Una mattina, dopo sogni inquieti, Andrea Dileva si era svegliato nel suo letto, senza il cuore.
La sveglia suonava, la luce del giorno cresceva, i muri crepitavano di altri risvegli, su altri piani, sopra e sotto, ma lui e Laura continuavano a tenere gli occhi chiusi. Con le magliette di Harvard e senza mutande, si godevano la nudità sí ma con le spalle coperte dei loro quarant’anni. Non erano mai andati a Harvard peraltro. Nonostante entrambi avessero fatto ottimi studi.
Ma tutto questo, come altre mattine, non sarebbe stato detto e nemmeno pensato se Laura, i cui capelli gli solleticavano il naso inducendogli un sorriso, non fosse scattata a sedere con le gambe incrociate, come punta da un insetto. Andrea aveva inclinato la testa per seguire la carne bianca delle cosce correre verso l’oscurità umida e riccia, ondeggiante, che lo riportava ora sugli scogli assolati dove saltava da bambino. E tra i quali si aprivano fessure bordate di alghe e concrezioni oltre cui si sentiva il rumore del mare. In quei pomeriggi di corse avvertiva i compagni meno esperti di stare attenti, perché piú di qualcuno ci rimaneva incastrato con tutta la gamba. Gridava apprensivo No, fermatevi, chissà cosa c’è dentro. A distanza di anni sapeva che quando non sai cosa c’è dentro, c’è acqua.
Senza chiederle la ragione dello scatto, aveva allungato la mano, e Laura, con un altro scatto, anzi un salto, era scesa dal letto e si era messa spalle al muro. Ma non come i ragazzi, con aria spavalda, la pianta di un piede appoggiata in verticale e l’altra a terra, o le ragazze seduttrici, con le mani incrociate dietro la schiena all’altezza delle reni. Laura si era messa con le spalle al muro rivolgendo i palmi ben aperti alla parete, le braccia spalancate come le zampe di un geco. I gechi le facevano paura, e anche questo gli piaceva di lei. Qualcuno gli aveva raccontato che i gechi, che paiono appiccicati ai soffitti e alle pareti come figurine adesive – quante volte lo aveva fatto sulle porte dei bagni della scuola, anche con quegli adesivi spugnosi, spessi, che regalavano col sapone liquido a metà degli anni Ottanta e che lui spesso rubava, mentre la madre faceva la spesa –, i gechi, insomma, che paiono attaccati, in realtà vibrano velocissimi. Sono le vibrazioni che li tengono accosti come ventose a pareti, angoli e soffitti. Fermi e vibranti, come in effetti pareva Laura. Forse la storia delle vibrazioni era vera. Sul volto di Laura, intanto, uno sguardo sconcertato e interrogativo aveva trasfigurato l’allegria del risveglio, e la confidenza della seminudità aveva sottolineato quanto fosse spaventoso – per quello che aveva rilevato – il peso della testa sul torace. Sul volto di Laura, Andrea leggeva paura. E disappunto. La seminudità è terribile, è impossibile da condividere, ognuno è seminudo a modo proprio.
Cosí prima aveva sorriso, e poi sbuffato. Non amava svegliarsi e dover sbattere contro l’evidenza che qualsiasi relazione umana è, per la maggior parte del tempo, un improponibile baratto tra il terrore di restare soli e la gioia della condivisione, uno scambio iniquo tra il proprio tempo, che è il proprio modo di essere, e la natura umana, che è dividerlo con gli altri. Perché a Laura piaceva tanto discutere appena sveglia? Aveva ancora sbuffato, ma piú discretamente, per non inasprire la situazione. Glielo aveva insegnato il padre, uno dei pochi suggerimenti da maschio a maschio nei quali si era arrischiato. Quando una donna vuole discutere, lascia perdere, avrà sempre piú fiato di te, è costituzionale, sono piú tenaci.
La nonna, la madre, nessuna delle due, quale donna gli aveva detto Uno è quello che è la maggior parte del tempo?
Perciò, quando Laura aveva sottolineato con un singhiozzo la postura del terrore, Andrea aveva voltato le spalle e infilato la testa sotto al cuscino. E grazie a quella semplice efficace magia appresa nell’infanzia – piú forte, perché precedente ai consigli del padre, intuitiva per giunta –, grazie a quella semplice magia, Laura era sparita e con lei la luce del giorno, i vicini nei muri, il trillo della sveglia, dunque le urgenze, dunque la giornata, dunque le persone con le quali avrebbe dovuto parlare, a partire dalla donna verso le cui gambe aveva allungato una mano cosí da avere, per pochi secondi, l’impressione di riportare indietro il tempo, alla sera prima, quando avevano fatto l’amore. Perché e quando avevano deciso di dipingere quell’unica parete grigio canna di fucile? Il cuscino sulla testa sconfiggeva i mostri, chiudeva le discussioni, eliminava le responsabilità.
Poi, rinvigorito, era saltato in piedi urlando Cucú, allegro, nonostante i suoi genitali dondolassero, sfiorando una volta una coscia una volta l’altra e costringendo la sua attenzione da lei a loro. Ma lei e loro non erano poi cosí distanti, non lo erano da anni, e dunque guardare il suo cazzo invece che lei non era una disattenzione vera e propria. Laura però non aveva smesso di fissarlo, restava appiccicata al muro vibrando come un geco, non aveva cambiato espressione. Giocava forse a Un-due-tre-stella? Il problema era che lui giocava a Cucú-settete e lei a Un-due-tre-stella e dunque nessuno avrebbe vinto, nessuno avrebbe perso e sarebbero rimasti cosí per sempre? Avere una relazione significa giocare allo stesso gioco?
A quel punto Laura aveva sussultato Andrea non ti batte il cuore, e lui, quasi fosse stato pugnalato, si era portato una mano al torace, dove prima c’era stata, come molte altre mattine, la testa di lei, pensando, con tutto il cuore – espressione che a quel punto della giornata aveva ancora un senso proprio e lato, e da quel punto in poi non l’avrebbe avuto piú –, pensando, insomma, con tutto il cuore, di risponderle Perché sei lontana, non mi batte il cuore perché sei lontana. Sperando forse, con tutto il corpo, che lei saltasse sul letto e poi su di lui, o lui su di lei. Si era portato una mano al torace e raddrizzando le spalle aveva piegato la testa da un lato per tendere l’orecchio ma l’unico suono registrato era stato il fischio delle pupille che si dilatavano, come in una visita oculistica, e aveva sussurrato – una confessione, incredula, un allarme, incerto – Non mi batte piú il cuore.
