, insomma si è fatto quel che si doveva fare, eccomi qua a servir limonate. Il Barman del Museo di Arte Antica guardò il mio bicchiere vuoto e cercò il mio sguardo. Ha digerito?, chiese. Credo di sì, dissi io, il Sumol è imbattibile per digerire, specialmente il Sumol di ananas. Allora forse le posso consigliare un drink di mia creazione, disse il Barman del Museo di Arte Antica, un cocktail che mi sono inventato quando sono venuto a lavorare qui, non può neanche immaginare chi lo ha bevuto ieri, vediamo se indovina. Non ne ho idea, dissi, non ne ho la minima idea. Davvero non lo sa chi c’era qui ieri?, chiese deluso il Barman del Museo di Arte Antica, stava anche sui giornali, il “Público Magazine” ha fatto un servizio veramente speciale, a me mi si vede in una foto. Oggi non ho comprato i giornali, replicai, mi dispiace, ho preso solo “A Bola”. “A Bola”?!, esclamò lui con disprezzo, avrebbe dovuto comprare “O Público”, sembra un giornale francese. Già, dissi, ma ho comprato solo “A Bola”. Basta così, disse il Barman del Museo di Arte Antica, adesso cerchi d’indovinare. Indovinare cosa?, chiesi. Indovinare chi c’era qui ieri, disse lui. Eh no, dissi io, non ne ho la più pallida idea. Il Presidente della Repubblica!, esclamò raggiante il Barman del Museo di Arte Antica, c’era qui il Presidente della Repubblica in persona, è venuto con un ospite straniero che è in visita ufficiale in Portogallo, il primo ministro di un paese asiatico, e sono venuti a visitare il museo. Il Barman del Museo di Arte Antica mi diede una pacca sulle spalle, manco fossimo vecchi amici. Bene, disse, mica per vantarmi, ma sa cosa mi ha detto?, mi ha detto: buonasera signor Manel, pensi un po’, mi ha chiamato per nome, signor Manel. Devono avere un buon servizio d’informazioni, dissi, prima delle visite ufficiali prendono informazioni, sanno tutto. Niente di tutto questo, caro signore, obiettò il Barman del Museo di Arte Antica, niente di tutto questo, solo che il Presidente della Repubblica si trovò un giorno all’Harry’s Bar, tanti anni fa, quando era in esilio a Parigi, e semplicemente si ricordava di me, ha una memoria formidabile il nostro Presidente. Davvero fuori dal comune, confermai, una memoria di ferro è una dote fondamentale per un buon politico. E mi ha detto: come sta signor Manel?, ripeté il Barman del Museo di Arte Antica, non crede che sia un po’ eccezionale? Come no, risposi io, e lei cos’ha risposto, signor Manel? Gli ho teso la mano, disse lui, e gli ho preparato un buon cocktail, perché so che a lui piacciono, è un uomo eccezionale il nostro Presidente, ma è così goloso, gli piace mangiare e bere, e allora gli ho preparato un buon drink, che è proprio quello che stavo per consigliare a lei, non vuole assaggiarlo ora che ha digerito? Magari, dissi io, di che si tratta? Guardi, disse lui, non è proprio un cocktail e neanche un long-drink, diciamo che è una via di mezzo, è una cosa di mia invenzione, si chiama “Janelas Verdes’ Dream”. Il nome è proprio ben trovato, dissi io, quali sono gli ingredienti? Guardi, caro amico, disse confidenzialmente il Barman del Museo di Arte Antica, in genere non è mia abitudine rivelare gli ingredienti della mia cucina, è un segreto professionale, ma lei è straniero e glieli dico, sono tre quarti di vodka, un quarto di succo di limone e un cucchiaino di sciroppo di menta piperita, si mette il tutto nello shaker con tre cubetti di ghiaccio, si agita fino a farsi dolere il braccio e prima di servire si toglie il ghiaccio, la vodka e il succo di limone legano perfettamente, e lo sciroppo di menta piperita, oltre a dargli il profumo, gli dà quel colore verde che è necessario per via del nome, non so se mi capisce: verde, “Janelas Verdes”, è fondamentale. Bene, dissi