Questo libro non può avere una conclusione, non c’è. Ho provato a raccontare il tempo dei democristiani, sospeso tra un partito che non c’è più e uno che non c’è ancora.
Può darsi che queste pagine – nel tempo lungo della carta stampata – finiranno tra le mani di donne e uomini nuovi, che in una stagione diversa leggeranno queste piccole, grandi storie e ne faranno ispirazione di nuove, imprevedibili sfide.
Con questo auspicio mi salutò Mino Martinazzoli, ultimo segretario democristiano, nell’agosto del 2011, un mese prima di morire. Ero appena uscito da uno studio televisivo in cui avevo difeso il traballante governo di cui facevo parte. La batteria del Viminale chiese se potesse passarmi l’onorevole Martinazzoli, e io ne fui felice, perché mi avevano detto che stava male. In realtà stava malissimo, e seguiva la tv assieme al fedelissimo Gianbattista Groli, continuando a fumare le sigarette che i medici gli avevano restituito (e lui aveva capito che era il segno della resa).
«Gianfranchino, ti ho visto in tv arrampicarti sugli specchi e mi sono intenerito» mi disse Mino, e io mi commossi. «Non prenderlo come un elogio, è una constatazione: ti arrampicavi sugli specchi, provavi a darti una ragione che non hai, come tutti noi popolari apolidi.»
E continuò: «A te magari è dato un compito, che in parte ti sei dato da solo, in parte ti è capitato: custodire il seme dei popolari, raccontarlo per come sai, ma sapendo che possono e debbono essere in molti a farlo».
«Speriamo di vederne il frutto» provai a chiudere una telefonata emotivamente impegnativa.
Concluse lui, Mino, con parole definitive: «Io non lo vedrò, tu forse, o forse no, ma non per questo devi smettere di invecchiare seminando: la maturità è il tempo più bello, perché piantiamo gli alberi che non vedremo».