E Bum! Laura era svenuta. Era scivolata a terra, seguendo il muro, un burattino cui qualcuno avesse tagliato i fili. Andrea aveva aspettato che si fermasse, poi invece di correre da lei era corso ad aprire l’anta dell’armadio, entrambe le ante, su ciascuna delle quali era fissato uno specchio a figura intera, e aveva cominciato a guardarsi di fronte e alle spalle, e si era sentito stupido con la maglietta e senza mutande. Odiava essere seminudo. Si era sfilato la maglietta, l’aveva lanciata lontano ed era rimasto nudo in mezzo a un numero indefinito di copie di sé, una spiaggia di nudisti tutti uguali, senza riuscire a stupirsi della moltitudine, come faceva da bambino, e fino a ieri a dirla tutta. Guardando sé stesso e le sue repliche ripeteva Impossibile essere tutti senza cuore, come se la quantità infondesse certezza e forza, e d’altronde in attesa di vedere lui o una delle repliche afflosciarsi. Qualcuno, in quella galleria, doveva essere coerente e smettere di respirare, camminare, parlare senza il cuore. E di fare sesso anche. Se Laura non si fosse spaventata, avrebbero fatto l’amore? Come la sera prima, come altre mattine, nonostante fossero in ritardo e senza baciarsi perché il sonno soffia odore di fiori marci anche tra i denti sani? Non avere piú il cuore era un motivo sufficiente per annullare un appuntamento lo stesso giorno dell’appuntamento? Senza cuore, avrebbe potuto andare dal dentista, per la carie sul terzo molare? Sollevato al pensiero che, chissà per quale olistico motivo, fosse scomparsa pure la carie sul terzo molare, aveva spalancato la bocca come un cavallo in una fiera. Ma la carie stava lí, nera come un’assenza.
Che cosa mi sta succedendo, ripeteva e si guardava e riguardava, e scrutava le repliche davanti e alle spalle e scorgeva altre infinite spalle sempre piú piccole e aguzzava la vista come se una di quelle figure, laggiú, grandi quanto il cuore di un uomo, potesse rivelargli che fine avesse fatto il suo, semplicemente per una faccenda di proporzioni. Poi si era ricordato di Laura svenuta e aveva smesso di interrogarsi, l’aveva presa in braccio e l’aveva sistemata sul letto con la testa su due cuscini. Era andato in cucina a prenderle un bicchiere d’acqua. Con la testa tra due guanciali era il modo in cui il nonno gli faceva notare che gli era capitata un’infanzia comoda. Andrea immaginava le infanzie come magazzini di cuscini.
Laura, come molte quarantenni, cominciava la giornata con un bicchiere di acqua tiepida e limone, ma Andrea poteva sopportarlo, prima che passasse all’acqua d’argilla filtrata, poteva tollerarlo, o a quella di curcuma (che comunque senza il pepe nero non serve a niente). Era naturalmente contrario a tutto ciò che diventava moda. Disprezzava il servilismo logico e scaramantico alle ipotesi di vita sana. Non aveva voluto lo zaino Invicta quando tutti lo avevano (eppure gli piaceva molto), non aveva voluto il Barbour quando tutti l’avevano (eppure gli piaceva e infatti, quando tutti avevano smesso di portarlo, ne aveva comprati due, uno verde e uno blu), non aveva nemmeno voluto prendere la patente quando la prendevano tutti, col foglio rosa in tasca sei mesi prima di compiere diciotto anni e l’esame il giorno del compleanno, quindi, nei confronti dell’acqua e limone (gli piaceva moltissimo), manteneva la stessa posizione. Tutto questo, ne era conscio, lo sospingeva verso il conformismo dell’anticonformismo, ma non era il momento per preoccuparsene visto che si era svegliato senza il cuore. Forse, rifletteva, l’acqua e limone è una di quelle cose di cui non mi preoccuperò mai piú. Seduto nudo sul letto, osservava uno a uno i peli pubici di Laura senza avere intenzione di contarli ma in realtà facendolo – era arrivato a quarantatre, per continuare avrebbe dovuto allungare le dita e separarli, ma teneva in mano il bicchiere di acqua e limone –, seduto sul letto, si era ricordato di Indiana Jones. Indiana Jones alle prese con un gruppo di indiani indiani che sono in grado di strappare il cuore lasciando in vita la vittima. Ricordava tutti i passaggi. Formula magica incomprensibile. Mano all’altezza del cuore. Cuore nella mano. Pelle richiusa come plastilina. Terrore negli occhi della vittima, soddisfazione sadica negli occhi di quello col cuore in mano. La vittima rimaneva in vita per un tempo assai breve, un tempo che, per quanto lo riguardava, era già trascorso. Ascoltava il respiro pesante di Laura. Con cautela, si era portato il bicchiere davanti alla bocca e aveva alitato. Il bicchiere si era appannato, dunque respirava ancora. Si era sentito sollevato. Laura, l’aveva chiamata, prima in un sussurro, poi piú forte, Laura, Laura, e lei aveva aperto gli occhi e si era messa sui gomiti e quel movimento le aveva fatto tendere gli addominali. Andrea aveva seguito la maglietta incresparsi come il marmo nel Cristo velato a Napoli e si era ricordato delle cose di cui poteva parlare con lei – il conformismo dell’anticonformismo no, per esempio –, Laura, ti ricordi il film di Indiana Jones dove gli indiani indiani estirpano il cuore dei malcapitati che però rimangono in vita?, Non è il mio film di Indiana Jones preferito, Perché?, Non lo so ma non è il mio preferito, Dài pensaci, Ora?, Forse no, comunque, ti ricordi per quanto tempo rimanevano in vita, senza cuore?, Penso poco, Anche secondo me.
Quanto è poco?
Andrea le aveva allungato il bicchiere e lei aveva bevuto e poi chiesto Che facciamo? Come se il fatto che lui non avesse il cuore riguardasse entrambi, e invece non era un problema loro, era un problema suo. Come quando si era innamorato di Carla e Laura aveva chiesto Che facciamo? E lui si era ingelosito perché la sua passione, il suo essere stato sedotto, Carla stessa, riguardavano lui, non loro. Quella volta le aveva risposto Non è una cosa che ci riguarda, cosí Laura aveva accettato di credere che non ci fosse niente da fare perché ciò che era successo era successo ma sarebbe passato e insomma poteva capitare, e lui aveva detto la verità. Per Andrea era importante la coscienza di aver detto la verità piú della verità stessa. Le parole sono come il gatto di Schrödinger – di che razza è il gatto? –, che sia vivo o morto dipende dal momento, dunque dall’intenzione di chi guarda. Cosí le parole, che dicano una cosa o l’altra, dipendono dall’intenzione di chi ascolta. Senza considerare che le parole – quelle di tutti, mica solo le sue, mica solo le parole degli ossessionati dalle parole –, le parole nascono e crescono nel vizio della sincerità, averla o non averla. Esserlo o non esserlo. Riesserlo, difficilissimo. Come se dire tutto fosse sempre abbastanza, poveri noi. Noi due. Tu e io.