io, mi sa che voglio proprio provarlo il “Janelas Verdes’ Dream”, mi ha proprio stuzzicato. Buona scelta, esclamò il Barman del Museo di Arte Antica, anzi le dico di più: il succo di limone le toglie la sete, l’alcol le dà forza, il che è quel che ci vuole in un giorno come questo, e la menta piperita le rinfresca l’intestino, buona scelta. Si alzò in fretta e andò al banco. Il Barman del Museo di Arte Antica tornò con il mio “Janelas Verdes’ Dream” e posò il bicchiere sul tavolino con espressione trionfale. Portai il bicchiere alla bocca e pensai che quand’anche fosse stato un intruglio non dovevo darlo a vedere, la situazione esigeva un comportamento virile, ma alla fine non era proprio il caso, sicché feci schioccare la lingua contro il palato e dissi: veramente buono. Il Barman del Museo di Arte Antica tornò a sedersi e chiese: no? Sì, confermai, veramente. E poi continuai: senta, amico mio, ho un problema, lei conosce i guardiani del museo? Tutti, rispose lui senza pensarci un momento, sono tutti amici miei. Allora senta, dissi io, il mio problema è questo: sono venuto qui per vedere un dipinto, ma solo adesso mi rendo conto che il museo sta quasi per chiudere, bisogna che veda quel dipinto ma dieci minuti non mi bastano, avrei bisogno perlomeno di un’ora, ci può parlare lei con il guardiano che sta nella sala di quel dipinto per vedere se mi ci lascia stare perlomeno un’ora? Posso provarci, disse con aria complice il Barman del Museo di Arte Antica, il personale se ne va solo un’ora dopo la chiusura, per via delle pulizie, può darsi che il signore possa restare nella sala. Poi abbassò la voce come se si trattasse di un segreto e domandò: che dipinto è? Le Tentazioni di Sant’Antonio, risposi io. Non le ha mai viste?, domandò lui. Le ho viste decine di volte, risposi. Allora perché vuol tornare a vederle?, disse lui, visto che le conosce. Per capriccio, dissi io, diciamo che è un capriccio. Oh, allora va benissimo, disse il Barman del Museo di Arte Antica, io ho comprensione per i capricci di tutti i generi, capricci e alcol sono il mio forte. Crede che una mancia aiuterebbe a convincere il guardiano?, chiesi. Mi pare poco elegante, rispose.
Scomparve, io finii il mio cocktail e mi misi a pensare. Avevo davvero voglia di tornare a vedere il quadro, quanti anni erano che non lo vedevo? Tentai di fare il conto, ma non ci riuscii. E allora mi ricordai di quei pomeriggi d’inverno passati al museo, noi quattro e le nostre conversazioni, le nostre elucubrazioni sui simboli, le nostre interpretazioni, il nostro entusiasmo. Ed ora ero di nuovo lì e tutto era differente, solo il quadro era restato lo stesso, e mi stava aspettando. Ma era restato lo stesso o era cambiato anche lui? Voglio dire, non era possibile che ora il quadro fosse diverso solo perché i miei occhi lo avrebbero visto in un altro modo? Era questo che mi stavo chiedendo proprio quando tornò il Barman del Museo di Arte Antica. Si avvicinò con una gran flemma e incrociò il mio sguardo. Fatto, disse, è tutto risolto, il guardiano è il signor Joaquim, la sta aspettando. Mi alzai e pagai il conto. Il suo drink era davvero delizioso, dissi, grazie, adesso mi sento molto meglio. Il Barman del Museo di Arte Antica mi tese la mano. Addio, disse, mi piace la gente che sa apprezzare i cocktails, e se un giorno dovesse capitare all’Harry’s Bar chieda di Daniel, gli dica che la manda Manel.
