Il teorema di Sarti,
i dc all’assalto dei due Poli

In quegli anni non si muovevano solo i democristiani del centro-destra. Anche i popolari di sinistra si erano dati da fare. Il partito della sinistra democristiana si era presentato alle elezioni del 2001 nelle liste della nascente Margherita di Francesco Rutelli. La Seconda Repubblica è piena di partiti che alle elezioni si presentano dentro altri partiti (nella Prima Repubblica sarebbe stato impensabile, a precisi contenuti corrispondevano precisi contenitori).

Ai cristiano-democratici era accaduto di farsi eleggere nelle liste di Forza Italia, ora erano i popolari a candidarsi nella federazione riformista di Rutelli. Per capire questa logica bisogna tornare alla frase di Adolfo Sarti: «Per un democristiano non c’è gusto a far politica in una cosa che prenda meno del quaranta per cento dei voti».

Nella scissione del Ppi, ciascuna delle due fazioni pensava che il consenso perduto si sarebbe recuperato ricollocando correttamente il partito nel bipolarismo: a destra per Buttiglione, a sinistra per i popolari. In realtà, nessuna delle due fazioni raggiunse mai più della decima parte del quaranta per cento fissato da Sarti come soglia minima della felicità democristiana.

Fu così che i democristiani elaborarono il lutto per la scomparsa di mamma Dc, e coniarono il motto stucchevole ripetuto da tutti in questi anni: «Non si può rifare la Dc». Che per loro significava rifarla in casa d’altri, usare i nuovi blocchi di consenso per proseguire la loro militanza nelle istituzioni, provando a imprimere il proprio Dna ai nuovi contenitori politici.

Buttiglione lo spiegava meglio di ogni altro: «Il blocco sociale della Dc è stato ereditato dal centro-destra, tocca dargli un’anima democristiana e colonizzarlo». I dc di sinistra non lo teorizzarono, ma si dettero lo stesso schema: andarono all’assalto della Margherita, e poi del Partito democratico, nato dalla fusione del fiore rutelliano con gli eredi del Pci.

Nel settembre del 2020, al Convegno della Fondazione Sullo a Saint-Vincent, un dc moderato come Vito Bonsignore riconoscerà la vittoria tecnica della sinistra democristiana: «Ragazzi, hanno vinto loro, sono stati più bravi, a noi toccava vedercela con un quasi democristiano come Berlusconi, loro si sono mangiati i comunisti e oggi comandano il Pd, hanno il capo dello Stato, hanno espresso quattro premier, sono stati più bravi di noi». All’elenco di Bonsignore vanno aggiunti i ministri espressi dal Ppi nella Seconda Repubblica: Andreatta, Pinto, Bindi, Jervolino, Micheli, Zecchino, Mattarella, Letta, Toia, Cardinale, senza considerare i ministri popolari espressi sotto le insegne del Pd, dall’eterno Franceschini a Fioroni e tanti altri. Ha ragione Bonsignore: vittoria della sinistra dc, k.o. tecnico per i dc di centro-destra che in un quarto di secolo hanno espresso solo cinque ministri senza portafoglio, tra cui il sottoscritto. Tra i democristiani della riva destra, il solo ad assurgere a un vertice istituzionale è stato Pier Ferdinando Casini, presidente della Camera dei deputati dal 2001 al 2006, l’ultimo cavallo di razza della scuderia democristiana (il suo nome gira, non a caso, a ogni turno di elezione quirinalizia).

Dal punto di vista del potere, la vittoria della sinistra dc è stata clamorosa, e l’elezione di Enrico Letta alla guida del Pd la completa. È difficile però teorizzare che al Pd sia stato trasferito il Dna democristiano. I difetti, sì, tutti: frazionismo, litigiosità, correntismo. Ma il Pd non ha neppure provato a rappresentare il blocco sociale produttivo del Nord, oggi saldamente presidiato dalla Lega, né il voto statalista del Sud, conquistato dai 5 Stelle col reddito di cittadinanza.

Certamente nel 2004 il cammino dei popolari era già chiaro: unirsi a Rutelli e a tutte le schegge di centro, conquistare un risultato elettorale a due cifre, e poi trattare una fusione coi democratici di sinistra. Alla fine del percorso la sinistra dc ritroverà nel Pd una nuova base di massa in luogo di quella democristiana.

La mia tesi era che dovessimo fare lo stesso noi dc del centro-destra, con possibilità di successo maggiori. Il centro-destra era guidato da Forza Italia, entrata a vele spiegate nel Ppe, l’Udc faticava a superare il quattro per cento, il destino appariva segnato: dovevamo riunirci in un solo partito.

Queste cose le dicevo apertamente nell’Udc di Follini e Casini. Ma loro coltivavano uno spazio che amavano definire più centrista che democristiano, e predicavano una improbabile alternativa moderata a Berlusconi. Di conseguenza il mio teorema del partito unitario con FI veniva ascoltato con rispetto, al pari di una predica noiosa ma innocua.