Però, riguardo a che facciamo col cuore, non sapeva che rispondere, cosí aveva compiuto alcune azioni. Si era guardato ancora allo specchio (in uno solo) e si era trovato normale, niente di diverso dal giorno prima o dal mese prima – smettiamo di crescere anche se continuiamo a invecchiare –, niente di diverso nemmeno dall’anno prima. Laura si era massaggiata le tempie, aveva appoggiato il bicchiere sul comodino, si era sfilata la maglietta, l’aveva piegata – dov’era finita la sua? – e aveva detto Passami il reggiseno, con voce nuovamente arrochita dal sonno. Cosí lui era stato riportato al loro quotidiano, a lei che si allacciava il reggiseno nuda con le gambe incrociate sul letto, come gli indiani americani, e che lo guardava un po’ incazzata perché finalmente aveva realizzato che, con o senza un cuore, la giornata doveva cominciare. Andrea aveva capito che la domanda Che facciamo col cuore? era una delle domande che, insieme al colore del muro, sarebbero rimaste senza risposta. Non ho nessuna intenzione di farmi la doccia, aveva chiarito Laura brusca, concentrando sulla doccia tutte le cose che, nel frattempo, quel giorno, le sarebbe stato impossibile non fare. Io sí, io sí, aveva cantilenato Andrea, ma senza convinzione, si era infilato in bagno, aveva aperto il rubinetto e si era incantato sull’acqua che scendeva, sempre un po’ piú calda. La vita era molto migliorata da quando avevano abbandonato lo scaldabagno per la caldaia. Era stata una spesa e poi il buco nel muro e i lavori in una casa in affitto. Però, tutto sommato, l’idea di non dover programmare anche la doccia li aveva alleggeriti. Erano stati giorni felici quelli successivi all’installazione della caldaia. Col cilindro di tufo estratto dal muro avevano fatto un fermacarte, che però si sgretolava lasciando sui fogli un alone di polvere. Laura era entrata in bagno e l’aveva spedito in doccia – ancora solo col reggiseno indosso – Vai cosí faccio pipí, e lui aveva obbedito. Dal centro del bulbo, i getti d’acqua partivano e si allargavano come, alle scuole medie, le linee dei disegni in prospettiva che solo dopo diventavano strade e profili di palazzi. La prospettiva, aveva realizzato, nasceva come forma architettonica in ogni studente delle medie, non solo nei grandi pittori del Quattrocento. Ma non voleva pensarci, adesso. A cosa può o deve pensare uno che ha perso il cuore? Qual è il pensiero giusto, necessario, quello che se non guarisce cura e se non cura consola? Il non poter dire e addirittura pensare la formula «problemi di cuore», a quali semplificazioni o scelte lo avrebbe condotto?
La porta a vetri che si apriva e lasciava entrare Laura nuda – perché aveva cambiato idea? – l’aveva distolto dalla prospettiva, o forse l’aveva cambiata. Lei lo aveva baciato un po’, ma a bocca chiusa. Le labbra di Laura sapevano di limone e Andrea aveva avuto voglia di baciarla di piú, ma lei aveva abbassato la testa e l’aveva appoggiata sul petto, lui aveva sussultato anticipando il sussulto di lei che però non era arrivato. Cosí lei, pensando che lui avesse freddo, lo aveva abbracciato, stretto. Lo scroscio dell’acqua copriva il battito, anzi la sua assenza. Anche lui aveva abbassato la testa e sembrava la pioggia li avesse sorpresi dopo un litigio ma si fossero riappacificati. Invece erano sotto la doccia e lui non aveva piú il cuore.
Sul piatto poi erano rimasti due peli ricci di Laura, Andrea si era chiesto se fossero tra i quarantatre che aveva contato, o no. Lei non gli aveva passato l’asciugamano, come invece faceva sempre, ed era tornata in camera lasciandolo solo a gocciare sul tappetino multicolore che non gli era mai piaciuto ma ormai ci si era abituato. Il reggiseno era rimasto nel bidet. Delle cose che gli piacevano o non gli piacevano, avrebbe dovuto ancora occuparsi? Che percentuale di invalidità viene attribuita a una persona che, in un incidente, probabilmente domestico, ha perso il cuore?