Quando arrivai il guardiano mi fece un cenno complice, lo ringraziai e gli dissi che mi sarei trattenuto meno di un’ora, lui rispose che non c’erano problemi ed io entrai nella sala. Con gran disappunto vidi che non ero solo, di fronte alle Tentazioni c’era un copista, con cavalletto e tela, che stava lavorando. Non so perché ma mi dispiaceva di essere in compagnia, avrei voluto vedere quel quadro tutto solo, senza altri occhi che lo guardassero allo stesso tempo che i miei, senza la presenza leggermente fastidiosa di uno sconosciuto. Fu forse in conseguenza di questa sensazione di malessere che, invece di mettermi a guardare il quadro di fronte, lo aggirai e mi misi a guardare il retro del pannello laterale di sinistra, la scena di Cristo nell’Orto degli Ulivi. Cercai di concentrarmi su quella scena, forse nella speranza un po’ assurda che l’uomo chiudesse il suo cavalletto e se ne andasse. Se vuole vedere il quadro deve spicciarsi, disse l’uomo dall’altra parte, il museo sta per chiudere. Io mi affacciai e cercai di sorridere. Ho il permesso di restare ancora un’ora, dissi, il guardiano è stato molto simpatico. I guardiani di questo museo sono tutti molto simpatici, disse l’uomo, non lo sa? Uscii da dietro il quadro e mi avvicinai a lui. Sta facendo una copia?, domandai stupidamente. Solo la copia di un particolare, rispose, come può vedere è soltanto un particolare, ho l’abitudine di copiare solo particolari. Guardai la tela che stava dipingendo e vidi che stava riproducendo un dettaglio del pannello laterale destro, nel quale si vedono un uomo grasso e una vecchia che viaggiano per il cielo a cavallo di un pesce. La tela che dipingeva era almeno due metri di larghezza per un metro di altezza, e le figure di Bosch, ingrandite a quelle dimensioni, producevano uno stranissimo effetto: erano una mostruosità che sottolineava la mostruosità della scena. Ma che sta facendo?, chiesi con voce meravigliata, che sta facendo? Sto copiando un particolare, disse lui, non lo vede da sé?, sto semplicemente copiando un particolare, sono un pittore copista e faccio copie di particolari. Non avevo mai visto un particolare di Bosch riprodotto a queste dimensioni, obiettai, è una mostruosità. Forse, rispose il Copista, ma c’è a chi gli piace. Senta, dissi io, scusi la curiosità ma non capisco, perché fa una cosa del genere?, non ha senso. Il Copista posò il pennello e si pulì le mani con un panno. Mio caro amico, disse, la vita è strana e nella vita capitano strane cose, inoltre questo quadro è strano di per sé e produce cose strane. Bevve un sorso d’acqua da una bottiglia di plastica che stava ai piedi del cavalletto e disse: oggi ho lavorato abbastanza, posso fare una pausa, conversare un po’ con lei, lei è un esperto di questo quadro, è un critico? No, risposi, sono soltanto un amatore, conosco questo quadro da tanti anni, c’è stato un periodo che venivo a vederlo tutte le settimane, è un quadro che mi affascina molto. Sono dieci anni che me lo guardo questo quadro, disse il Copista, sono dieci anni che ci lavoro. Accidenti, dissi, dieci anni sono tanti, cos’ha fatto in questi dieci anni? Ho dipinto particolari, disse il Copista, ho passato dieci anni a dipingere particolari. In effetti è strano, dissi io, mi scusi ma mi sembra proprio strano. Il Copista scosse la testa. Sembra anche a me, disse, questa storia è cominciata giusto dieci anni fa, allora ero impiegato al Municipio, facevo un lavoro d’ufficio, ma avevo frequentato un corso alle Belle Arti e mi è sempre piaciuto dipingere, voglio dire, mi piaceva dipingere ma non avevo niente da dipingere, insomma non avevo l’ispirazione, l’ispirazione è fondamentale per la pittura. Eh già, assentii, senza l’ispirazione la pittura non è niente, le altre arti nemmeno. Così, disse il Copista, siccome non avevo l’ispirazione ma mi piaceva dipingere, tutte le domeniche venivo qui al museo e mi divertivo a copiare un quadro. Bevve un altro sorso d’acqua e continuò: una domenica mi misi a dipingere un particolare di questo quadro, per me era uno scherzo, una cosa come