Nota

Questa storia, che si svolge una domenica di luglio in una Lisbona deserta e torrida, è il Requiem che il personaggio che chiamo “io” ha dovuto eseguire con questo libro. Se qualcuno mi chiedesse perché questa storia è stata scritta in portoghese, risponderei che una storia come questa avrebbe potuto essere scritta solo in portoghese, e basta. Ma c’è un’altra cosa da chiarire. A rigore, un Requiem dovrebbe essere scritto in latino, perlomeno secondo quanto la tradizione prescrive. Ora si dà il caso che io, disgraziatamente, col latino me la passi male. Sia come sia, ho capito che non potevo scrivere un Requiem nella mia lingua, e che avevo bisogno di una lingua differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione.

Questo Requiem, oltre che una “sonata”, è anche un sogno, nel corso del quale il mio personaggio si trova ad incontrare vivi e morti sullo stesso piano: persone, cose e luoghi che avevano bisogno forse di un’orazione, un’orazione che il mio personaggio ha saputo fare solo a modo suo: attraverso un romanzo. Ma, prima di tutto, questo libro è un omaggio ad un paese che io ho adottato e che mi ha adottato a sua volta, ad una gente cui sono piaciuto e che, a sua volta, è piaciuta a me.

Se qualcuno osservasse che questo Requiem non è stato eseguito con la solennità che a un Requiem si deve, non potrei che essere d’accordo. La verità è tuttavia che ho preferito suonare la mia musica non con un organo, che è uno strumento proprio delle cattedrali, ma con un’armonica, che si può tenere in tasca, o con un organetto, che si può portare per strada. Come Drummond de Andrade, ho sempre amato la musica a buon mercato; e, come egli diceva, non voglio Händel come amico, e non ascolto il mattinale degli arcangeli. Mi basta quel che la strada mi ha portato, senza messaggio, e, come ci perdiamo, si è perduto.

A.T.