Una questione oscura. La figura buia acquattata di solito sotto al letto, o stesa nel mezzo del salone, che lanciava agguati o gracchiava, immobile come un gargoyle, ai piccioni che gli volavano davanti, il gatto tanto nero da contenere la propria ombra, con occhi gialli e concentrici di civetta, nonostante il trambusto, non si era manifestato. Sinuoso, silenzioso, quasi camminasse sulle pattine ma senza l’aria molle della pantera da salotto, strisciante piuttosto come certe qualità di rosmarino, era sceso dal soppalco, incuriosito dal tintinnio delle chiavi nella toppa. Ci vediamo stasera, aveva avvertito Laura, prima il gatto, poi lui, guardandolo però con piú incertezza del solito, o forse era speranza. Andrea si era chiesto se, nella scala delle insicurezze di lei – anche quelle rimpiccolivano nella galleria del tempo come i suoi replicanti negli specchi? –, si era chiesto se nella scala delle insicurezze di lei fosse piú grande la colpa di aver perso il cuore o quella, commessa anni prima, di aver perso la testa per Carla. Non aveva mai smesso di vedere Carla, anche se le cose erano cambiate. Non posso significa non voglio, gli aveva detto sua nonna quando continuava a fare no con la testa davanti al piatto di riso e scarola ripetendo Non posso mangiarlo non posso mangiarlo e dondolava le gambe magre sotto il tavolo sperando che, come in un cartone animato di Willy il Coyote, il movimento lo sollevasse dalla sedia, e lo facesse volare via oltre la finestra e poi oltre e basta senza mai piú essere costretto a mangiare riso e scarola, o altre cose verdi e bianche. Non voglio smettere di vederla si ripeteva, mentre con i boxer a righe verdi e bianche – boxer che aveva anche lei perché i boxer usati come pantaloncini le piacevano, e a lui piaceva che a lei piacessero e a lui piaceva lei che li indossava, e a lei che a lui piacesse –, mentre con i boxer a righe verdi, cercava il cellulare per avvertirla che aveva perso il cuore, ma certo che Carla gli avrebbe detto, un po’ canzonandolo, un po’ no, Che dici?, è impossibile!, e se avessi perso il cuore come potresti essere al telefono? Quasi che il telefono fosse una prova ontologica. Ci aveva pensato prima di chiamare Carla, già cominciando a irritarsi per il tono della conversazione a venire. Perché Carla avrebbe risposto esattamente cosí. Carla riusciva a immaginarla, Laura, invece, che rimaneva zitta fino al mutismo, restava imprevedibile. D’altro canto, se Laura era preoccupata che lui non avesse piú il cuore, perché era andata al lavoro? Se Laura si fosse davvero preoccupata della sbandata per Carla, perché gli aveva creduto quando le aveva risposto Non ci riguarda? Quando era nervoso, si calmava attribuendo a Laura una mancanza di cura che aveva l’aspetto recriminatorio della proiezione. Sei tu che te ne vai, non attribuirmi anche questa lontananza. Lo aveva detto davvero Laura o avrebbe voluto che lo dicesse? Però bisogna pur cominciare la giornata e cosí si era infilato la camicia, i pantaloni, i calzini, il gilet – un regalo di Carla – e le scarpe, si era seduto sul letto per allacciarle e aveva poggiato le mani aperte sulle ginocchia e cominciato a guardarsi intorno per capire dove fosse finito il telefono. La maglietta di Harvard non era sotto il letto, aveva approfittato dei lacci delle scarpe per controllare e poi, nonostante non fosse piú un bambino, lo rallegrava mettere il mondo sottosopra. Il gatto nero lo guardava, con gli occhi fissi, senza miagolii o fusa. Senza speranza, gli veniva da dire e non sapeva perché. Gli aveva teso la mano di modo che si avvicinasse e si facesse accarezzare, ma Corteccia aveva soffiato e in un attimo la coda era diventata quella di un procione, aveva inarcato la schiena e soffiato ancora. Non c’era la maglietta, non c’era il telefono, non c’era il cuore e non c’era nemmeno il suo gatto perché la bestia selvaggia che aveva davanti non era Corteccia. Anche sottosopra, la parete rimaneva grigio canna di fucile e sempre tornava la domanda Chi lo ha scelto?, e se non sapeva rispondere a quella semplice, semplicissima domanda, come avrebbe potuto rispondere alla scomparsa del suo cuore? Irritato, aveva pestato un piede sul parquet e il gatto era scappato nella sua cesta. Mentre si voltava a destra e a sinistra in cerca del telefono, quello aveva squillato, cosí trovandolo e prendendolo aveva letto Carla. E subito se l’era figurata sorridente. I capelli raccolti, il passo slanciato, gli occhi chiari oltre gli occhiali rossi, i pantaloni corti sulla caviglia, la camicia coi polsini aperti, la borsa di pelle lisa con dentro un piccolo quaderno a righe, i soldi nelle tasche e le scarpe basse, che lo aspettava al di là della strada, un po’ impaziente, e sotto tutti gli abiti e i modi e la voce, si era immaginato Carla nuda. La vita sottile cinta dall’elastico, la pancia piatta – non aveva gli addominali che increspavano i vestiti come Laura – e i seni liberi, perché Carla non sopportava costrizioni e odiava il pizzo. E poi aveva immaginato ancora i seni che un po’ le si appoggiavano sul costato e cosí, paralleli e intensi, parevano occhi che lo guardavano, e lo invitavano, e l’ombelico un naso e poi sotto. Sotto c’era sotto. Altra acqua, a questo aveva pensato vedendo il nome di Carla sul telefono, prima di rispondere Ehi, e lei Ciao. E con o senza cuore, nemmeno quel tono allegro e quella attesa erano cambiati. E quindi, a che serviva il cuore?
A ricordare. Il giorno che l’aveva incontrata, Carla portava i capelli legati in una piccola coda. Una coda da bambina. Di quelle che le madri legano in fretta perché non bisogna sudare e comunque è importante essere in ordine. Le madri italiane, a partire dalla sua, hanno l’ansia dell’ordine. O il mito, o l’orizzonte. La madre voleva, per Cristina sua sorella, i capelli sí lunghi ma legati in una coda di cavallo quando era in classe. A scuola devi andare in ordine, o devi essere in ordine, utilizzo dei verbi che gli aveva procurato fin dai primi anni un errore di sinonimia tra essere e andare e dunque tra stare e andare, dubbio che, ancora, persisteva nella sua vita sentimentale. Tra stare con Laura e andare con Carla, che differenza c’era? Per l’episodio dei capelli, forse per una voglia di rivoluzione che riguardava sempre questioni prive di interesse e che ormai non si vergognava piú ad assimilare al capriccio, per quell’episodio insomma, la coda di Cristina, Andrea aveva sempre guardato le donne con i capelli sciolti come la prima, forse inevitabile, sentina di disordini. Intellettuali, morali e fisici. Questi ultimi piú complessi da gestire. Laura aveva sempre portato i capelli corti, e Carla, quando l’aveva incontrata, teneva i capelli legati. Erano a casa di amici, come pure succede, non spesso quanto nei romanzi ottocenteschi, ma succede. La coda di Carla non era una coda di cavallo, i suoi capelli non erano lunghi, le sfuggiva, con una grazia talmente misurata da sembrare artefatta, una ciocca di capelli trattenuta appena dalla stanghetta degli occhiali. E lui aveva pensato alla Monaca di Monza, Gertrude, metà coperta e metà scoperta – ed era stata questa seconda metà