Nota del Traduttore

Dice l’Autore che “una storia come questa avrebbe potuto essere scritta solo in portoghese”. Poiché il portoghese lo conosce al punto da poterci scrivere una storia come questa, non c’è nulla di strano che lo abbia fatto: anche Fernando Pessoa, che attraverso questa storia vaga come un fantasma, scriveva in inglese, lingua dell’infanzia e dell’apprendistato letterario, poesie erotiche e racconti del mistero. Ma si dovrebbe chiedere all’Autore, che è uno scrittore italiano, perché non abbia voluto assumere il ruolo del traduttore di se stesso, visto che in italiano questa storia viene ora pubblicata.

Risponderebbe, credo (anzi, lo so), che, se lo avesse fatto, questa storia sarebbe diventata un’altra storia: poiché uno scrittore è anche e soprattutto la sua lingua – e, in questo caso, la lingua d’elezione dell’Autore è il portoghese. E allora sarebbe giusto chiedergli perché non abbia voluto affidare la traduzione del suo testo originale a qualche portoghesista di vaglia e traduttore di professione: cosa che il traduttore di questo testo, nonché compilatore di questa nota, non è. Questo non lo so, e non mi è venuta voglia di chiederglielo.

Quando mi sono deciso a tradurre questa storia, che l’Autore non poteva scrivere se non in portoghese, mi sono trovato in un doppio imbarazzo. Il primo mi era provocato da una conoscenza più affettiva che funzionale della lingua portoghese; il secondo, e più grave, dal fatto che si trattava di restituire alla lingua dell’Autore (cioè, a gran parte del suo essere lo scrittore Antonio Tabucchi) una storia che gli apparteneva al punto da poter essere scritta solo in portoghese. Li ho superati entrambi (insieme con l’effetto intimidatorio che poteva provocarmi, all’interno dell’uso di una langue comune, la parole dell’Autore), grazie ad una citazione di Bertrand Russell che trovo riferita da Roman Jakobson nel suo saggio sugli Aspetti linguistici della traduzione: “Nessuno può comprendere la parola formaggio se prima non ha un’esperienza non linguistica del formaggio”.

A prescindere dal fatto che questa storia sia fitta di riferimenti ad una gastronomia che mi appassiona, devo dire che proprio l’esperienza non linguistica che ho, da tanto tempo, sia dell’Autore che del Portogallo, mi ha alla fine deciso a tradurre questa storia: a fornirmi, e spero che non sia una presunzione, della necessaria competenza linguistica. Infine, a farmi correre il rischio di essere un “traduttore-traditore” all’ennesima potenza: poiché, se ogni traduzione è un tradimento, nel caso inedito della traduzione in italiano di uno scrittore italiano i rischi rischiano d’essere infiniti. Sicché mi angosciano le domande di Jakobson: quali messaggi avrò tradotto? Quali valori avrò tradito?

Non lo so. Paradossalmente, spero nessuno. So solo che, se l’Autore è stato spinto a scrivere questa storia in portoghese in quanto aveva bisogno di “una lingua differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione”, anch’io ho trovato in questa storia, nel suo Autore, in quella lingua, e quindi nella nostra, un luogo di riflessione e di affetto.