Dietro alle contese legali sull’eredità della Dc, non c’è solo la rivendicazione del popolarismo sturziano e dello scudo crociato. C’è anche qualche speranza sul patrimonio democristiano. Come molte grandi matriarche, mamma Dc ha lasciato una sontuosa eredità, e a rivendicarla sono – più o meno apertamente – tutti i figli, legittimi, naturali e presunti. Di questo aspetto parlano poco le settantacinque sigle della diaspora democristiana. Nelle dispute giudiziarie, al patrimonio si fanno accenni velati, sobri, pudichi: nella tradizione democristiana il denaro rimane sterco del diavolo, è sconveniente parlarne. Lo si sottintende.
Ma che fine ha fatto, in realtà, il patrimonio della Dc? E prima ancora: come mai la Balena bianca possedeva un patrimonio immobiliare da fare invidia a Pirelli RE?
Per rispondere, dobbiamo tornare agli anni Cinquanta, quando la Dc realizzò il passaggio dal partito «leggero» di De Gasperi (quasi un comitato elettorale) al partito «pesante» di Fanfani, strutturato attraverso una rete territoriale di sedi e funzionari.
In quel periodo la Dc acquisì in tutte le città capoluogo la proprietà di un appartamento, che Fanfani voleva «spazioso, dotato di una vasta sala per assemblee, centrale e con almeno un balcone affacciato su una strada o piazza principale». Nasceva il partito-Stato, e le sedi dei comitati provinciali democristiani erano quasi delle Prefetture. Poche sedi locali erano in affitto, quasi nessuna: a memoria ricordo solo la mitica sede milanese di via Nirone, un palazzetto intero condotto in affitto dalla Democrazia cristiana.
Alcune sedi diverranno quasi un monumento: a Firenze la Dc possedeva una sontuosa villa in pieno centro, a due passi da piazza San Marco; non sfigurava il comitato provinciale di Siena, la cui sede affacciava su piazza del Campo; nulla a confronto del comitato provinciale di Arezzo, città del leader dc Fanfani: il vecchio Amintore aveva preteso una sede fastosa, che oscurasse quella di piazza del Gesù a Roma, un modo per far capire chi contava davvero.
Quelli di Fanfani non erano capricci, tutt’altro: la sua era una strategia lungimirante, tesa ad assicurare alla Dc una presenza territoriale indifferente ai ruotismi del potere. Inoltre Fanfani ragionava da buon padre di famiglia: considerava il canone di affitto denaro sprecato, e l’acquisto delle mura un investimento atto anche ad assicurare liquidità e garanzie bancarie al partito, nel caso di difficoltà finanziarie, che puntualmente arrivarono.
La ulteriore svolta immobiliare fu impressa da Filippo Micheli, deputato umbro per quarantasei anni, dal 1948 al 1994, poco conosciuto ma annoverabile a buon diritto tra i «grandi della Dc». Micheli fu segretario amministrativo della Dc dal 1969 al 1981, praticamente fu il predecessore del più tristemente noto Severino Citaristi.
Micheli attuò una politica di forti investimenti immobiliari: assicurò alla Dc una sede di proprietà in tutti i comuni medi e grandi di Umbria, Toscana, Marche e parte dell’Emilia, vale a dire le «zone rosse». La spiegazione di Micheli è negli atti della direzione dc: «Nelle zone rosse i proprietari hanno timore di affittare i locali alle sezioni democristiane, la vendetta degli amministratori comunisti è immediata e imprevedibile; bisogna assicurare alle sezioni una sede di proprietà».
Naturalmente la direzione nazionale dava un congruo contributo. Ma la gran parte dei fondi provenivano dai soci stessi. Fu un grande sforzo collettivo di una generazione che tirò su l’Italia col risparmio e la programmazione, e applicò queste virtù anche all’amministrazione del partito che aveva accompagnato la ricostruzione dell’Italia. Tanto per fare un paragone: i partiti di oggi, gratificati per anni dal finanziamento pubblico, non possiedono alcuna proprietà immobiliare.