a farlo sussultare, a scuola, lui e tutti gli altri – dalla grata del parlatorio. Aveva un ricciolo che le sfuggiva dalla cuffia. Come Carla, con quella ciocca di capelli scappata alla piccola coda e alla guardia degli occhiali. Si ricordava ancora di essersi chiesto se quella donna, che ancora dovevano presentargli, si chiamasse Gertrude. Lei è Carla, aveva poi detto qualcuno, subito smentendo l’ipotesi, forse il padrone di casa, o un altro, una voce di uomo ne era certo, e Carla aveva sorriso, come l’avrebbe poi vista sorridere mille altre volte, ma a quel punto senza saperlo e solo sperando che quel sorriso succedesse ancora e ancora, senza capire che ciò che stava accadendo accadeva cosí velocemente perché il profumo di Carla gli aveva dato alla testa. Andrea prendeva aria come uno uscito da una lunga apnea, e la guardava, la guardava tanto che, dopo quasi un minuto – ed era certo del tempo perché l’orologio a muro di Pasquale faceva rumore ogni secondo e, piú marcatamente, ogni minuto e poi ogni ora diceva l’ora –, tanto che, dopo quasi un minuto, Carla aveva chiesto, stringendo il sorriso, Ma ci conosciamo? E lui aveva risposto, con calma. E perché la calma fosse oggettiva, aveva tirato fuori il pacchetto di sigarette, l’accendino e abbassato la testa e protetto la fiamma quasi ci fosse vento, ma non c’era il vento, era il profumo. Le aveva risposto, con la sigaretta all’angolo della bocca per dare a entrambi l’impressione di essere piú avventuroso di quanto in realtà fosse. Era uno che pensava alla Monaca di Monza e a personaggi del genere con grande semplicità e contiguità, ma dipendeva anche dal suo mestiere, insegnava. Le aveva risposto, con quella calma fumosa che stava ormai assumendo i contorni della sordità, Non ancora. Poi l’aveva guardata, aveva notato l’assenza del reggiseno e dei calzini nelle scarpe da ginnastica, e osservato le caviglie – dalle belle caviglie sta scritto per le dee nei testi greci, e dalle belle caviglie, aveva pensato – e poi la mano sinistra e la destra e in quella, come in una matrioska, c’era una mano piú piccola attaccata a un piccolo braccio e a una piccola spalla, e dalla piccola spalla si allargava, in direzioni di stella, un piccolo corpo. Carla aveva detto Lui è Simone, ha tre anni. Simone aveva sorriso. Sorrideva come la madre e quel profumo maledetto, quasi un incantesimo, aveva avvolto anche lui e forse, fosse stato presente a sé stesso, avrebbe capito che la nuvola di profumo stava portando a velocità siderale tutti e tre da un’altra parte. Andrea si era concentrato sulle mani di lei. Mani grandi, con due anelli, uno per anulare, due fasce, uno era una fede nuziale. Carla, facendo dondolare appena il braccio allacciato a quello del figlio, aveva sussurrato Dài, di’ ciao a questo signore. Andrea aveva sbuffato il fumo in alto perché non infastidisse Simone e perché avrebbe voluto essere un ragazzo, poi aveva detto Io sono Andrea, Andrea Dileva. Ovviamente, presentarsi col cognome non aveva niente di avventuroso. Che poi nei romanzi ottocenteschi o ti incontravi in salotto o ti scontravi in battaglia, quindi era una necessità che viviamo oggi come un luogo comune – il romanzo ottocentesco – almeno quanto l’attribuzione di avventura a presentarsi col cognome, come Bond James Bond. Che poi è il contrario dell’avventura nel senso che a James Bond capitano quegli inseguimenti e quelle trappole come a uno studioso di mitologia capitano testi con nuove metamorfosi da aggiungere a quelle note. Ovviamente, presentarsi col cognome e farlo lentamente perché nel frattempo si riflette sui massimi sistemi, su quelli minimi, sul come e sul perché, era il contrario dell’avventura, somigliava piú che altro a un appello, Andrea Dileva presente! Chiamarsi, forse questa era l’avventura.
Simone si era avvicinato, allungandogli una manina che Andrea aveva accolto con naturalezza. Con l’altra mano aveva schiacciato la sigaretta e se l’era ficcata in tasca. La giacca avrebbe puzzato per giorni e si era scottato un dito. Cosí lui e lei erano rimasti legati dal bambino – il profumo non era svanito – e si erano ancora guardati, troppo lontani per una Sacra Famiglia ma troppo vicini per non recitarla. Andrea si era ricordato del quadro, a casa di Valeria e Gianluca, un regalo di matrimonio, un trittico, La zizzania. Nel primo pannello una donna su fondo bianco tiene il capo d’un filo, nel terzo un uomo stringe l’altro capo, nel pannello centrale, sul filo teso dai due, sta un pappagallo come su un trespolo. Il bambino parlava come talvolta fanno i pappagalli. Posso dirti una cosa?, Dimmi, Ci possiamo sedere? E, in quel momento si era materializzato il divano giallo senape – Andrea era certo che prima non fosse dietro di lui ma spostato verso l’angolo –, lui si era seduto e, come in una cordata che precipita dalla parete nord, si era tirato dietro Simone e Simone Carla e Carla il profumo. Sei un cacciatore di coccodrilli?, No, se però lo sembro va bene, No non sembri un cacciatore di coccodrilli, ma volevo essere sicuro. Carla aveva sorriso e accarezzato la testa del figlio, il bambino si era sistemato meglio sul divano e, dandogli un po’ le spalle, si era avvicinato, incredibilmente, quasi camminando sulle piccole chiappe. Andrea stava di tre quarti con un braccio allungato sulla spalliera, una gamba ad angolo sul divano e l’altra a terra. Simone gli aveva scavalcato il polpaccio e sfiorava col sedere l’interno-coscia – portava il pannolino?, gli avrebbe macchiato i pantaloni, nel caso?, e il divano giallo senape sarebbe stato rovinato per sempre da una chiazza tonda dall’odore incerto?, la pipí dei bambini macchia? –, Simone, un po’ di spalle, gli toccava col sedere l’interno-coscia, ne percepiva il calore, e anche il profumo, di latte e pasta Fissan e forse shampoo Johnson’s, che si insinuava nella nuvola tuberosa della madre. Mio papà è un cacciatore di coccodrilli, aveva chiarito Simone guardando la madre severo, e poi, voltandosi verso di lui, E ieri me ne ha portato uno!, E adesso dov’è, nella vasca da bagno?, No, in salotto, è un coccodrillo gonfiabile, E come te ne sei accorto?, Perché era sgonfio. Andrea aveva riso. Il bambino era caldissimo, ma di un caldo che non faceva sudare. Era quel calore a essere interdetto a chi non aveva bambini da crescere? Simone lo aveva guardato da sotto, Sei sicuro che non sei un cacciatore di coccodrilli? Ma perché invece di studiare mitologia non era diventato cacciatore di coccodrilli? La scena che ricordava – non un’immagine ma una sensazione – era lui con le gambe appena divaricate e il bambino seduto in mezzo, ergonomico. Carla che con la mano, grande e nodosa, l’anello d’oro all’anulare, simmetrico alla fascia nera sull’altra mano, accarezzava la schiena del figlio, Carla la cui mano dunque passava, su e giú, su e giú, su e giú, tra la schiena di Simone e la sua pancia. Lui che sentiva un tumulto nel ventre, non un tumulto, un sussulto, quasi quelle carezze, tramite il bambino, arrivassero a lui e su di lui. Aveva dovuto concentrarsi sul coccodrillo sgonfio. Per quanto tempo, senza il cuore, avrebbe ricordato quella e altre eccitazioni?