un’altra, sa, siccome a me piace il pesce scelsi questa razza che si vede qui nel pannello di centro, la vede questa razza che sta sopra al grillo? Grillo?, domandai, ma che mi sta dicendo? È così che si chiamano le figure senza tronco che Bosch dipingeva, disse il Copista, è un nome antico che è stato riscoperto dai critici moderni come Baltrušaitis, ma per la verità è un nome dell’antichità, fu Antifilo a inventarlo, perché lui dipingeva figure del genere, esseri senza tronco, solo la testa e le braccia. Il Copista sedette sul seggiolino pieghevole che stava di fronte al quadro e disse: sono stanco. Poi tirò fuori una sigaretta e l’accese. Ormai Joaquim ha chiuso la sala, disse, adesso posso anche fumarmela una sigaretta. Allora, insistetti, stava raccontandomi di quella domenica in cui si mise a dipingere una razza. Ah già, disse lui, mi sono messo a dipingere la razza un po’ per scherzo e un po’ perché mi era venuta l’idea di vendere il quadro a un ristorante, di tanto in tanto vendevo un quadro con dei pesci al ristorante “A Fortaleza”, non so se lo conosce, è un ristorante di Cascais, cucina portoghese e internazionale con splendida vista sulla baia, di tanto in tanto faccio certi quadretti per loro, ma adesso molto meno, in ogni caso è un ristorante magnifico, ci si mangia un’aragosta al vapore che è la fine del mondo, se capita a Cascais non perda l’occasione. Cavò di tasca un cartoncino e me lo diede, era il biglietto da visita del ristorante. È chiuso il mercoledì, aggiunse. Guardai appena il cartoncino e chiesi: allora, questa razza? Bene, disse lui, io stavo dipingendo la razza, avevo quasi finito, la copia era venuta benissimo e stavo per chiudere il cavalletto, e proprio in quel momento mi si avvicinò un signore straniero che se n’era stato ad osservare il mio lavoro e che mi disse in portoghese: voglio comprare il suo quadro, pago in dollari. Io lo guardai e dissi: questo quadro l’ho fatto per il ristorante “A Fortaleza” di Cascais, mi dispiace. Dispiace anche a me, replicò lui, ma questo quadro lei l’ha fatto per il mio ranch in Texas, io sono Francis Jeff Silver e ho un ranch in Texas grande come Lisbona, in casa mia non c’è neanche un quadro e io vado matto per Bosch, questo quadro lo voglio per casa mia. Il Copista spense la sigaretta sul pavimento e disse: così è cominciata questa storia. Non capisco bene, dissi, com’è che continua la storia? Semplice, disse lui, il texano ha cominciato ad ordinarmi sempre più quadri, tutti particolari, quel che voleva erano copie enormi di particolari delle Tentazioni ed io cominciai a copiare particolari, sono dieci anni che copio particolari delle Tentazioni, come le ho detto, il texano ha la casa piena di particolari di due metri di larghezza, sa?, l’estate scorsa sono stato a casa sua e lui mi ha pagato il viaggio, non se la può nemmeno immaginare, è una casa enorme, con tennis e due piscine, una casa di trenta stanze, ed è praticamente piena di particolari delle Tentazioni di Bosch. E lei?, domandai, lei cos’ha intenzione di fare? Intanto, disse il Copista, mi sono messo in pensione dal Municipio, ormai ho cinquantacinque anni e il lavoro d’ufficio non mi va più, il texano mi dà un buono stipendio per vivere e credo d’avercene ancora per dieci anni almeno di lavoro, ora lui vuole che lavori anche sui pannelli del retro, sempre in particolari, ho ancora molto da dipingere. Così lei sa proprio tutto di questo quadro, dissi io. Conosco questo quadro come le mie tasche, disse lui, per esempio, vede quel che sto dipingendo adesso?, bene, fino ad ora i critici hanno detto che questo pesce è una cernia, ma questo pesce non è una cernia, permetta che glielo dica, questo pesce è una tinca. Una tinca?, chiesi, la tinca è un pesce