Succedendo a Micheli, Citaristi si trovò alla testa di una vera e propria holding immobiliare: le proprietà della Dc erano ripartite tra la Ser e l’Immobiliare, società partecipate al cento per cento dalla Democrazia cristiana.
Il partito non era proprietario della sede nazionale di piazza del Gesù, immortalata ogni giorno dai telegiornali, meta per decenni della classe dirigente italiana non solo democristiana: l’intero stabile di piazza del Gesù 46 era ed è proprietà della Fondazione Cenci Bolognetti. A Roma il partito democristiano possedeva due proprietà importantissime: il Palazzo Sturzo, duemila metri quadri al centro dell’Eur, e una sontuosa villa con parco a perdita d’occhio in via della Camilluccia.
Palazzo Sturzo ospitava il Consiglio nazionale e gli uffici organizzativi. Leggende metropolitane narravano che l’edificazione del palazzo fosse una «gratificazione» in qualche modo collegata alle grandi opere romane degli anni Sessanta (Raccordo anulare, aeroporto di Fiumicino). Ma probabilmente si tratta di leggende alimentate ad arte per accrescere il mito della onnipotenza democristiana.
La villa alla Camilluccia era destinata a ospitare corsi di formazione per i giovani dirigenti, doveva essere l’alternativa democristiana alla scuola comunista delle Frattocchie, ma non decollò mai: i democristiani erano allergici ai corsi di formazione. Del resto Donat-Cattin teorizzava che «l’unica vera formazione è la lotta politica».
Quando Martinazzoli sciolse la Dc, questo patrimonio era integro. Era stato invece dismesso un altro ramo del patrimonio democristiano, quello editoriale: attraverso una serie di società, la Dc controllava i maggiori quotidiani regionali italiani. Anche in questo caso era stato Fanfani a dare la linea: al partito serviva una presenza autonoma nell’informazione, da affiancare al controllo militare della Rai. Già allora esisteva una prevalenza laica e di sinistra nella stampa italiana, e la Dc di Fanfani correva ai ripari. Nel 1994, tuttavia, la Dc aveva già liquidato la Affidavit e le società editoriali a cui facevano capo «Il Mattino» di Napoli, «La Gazzetta del Mezzogiorno» di Bari, «Il Gazzettino» del Veneto.
Le leggende narravano anche di favolosi conti esteri intestati alla Democrazia cristiana, e sui quali avrebbero lucrato le banche, profittando della scissione del partito. Si diceva che le banche avessero dichiarato di poter interloquire solo con la Democrazia cristiana, e non con i suoi supposti eredi. Era la favola del «tesoro democristiano», una sorta di incentivo a ricostruire l’unità giuridica della Dc, quantomeno per interloquire con le banche. La leggenda metropolitana si spense da sola al decimo anno dalla scissione scudocrociata, quando cioè decadeva ogni diritto sugli eventuali conti esteri non movimentati.
La scissione del Partito popolare si abbatté come un ciclone sulle società immobiliari della Dc. Non si capiva più chi comandasse nel partito, il che era un problema nella politica, e addirittura un disastro nella gestione di un impero immobiliare. Finalmente intervenne a mettere ordine una ordinanza del giudice romano Macioce: in attesa di accordi politici, il patrimonio della Dc sarebbe stato «co-gestito» dal Ppi e dal Cdu, partiti eredi della Democrazia cristiana.
Così iniziò la fase della «cogestione»: i due tesorieri di Ppi e Cdu firmavano assieme gli atti di gestione della Ser e della Immobiliare, presiedute salomonicamente l’una da un popolare, l’altra da un buttiglioniano.
La Dc morì ricca, ma non priva di debiti, che le circostanze avventurose della scissione dilatarono a dismisura: ai debiti precedenti, si dovettero aggiungere le parcelle di avvocati, commercialisti, periti, consulenti e notai, veri protagonisti e soli beneficiari della scissione democristiana.