Non piú di dieci minuti. Non la faceva mai aspettare di piú. Carla, dall’altra parte della strada, sorrideva. Aveva smesso di dirle Come sei bella perché bella era un aggettivo al quale Carla non credeva piú. Non tutti gli aggettivi obbligano a una posizione fideistica. O sí. Le era andato incontro e le aveva dato due baci, poggiandole una mano sul braccio e stringendo appena per ricordarsi della consistenza del suo corpo, e di quanto quella consistenza gli fosse familiare, anche adesso che lei aveva deciso che, in fondo, il cacciatore di coccodrilli sgonfiati era la sua famiglia che andava tutelata. Ma perché pensi che l’amore sia pericoloso?, è una cosa da filmacci, su, rideva Andrea e si rabbuiava lei, ma per civetteria. Non si sarebbe allontanato mai da lei, non gli andava di sprecare gli anni, la felicità, i gesti, e nemmeno di non vedere piú Simone che intanto aveva cominciato le scuole elementari e alle medie avrebbe studiato l’epica, e si sarebbe accorto di sapere le storie senza averle imparate, perché gliele aveva raccontate lui negli anni. Non era un cacciatore di coccodrilli né reali né gonfiabili ma conosceva i Leviatani, coccodrilli molto piú che giganti. E i centauri, le sirene, le arpie, le chimere, Medusa con una permanente di serpenti velenosi. Argo con cento occhi e Polifemo al quale non è rimasto piú nemmeno l’unico che aveva. E chi è stato?, Nessuno!, E come è possibile?, Perché era solo un nome!, Non ho capito. E i serpenti, sono molto velenosi?, Scherzi?, i piú velenosi, E tu hai l’antidoto?, Solo una boccetta, Me la dai?, Non ne hai bisogno, ti ho vaccinato quando eri molto piccolo, E come?, Ti ho fatto baciare da Pitone, Che schifo! Pitone era maschio o femmina?, Decidi tu, è stato plasmato dal fango dopo il diluvio universale. Era enorme, quasi un drago, Che differenza c’è tra un drago e un serpente?, Il drago ha orecchie frangiate che gli spuntano dalla testa, ma sopra, non di lato come le tue.
Ehi, le aveva detto quando se l’era vista davanti, bionda, per la strada, e Ciao, aveva risposto lei, come al telefono, di modo che il tempo si era riavvolto e lui si era sentito un po’ piú nudo con lei lí, e si era rallegrato. Ti offro un caffè, Dove vogliamo andare?, Al nostro bar.
Del dolore dei possessivi, un’improvvisa fitta intercostale, non avrebbe mai potuto dire a nessuno e infatti aveva abbassato la testa e si era concentrato sull’asfalto che cominciava ad ammorbidirsi per il caldo. Come sta Laura?, Bene, ma è uscita di malumore, Strano, è una donna cosí solare, Non scherzare, non le piace piú lavorare in tribunale, Cosí all’improvviso?, Sí, credo che non le piaccia piú la sua vita, Sposala, tu la ami, Sí, la amo, e alla fine la sposerò, anche se non credo le interessi, e nemmeno a me, Non mi avresti sposata?, Ti avrei chiesto di sposarmi e avresti risposto No, quindi meglio sia rimasto zitto, d’altronde sei già sposata. E come sta tuo marito?, Non gli piace che prenda il caffè con te tutte le mattine e a me non piacciono molte cose di lui, Quindi sta come al solito?, Lui avrebbe preferito passare la vita con una donna fedele, io con un uomo felice. Andrea aveva pensato a quanto era stato felice con Laura, felicissimo, era sua come tutto il suo corpo, e poi si era ricordato perché non chiedesse mai a Carla del marito.
Di tanto in tanto, camminando, si sfioravano la mano e Carla si spostava un poco, si allontanava e poi si riavvicinava cosí che, a vederli da fuori, i due parevano compresi in un moto ondoso, sincronico, intimo, di profonda confidenza. Cosa fa Simone ora che la scuola è finita?, Per il fine settimana è da mia sorella, poi tutti partiremo per due settimane. Della violenza di quel tutti – che era finto, perché lo escludeva, e che gli infastidiva l’occhio destro come un granello di polvere –, di quella violenza non avrebbe potuto dire a nessuno e infatti aveva guardato in alto, le fronde degli alberi di cui dimenticava sempre il nome o forse non lo aveva mai imparato. Aveva abbassato le palpebre per lenire il fastidio. Non sapeva come dirle di non avere piú il cuore, e adesso che camminava, con lei a fianco, sentiva la nostalgia di tutte le altre volte in cui l’aveva sentito accelerare e rallentare, in cui l’aveva sentito anche – ma era successo solo due volte, nell’adolescenza, e lei non c’era ancora, e nemmeno Laura – interrompersi e poi ripartire. Era per quelle due interruzioni, per quei battiti persi che era arrivato in ritardo nella vita di Carla e, a pensarci bene, anche in quella di Laura?
E voi tutti dove andrete? Aveva proseguito scanzonato, precisando voi e calcando tutti perché lei si avvedesse della scortesia. Carla aveva fatto finta di niente.
