Il sogno di una Dc «europea»

Nella vittoria della Dc del 1976 era racchiusa anche la previsione della sua scomparsa, avvenuta molti anni più tardi, nel 1994. Tangentopoli e la nuova legge elettorale maggioritaria faranno deflagrare le due contraddizioni che Montanelli aveva già evidenziato: la Dc doveva trasformarsi in un moderno partito cristiano di ispirazione liberale, e contrapporsi al fronte statalista, comunista o socialdemocratico che fosse. E per farlo aveva bisogno di un profondo rinnovamento, di cultura prima che di classe dirigente.

La malattia della Dc era già chiara nel 1976. Ma il partito rifiutò la cura, e respinse ogni innesto liberal-democratico: Umberto Agnelli fece un giro da senatore e tornò in Fiat; De Carolis e Rossi di Montelera furono emarginati; Mario Segni ebbe uno spazio ma modesto: si ritagliò un ruolo solo più tardi, in solitaria, sull’inedito terreno dei referendum elettorali.

Nel 1976 la Dc resse perché funzionò ancora la «diga antemurale al comunismo». La miopia dei dirigenti democristiani fu di ritenere che quello schema potesse essere perpetuo. Già prima della caduta del Muro, il comunismo era in trasformazione. Il Pci governava le città più evolute d’Italia, Berlinguer e Marchais lanciavano l’eurocomunismo, Craxi stesso progettava una alternativa di sinistra, seppur datandola a dopo la improbabile inversione dei rapporti di forza tra Psi e Pci.

Solo la Dc era immobile nei suoi riti di potere, allergica a darsi una cultura, una identità, una missione che non fosse quella «sistemica» dell’alternativa al comunismo.

Secondo Cossiga la fine della Dc fu la conseguenza della caduta del muro di Berlino. Una sera feci arrabbiare il presidente chiedendogli perché mai un muro caduto a Berlino dovesse finire in testa a noi democristiani a Roma, mentre a Berlino continuavano a governare i democratici.

La risposta di Cossiga fu semplice: a Berlino la Cdu aveva accettato di essere l’alternativa ai socialdemocratici, e si era data missioni moderne e positive, capaci di entusiasmare anche l’elettorato più giovane. In Italia la Dc proseguì con le parole d’ordine genericamente anticomuniste e le sue pratiche di potere appoggiate sul patto sociale che assicurava al Nord l’evasione fiscale e al Sud un’economia assistenziale.

Tuttavia a uccidere la Dc non fu la fine del comunismo, e nemmeno Tangentopoli, che poteva essere una occasione di rinnovamento, con la promozione delle seconde file in luogo dei capi inquisiti. A condannare a morte la Dc fu la riforma elettorale, l’introduzione di quel sistema maggioritario che imponeva una identità e un sistema di alleanze.

Nel 1993 la Dc adottò l’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia, e il sistema elettorale maggioritario uninominale per l’elezione del Parlamento. Quelle riforme furono il punto di arrivo delle battaglie di Mario Segni, l’antico beniamino del «Giornale» di Montanelli.

Il progetto era la «democrazia compiuta», di cui parlava anche Moro, una stagione nuova della democrazia italiana, in cui forze opposte potessero alternarsi al governo.

Forse l’errore di Segni fu di confezionare un abito, sperando che i partiti si mettessero a dieta per entrarci. Non andrà così: la Dc italiana nemmeno nel 1993 si trasformerà in un polo moderato, piuttosto affogherà nella palude del terzo polo. Già alla fine degli anni Settanta era chiaro che sarebbe finita così.

«La Dc è il polo conservatore della politica italiana» scriveva Giorgio Galli, politologo da poco scomparso, autore di una storia della Democrazia cristiana vivacemente contestata dai leader dello stesso partito.

«Non saremo mai il polo conservatore della politica italiana» tuonava Ciriaco De Mita nei congressi campani, in cui mi onorava di un confronto costante. Io rispondevo che «conservatore» non era una parolaccia, ma l’identità del popolarismo europeo, la cifra delle famiglie democristiane vincenti nel mondo. Ma la sinistra democristiana non permise mai al partito di evolvere in una forza liberal-democratica.

Nel tempo non erano mancate forze intellettuali disponibili ad aiutare la Dc nella trasformazione. Ai democristiani sarebbe bastato leggere I liberal cristiani di Alberto Pasolini Zanelli, inviato del «Giornale». Alla fine degli anni Settanta, Pasolini Zanelli indicò lucidamente la via della salvezza della Dc. Il suo libro raccontava i successi e le sconfitte dei partiti cattolici europei, ed esortava la Dc a evitare l’epilogo del Mrp francese o della Dc spagnola: entrambi questi partiti erano stati soppiantati dalle destre, a differenza della Cdu tedesca e di altri partiti europei, che avevano incorniciato l’ispirazione cristiana in un quadro liberal-democratico.

Così Montanelli si esprimeva nella prefazione al libro del suo brillante inviato: «Può sembrare curioso, ma nella corsa alla identità europea i democristiani arrivano buoni ultimi, proprio loro che si rifanno al più europeo di tutti i valori, quello cristiano. Per non uscire perdenti dalla sfida con l’Europa, occorre che il partito democristiano paghi la cambiale dell’Illuminismo e si trasformi in un movimento liberalcristiano senza ambiguità».

Queste cose erano già chiare cinquant’anni fa. Il paradosso della Dc fu di volere l’Europa senza trasformarsi a misura della politica europea e una legge elettorale maggioritaria senza adeguare il partito a essa.

Con queste premesse, non c’è da chiedersi perché la Dc morì nel 1993, ma come fece a durare dal 1976 fino al 1992.