Le vicissitudini della «riva destra» buttiglioniana portarono a continui avvicendamenti di tesorieri, quasi mai in armonia con Rocco. Di conseguenza la gestione del patrimonio fu quasi esclusivamente del Ppi, non certo per una prepotenza dei popolari, ma per la litigiosità dei nostri rappresentanti.
Quando divenni tesoriere del Cdu, trovai la gestione del patrimonio saldamente nelle mani del tesoriere del Partito popolare, l’ex senatore Romano Baccarini, un romagnolo di Forlì dall’apparenza burbera e incazzosa, in realtà una pasta d’uomo. Un bel giorno annunciò che i debiti rischiavano di sovrastare le proprietà, e occorreva darsi una mossa: vendere tutto. Ne parlai con Buttiglione, che mi pregò di trattare un singolare accordo: noi lasciavamo ai popolari tutto il patrimonio, in cambio della manleva da qualsiasi responsabilità patrimoniale futura del Cdu, di Buttiglione e mia; a noi sarebbe rimasto lo scudo crociato, e il nome della Democrazia cristiana. Proposi ai popolari questa intesa, e qualche mese dopo firmammo la nostra definitiva separazione. Era il 2002, da quel momento il patrimonio della Dc fu solo dei cugini popolari.
«Per quale motivo, onorevole, lei ha rinunciato a un patrimonio di decine di milioni?» mi chiese qualche anno dopo a Perugia il giudice Sottani, interrogandomi come testimone in un processo scaturito da una delle successive beghe sul patrimonio. Risposi candidamente che avevamo rinunciato al patrimonio, ricevendo in cambio un simbolo che aveva fruttato al Cdu e poi all’Udc un congruo finanziamento pubblico. Anche il magistrato convenne che non era stato un cattivo affare.
I popolari hanno gestito con correttezza il patrimonio, pagando tutti i debiti della Balena bianca fino all’ultimo centesimo: non c’è un creditore che avanzi qualcosa dalla Dc. Non c’è un dipendente che non abbia ricevuto la buonuscita e tutto quanto gli spettasse. Tutti i documenti della liquidazione democristiana sono stati custoditi per anni ad Avellino nella redazione di un giornale diretto dal mio indimenticabile portavoce Alfredo Tarullo, senza il quale non avrei attraversato con allegria e coraggio questi anni difficili. Quando Alfredo chiuse il giornale, lasciò in uso l’appartamento a una vecchietta che per anni tirò su il ragù domenicale con un occhio ai segreti democristiani. Alla morte della vecchina, e poi – prematuramente – di Alfredo, la documentazione è stata donata a una fondazione d’area.
Ovviamente la parte residua degli immobili democristiani appartiene ai popolari, che ne hanno fatto l’uso che hanno ritenuto, ospitando le sedi del Pd. Può far specie che gli eredi dei comunisti occupino le case comprate coi risparmi dei democristiani, ma queste sono state le scelte politiche dell’emisfero sinistro della Dc, e vanno rispettate.
Io sono felice di non essermi dovuto occupare di questo aspetto. Ricordo con un brivido un pomeriggio invernale in Umbria. Ero andato con un funzionario a visionare un appartamento che doveva essere venduto. Attraversai rapidamente la fuga di saloni affrescati, diedi un’occhiata ai manifesti elettorali ancora affissi alle pareti, e d’un tratto mi accorsi di non essere più solo, mi aveva raggiunto un anziano signore che domandava se udissi delle voci.
«Quali voci?» chiesi allo sconosciuto.
E lui, pronto: «Sono le voci dei vecchi democristiani del paese che si riunivano qui, e che hanno comprato questa sede coi risparmi personali; hanno combattuto dieci sindaci comunisti, e questo era il loro rifugio, ora sono tutti morti, ma non gli farà piacere sapere che tra qualche mese qui ci sarà uno studio notarile».
Ridiscesi in silenzio lo scalone di marmo del condominio, e comunicai al funzionario che la vendita era sospesa. Non avrei venduto quella sede, almeno non quel giorno, non io.