Il mio primo impegno di deputato fu la riunione dei gruppi congiunti di Camera e Senato. Prima di recarmi all’assemblea, mi concessi un giro in Transatlantico, al pari di altri neofiti. Gerardo Bianco mi presentò il vecchio Remo Gaspari, leader dell’Abruzzo democristiano e doroteo, ancora vagante a Montecitorio, nel giorno del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Gaspari prese tra le mani la mia cravatta da primo giorno di scuola, e commentò: «Buon gusto, hai buon gusto, ascolta un amico, metti da parte tutto quello che guadagnerai da deputato e apri un negozio di cravatte perché per i democristiani non c’è futuro».
Sospinto da questa profezia, mi accomodai nell’emiciclo ove i sessanta superstiti del Ppi si riunivano sotto la presidenza dei capigruppo uscenti Gerardo Bianco e Gabriele De Rosa. La star della giornata era il senatore a vita Giulio Andreotti, l’unico a trasmettere un’oncia di eternità democristiana.
Martinazzoli si era dimesso via fax da segretario e aveva affidato la reggenza del partito a Rosetta Jervolino. Il Ppi nella quota proporzionale aveva ottenuto l’undici per cento: oggi sarebbe un risultato da partito di massa, allora il popolo democristiano lo visse come una umiliazione.
La riunione di gruppo fu una seduta collettiva di psicanalisi. Si doveva scegliere il capogruppo ed era scontata l’elezione dell’eccentrico e intelligentissimo Nino Andreatta. Ma Rocco Buttiglione alzò il ditino, chiese la parola e annunciò la sua candidatura a capogruppo. Non stupì tanto la candidatura, ma il fatto che qualcuno avesse avuto una reazione vitale.
Buttiglione calò una sferzata di energia su un’assemblea paralizzata dalla paura. «Non voglio attardarmi sugli errori commessi, anche perché mi trovo nella imbarazzante condizione di averli previsti tutti» esordì quello che all’epoca era conosciuto come il filosofo del papa, per via di certi approfondimenti di filosofia che Giovanni Paolo II gli aveva chiesto nell’irrituale esordio del suo straordinario pontificato. «L’elettorato democristiano non ha capito perché doveva votare per noi, sapendo che non potevamo battere la sinistra: i più generosi ci hanno ancora votato nella quota proporzionale, ma pochi hanno creduto che nei collegi questo partito avesse possibilità di vittoria; per i nostri elettori battere la sinistra è il core business anche senza il muro di Berlino e Berlusconi lo ha capito meglio di noi, rubandoci prima il linguaggio, poi la collocazione e infine i voti» attaccò il filosofo, e fin qui annuivano tutti, anche i candidati imposti da Mino nel proporzionale.
Proseguì: «L’elettore moderato fa due domande: primo, sei alternativo alla sinistra? Secondo, non sarai mica troppo a destra? Avete mai sentito Martinazzoli attaccare Occhetto? E avete visto invece Berlusconi come lo ha preso per le corna e gli ha riunito contro una maggioranza moderata?».
Era così, ma nessuno lo aveva ancora detto: e i sessanta superstiti si domandarono perché Mino non ci avesse pensato, se era così facile. Ecco la spiegazione di Rocco Buttiglione: «La Dc trascurava la cultura e di conseguenza le restava solo la cultura della sinistra democristiana, la sua non modernità: non hanno letto Novak, sono fermi a una frase che è pure dubbio se De Gasperi abbia mai pronunziato, e cioè che la Dc è un partito di centro che guarda a sinistra; il Partito popolare in Europa è l’alternativa alla socialdemocrazia, noi ci siamo voluti chiamare popolari, ma questa scelta di campo non l’abbiamo fatta».
A questo punto i deputati della sinistra divennero nervosetti. «La sinistra Dc non era pronta a un’intesa con la Lega e meno ancora con la destra, il riflesso condizionato ciellenista impediva un dialogo con gli eredi evoluti, ma pur sempre eredi del Movimento sociale; la minore tradizione politica di Berlusconi è stata la sua forza, gli ha permesso di risolvere un problema pragmatico, quello delle alleanze, che la cultura di Martinazzoli aveva terribilmente complicato.»
Prima che i sessanta si annoiassero, Buttiglione mise in campo la speranza: «Si può ancora fare qualcosa» scandì perentorio, ed era in assoluto il primo a trasmettere il dubbio che si potesse fare ancora qualcosa. «Si può fare ancora qualcosa, se recuperiamo il ruolo a cui la Dc ha rinunziato» spiegò. «Ma bisogna fare presto, molto presto, prima che gli elettori si abituino a quella che può essere una novità effimera, Silvio Berlusconi.»
Buttiglione fu il primo a sottoscrivere la previsione sbagliata di un Berlusconi effimero e transitorio. Tutti i democristiani (e non solo loro) hanno basato le proprie mosse sull’idea di una provvisorietà berlusconiana, durata invece tre decenni.
«Se Berlusconi sceglierà il centro come ha dichiarato stamane» sillabò Rocco «non dobbiamo farci molte illusioni, la sinergia tra Ppi e Forza Italia sarà inevitabile; altra cosa è se Berlusconi sceglie una deriva plebiscitaria, che lo porta a fondare un inedito peronismo all’italiana; a quel punto si porrà il problema di un’alternativa democratica a Berlusconi», e il professore squarciò un altro velo sulla frontiera che il maggioritario schiudeva dinanzi agli orfani della Dc.
«Un governo di centro assieme a Forza Italia nel nome del Ppe o un centro-sinistra democratico idoneo a battere una destra plebiscitaria: questa è l’alternativa che si propone al Ppi» concluse il professor Buttiglione, senza sapere che le due linee si sarebbero realizzate entrambe, perché quel partito di lì a poco le avrebbe perseguite entrambe, spaccandosi sanguinosamente.
Ma torniamo all’assemblea: Andreotti osservava impassibile il filosofo che riforniva la truppa di pillole di buon senso; Bianco e De Rosa si guardavano perplessi. L’unico a proferire un commento fu il simpaticissimo Lorenzino Acquarone, vicepresidente della Camera, un grande avvocato genovese che i comunisti li avrebbe mangiati a pranzo e cena, uno che ammetteva che «fare il deputato mi costa come mantenere una barca di trenta metri ma è un vizio a cui non voglio rinunziare». Fu Acquarone a calare su Rocco l’etichetta che subito piacque ai vecchi dc, e che gli restò appiccicata addosso: «È bravo, ma non è uno di noi, è un alieno, è estraneo alla Dc, non parla come noi, non ragiona come noi, è un alieno».
Rocco l’alieno: per la sinistra democristiana Buttiglione restò sempre questo. I deputati votarono compatti per Nino Andreatta che venne eletto capogruppo. Per l’alieno Buttiglione votammo in otto, tra cui il coltissimo sociologo trentino Renzo Gubert, la prorettrice dell’Università di Firenze Stefania Fuscagni, la giovane Mariolina Moioli, insomma quelli che non contavano niente.