In campagna, come al solito, in campagna. Carla non si accorgeva delle sottolineature di lui, e non accorgendosene, le sbiadiva. Della campagna di Carla aveva un ricordo mitico, forse perché per lui la campagna era sempre stata povera. La campagna dei nonni, disordinata e faticosa. Con le galline a razzolare dentro, ma soprattutto fuori dal pollaio, che spargevano ovunque piume e guano, galline rapaci dal becco spuntato con le cesoie perché altrimenti avrebbero bevuto le uova, galline cannibali. Con la stalla delle mucche che dava sempre un’impressione di fatiscenza e precarietà. E invece nonni morti, casa diroccata, e la stalla no, identica. E ogni volta che tornava, apriva la porta di assi, con cautela, quasi dietro ci fossero ancora le mucche che avrebbero potuto spaventarsi e perdere il latte, le chiamava tutte Carolina, le trovava tutte indistinguibili. C’erano una vecchia Renault 5 arancio e bianca lasciata ad arrugginire accanto al pozzo e diventata, negli anni, un merletto di lamiera latrice di tetano a dar retta a sua madre, scale di legno alle quali mancavano pioli ma che venivano utilizzate per battere le noci dai rami – e di quelle scale si era ricordato improvvisamente entrando di primo mattino nella chiesa del Santo Sepolcro e gli era sembrato di esserci già stato proprio a causa delle scale infisse o appoggiate ai muri, di ogni altezza e misura coi pioli mancanti, come a dire che se il cielo sta in alto, se uno vuole, con la scala giusta ci arriva –, le scale coi pioli sporadici per battere le noci, i cani che correvano a guaire nel pagliaio quando sgozzavano i maiali, le bacinelle ricolme di sangue (cotto poi coi pinoli e la cioccolata e mangiato come una prelibatezza), le pelli dei conigli, e talvolta solo le zampe appese agli stessi fili di ferro sui quali venivano lasciati, in altri giorni o ad altre ore, i panni ad asciugare. Della campagna, insomma, prima di Carla, aveva un’immagine ancestrale. Poi era andato con Carla – e con Simone nel seggiolino – nella tenuta dove lei era cresciuta. Una casa di pietra, con una loggia che girava su due lati, un ex-convento a cui si arrivava dopo aver percorso un viale di biancospini e noci – i biancospini erano fioriti, i noci verdi – e intorno alla quale stavano un bosco e una radura. Una chiesa e un cimitero dove le ossa delle monache s’intrecciavano a quelle degli antenati di Carla e alle radici dell’edera sotto il muro bordato di capperi. Il pozzo poi non era un pozzo, ma una bocca da cui, sporgendosi – e lui tenendo in braccio Simone lo aveva fatto, lei avrebbe voluto dirgli di stare attento ma si era fermata alla A, cosí che l’avvertimento era diventato un sospiro –, sporgendosi, si scopriva una cisterna con le pareti di pietra e l’acqua chiara. Tenendo il bambino stretto tra un braccio e il torace, aveva preso una moneta dalla tasca e l’aveva buttata nell’acqua. La moneta aveva fatto Pluf! e Simone Ohhh. E Andrea, guardando Carla, aveva sorriso Cosí torniamo eh? Carla si era avvicinata e aveva baciato il bambino. Un’altra Sacra Famiglia. Se non avesse avuto in mente tutta quella pittura, quel Tondo Doni, si sarebbe innamorato di Carla e Simone? Ma perché tutto era sempre un è nato prima l’uovo o la gallina, solo piú complicato?
Siediti, prendo i caffè, vuoi qualcosa da mangiare?, Mi piace la girella alle uvette, Lo so, ma la vuoi? Aveva ordinato, aveva pagato, si era fatto tagliare a metà la girella pur sapendo che lui non l’avrebbe mangiata e che lei avrebbe chiesto una bustina di carta per portarla a Simone e, solo dopo, si sarebbe ricordata che Simone non c’era e a quel punto chissà cosa ne avrebbe fatto. Carla era sola, senza il cane. Entrambi, come in un mutuo silenzioso accordo, come complici, erano arrivati senza qualcosa che portavano sempre e sempre era parso necessario. Niente cane, niente cuore, bau bau bum bum. Un momento futurista ed era tornato a sedersi. Che fosse bella era innegabile, che non fosse mai stata sua anche, che lui non avesse piú il cuore era incredibile, che le scale ai muri del Santo Sepolcro servissero, a chi rimaneva chiuso dentro, a salire fino alle finestre per chiedere aiuto e cibo, la diceva lunga su che cos’è il paradiso. Mi sono svegliato senza cuore. Carla aveva riso e ridendo gli aveva appoggiato la mano sul torace. Subito aveva sbarrato gli occhi e si era ripresa le dita. Andrea aveva avvertito un sussulto nel petto, unico, poi basta. Era il cuore o era la mano di Carla come uno sturalavandini sul petto cavo? Si era affrettato a riprenderle la mano. Ma lei non l’aveva concessa, nervosa, guardandosi intorno, stringendo un fazzolettino di carta, con una espressione drammatica che non le apparteneva. Non fare cosí, ci sono persone che mi conoscono. Mi sento a disagio, non mi piace che tu abbia perso il cuore, e non mi convince, devi vedere subito un medico, aveva aggiunto reggendo la tazzina tra i denti, come i bambini, col rischio di romperla.
Il primo sturalavandini della vita, lo aveva trovato nell’ingresso della casa dei nonni, sulla cassapanca, l’aveva preso per un cappello e se lo era calcato in testa. Il nonno, ridendo, gli aveva scattato una foto. Ogni tanto ripensava a quella foto che gli sarebbe piaciuto avere, e invece, nella macchinetta con cui il nonno aveva scattato, non c’era il rullino. La macchinetta in questione gli era tornata in mente con chiarezza solo adesso. Per la prima volta aveva capito perché non avrebbe mai potuto avere la foto con lo sturalavandini. Non mancava il rullino e non era stato uno scherzo del nonno. La macchinetta era uno di quei souvenir di moda alla fine degli anni Ottanta. L’aveva comprata lui stesso a Venezia, in gita scolastica. Era una macchina fotografica, piccola piccola, nella quale al posto di un rullino vergine, ce n’era uno con foto già scattate. Cosí, poggiandoci l’occhio non vedevi i tuoi ricordi futuri, ma i ricordi passati di qualcun altro. Su ciascuna cartolina c’era una scritta. Ponte di Rialto. Ponte dei Sospiri. Palazzo Ducale. Boa e Bacino di San Marco. Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Ciminiera e Campo Junghans (Giudecca). Spiaggia del Lido di Venezia (Des Bains). Palazzo del Cinema (Lido). Chiesa e Campo del Redentore. Chiesa e Campo della Salute. Teatro La Fenice (esterno). Casinò (dal Canal Grande). Stazione di Santa Lucia (dal Canal Grande). Che fine avevano fatto le macchinette che dimostravano quanto i ricordi di tutti fossero simili, sovrapponibili?, e che voleva dire Mi sento a disagio?