d’acqua dolce, no? La tinca è un pesce d’acqua dolce, mi confermò lui, vive nei pantani e nei fossi, è un pesce che ama il fango, è il pesce più grasso che ho mai mangiato in vita mia, al mio paese si fa un riso con la tinca che è affogato nel grasso, ricorda un po’ il riso con l’anguilla ma è molto più grasso, ci vuole un giorno intero per digerirlo. Il Copista fece una piccola pausa. È a cavallo di quella tinca grassa che questi due personaggi vanno incontro al diavolo, disse, non vede?, questi due stanno per avere un incontro diabolico, stanno andando a fare porcherie chissà dove. Il Copista aprì una bottiglietta di trementina e prese a pulirsi le mani con cura. Bosch aveva un’immaginazione perversa, disse, questa immaginazione l’ha attribuita al povero Sant’Antonio, ma l’immaginazione è del pittore, era lui che pensava tutte queste brutte cose, è evidente, credo che il povero Sant’Antonio non si sarebbe mai immaginato cose del genere, Sant’Antonio era una persona semplice. Ma fu tentato, obiettai io, fu il diavolo ad insinuargli nell’immaginazione queste cose perverse, Bosch dipinse la tempesta che si era scatenata nell’anima del santo, dipinse un delirio. E però questo quadro anticamente aveva un valore taumaturgico, disse il Copista, i malati andavano in pellegrinaggio davanti a lui aspettandosi un evento miracoloso che ponesse fine alle loro sofferenze. Il Copista lesse lo stupore sul mio volto e mi chiese: non lo sapeva? No, risposi, francamente non lo sapevo. Dunque, disse, il quadro era esposto all’ospedale degli Antoniani di Lisbona, che era un ospedale dove si ricoverava gente con malattie della pelle, che nella maggior parte dei casi erano malattie veneree e il terribile fuoco di Sant’Antonio, come si chiamava anticamente una specie di risipola contagiosa e come ancora la gente di campagna chiama questa malattia, è una malattia abbastanza tremenda perché si manifesta ciclicamente e la zona che ne viene attaccata è piena di bolle schifose che fanno molto male, ma adesso questa malattia ha un nome più scientifico, è un virus, si chiama herpes zoster. Il mio cuore cominciò a battere più rapido, sentii che stavo sudando e domandai: com’è che lei sa tutte queste cose? Non dimentichi che sono dieci anni che lavoro su questo quadro, rispose lui, per me non ha più misteri. Allora mi parli di questo virus, dissi, cosa sa di questo virus? È un virus molto strano, disse il Copista, pare che tutti ce lo portiamo dentro allo stato larvale, ma si manifesta quando le difese dell’organismo sono infiacchite, allora attacca con virulenza, poi si addormenta e torna ad attaccare ciclicamente, guardi, le dico una cosa, penso che l’herpes sia un po’ come il rimorso, se ne sta addormentato dentro di noi e un bel giorno si sveglia e ci attacca, poi torna a dormire perché noi siamo riusciti ad ammansirlo, ma è sempre dentro di noi, non c’è niente da fare contro il rimorso.
Il Copista cominciò a pulire tavolozza e pennelli. Coprì la tela con un panno e mi chiese di aiutarlo a trasportare il cavalletto contro la parete di fondo. Bene, disse, credo che per oggi basti, d’altra parte mica si deve esagerare, il mio mecenate vuole la riproduzione entro la fine d’agosto e penso di farcela, lei che ne dice? Mi sembra che abbia tutto il tempo, risposi, è molto avanti, il quadro è praticamente finito. Si trattiene?, mi chiese il Copista. No, dissi, credo di no, credo di averlo visto abbastanza questo quadro, e soprattutto oggi ho imparato sul suo conto cose che neanche sospettavo, adesso per me ha un significato che prima non aveva. Io vado dalle parti di Rua do Alecrim, disse il Copista. Perfetto, risposi, io vado a prendere un treno per Cascais al Cais do Sodré, possiamo fare la strada assieme.