Niente. Dalla vetrina del bar, dopo che Carla era andata via con la mezza girella in una bustina di carta bianca, Andrea si era incantato a guardare i passanti. Non molti a quell’ora, ma molli, perché chi doveva accompagnare i bambini a scuola lo aveva fatto, e chi doveva fare la spesa al mercato aveva il giorno glorioso di sole che gli si spalancava davanti. Di Trastevere aveva subito amato quell’intervallo di ore, al mattino, quando la zona di San Cosimato pare un paese, i bar, le botteghe, le facce del quartiere, i bambini – tutti quelli troppo piccoli per andare a scuola ma troppo grandi per rimanere a casa – che si rincorrevano nell’area giochi, la piazza stessa che grazie all’umido della notte raddoppiava per riflesso le bancarelle di frutta e verdura e le persone, come un enorme specchio, e le foglie quando era il tempo delle foglie cadute color del bronzo. Si sentiva a casa nonostante non ci fosse nato, si sentiva a casa perché era il posto che aveva scelto. Comprava la verdura da Bruno e Sara, faceva colazione da Levain, resisteva ai lieviti, ai croissant, ai panini con l’insalata di pollo e mai alle madeleines, non perché fosse lettore di Proust ma perché gli piacevano, come i bignè alla panna la cui parte superiore era caramellata e gli ricordava certe lastre di zucchero che nei luna-park vendevano in forma di cocci di vetro. La sua mattina, dopo bar e verdura, si chiudeva con le mandorle tostate nel vecchio e avvenente negozio di coloniali Fratelli Innocenzi dove stava la signora col sorriso dolce e le dita affusolate e dove gli odori lo circondavano come in un suk. Ricordava benissimo l’aria densa di peperoncino, cardamomo e qualcosa a cui non sapeva dare il nome in cui era stato immerso nella città vecchia di Gerusalemme. Queste erano le sue ore al mattino, con Laura, con Carla, da solo. Avrebbe voluto che Corteccia partecipasse di quelle mattine, ma era un gatto che non amava uscire. Avrebbe potuto portarlo al guinzaglio? Mentre pensava a sé stesso senza cuore nel bar con le madeleines alle spalle, aveva visto un uomo fermarsi e reggersi un fianco, con entrambe le mani, come per un improvviso dolore, e poi alzare il volto sbigottito in cerca di uno sguardo di comprensione che non aveva trovato. Lo aveva visto tastarsi il fianco, quasi gli mancasse qualcosa, e aveva capito di non poter scommettere sul fatto che anche altri esseri umani non avessero perso qualche organo vitale eppure continuassero a vivere.
Andrea Dileva aveva considerato l’ipotesi di non essere né il primo né l’unico sul quale quella disgrazia si fosse abbattuta e dunque non fosse una disgrazia grandiosa ma una disgrazia comune. Cosí aveva chiamato Angelica.
Angelica era un medico, qualcosa di organi doveva pur saperne. E lo conosceva da sempre, quindi doveva saperne qualcosa anche di lui. Angelica, interrogata, aveva sbuffato, ma forse stava semplicemente espirando il fumo della sigaretta, Hai studiato troppe leggende greche, letto troppi fumetti, non si vive senza organi, checché ne dicano le tue mitologie. Quando avrebbe avuto il coraggio di dire ad Angelica che lui già aveva perso il cuore?
Per quanto possa stupirci, l’organo mancante non è una caratteristica delle leggende e dei miti greci. Niente in Graves, niente in Kerényi. Troviamo organi in piú, Argo dai cento occhi, i giganti dalle cento braccia, Ermafrodito con due sessi, Oto ed Efialte giganti, troviamo i patchwork di uomini, donne e animali, o di animali senza uomini, le Erinni con testa di cane e ali di pipistrello, Medusa con serpenti per capelli, Cerbero con tre teste a guardia degli inferi, l’Idra, con nove teste che si rigenerano se tagliate, Chimera con la testa di leone e la coda di serpente, Borea con serpenti al posto dei piedi. Tifone, testa d’asino, gambe e mani di serpente, che sfida Zeus e gli sfila i tendini dal corpo, e Zeus rimane senza forze, imprigionato. I tendini non sono propriamente un organo ma ci vanno vicini. Che differenza c’è tra essere senza tendini o essere senza memoria, come per esempio Tamiri punito dalle Muse per essersi vantato di cantare meglio di loro, e condannato a vivere cieco, senza voce e senza appunto la memoria della cetra? Che differenza c’è, se c’è, tra un organo e un senso o un sentimento? Vorrei che per la prossima lezione vi interrogaste sulla metamorfosi in fantasma attraverso l’Iliade, l’Odissea, Ovidio e Flegonte. Prendiamo intanto la prima cosa alla quale è plausibile pensare, per affinità di materia, l’aria. Eco, terzo libro delle Metamorfosi. Eco pettegola, Eco ingaggiata da Zeus e condannata da Era a ripetere solo le ultime parole dei discorsi, Eco innamorata di Narciso ma impedita a confessargli i propri sentimenti perché non può piú parlare, Eco che piange tanto da prosciugarsi e rimanere appunto solo un riverbero. Eco è la madre di queste metamorfosi. Ma esiste una categoria della metamorfosi nel niente materiale dei fantasmi? Mi direte che il niente non è una figura, non esiste il dio del niente. Esiste forse nella Storia infinita, che tutti avrete visto, il lupo del nulla al quale, per fermarlo, bisogna cedere un pezzo della propria memoria. Eccepirete che un fantasma cosí come compare nel Libro delle meraviglie di Flegonte, e sto parlando della giovane Filinnio, ha corpo abbastanza per bere, giacere con Macate, farlo innamorare e diventare nuovamente cadavere quando si trova di fronte ai propri tristi ma curiosi genitori. E se il fantasma avesse un corpo tangibile solo per gli estranei?, chiedo a voi e a me. Prendiamo Talo. Un essere vivente cavo, il cui unico punto debole, e dunque vitale, è una vena chiusa da un chiodo di bronzo. Per chi non lo ricordasse, Talo era il guardiano di Creta, e due sono le leggende sulla sua morte ma il modo è uno solo. Talo muore dissanguato. O per mano di un argonauta dopo che Medea lo ha reso pazzo. O per sbadataggine – condizione alla quale non sfuggono gli esseri quasi immortali –, perché inciampa in una roccia. Siamo fatti come Talo?
Se si prendeva a esempio, e sarebbe stata la prima volta – e per la prima volta capiva quanta responsabilità ci sia a prendersi a esempio –, se si prendeva a esempio doveva ammettere che questo chiodo di Talo non era un organo cosiddetto vitale. Guardava l’aula, colorata come doveva essere stata colorata pure la sua, anzi la sua di piú perché le tinte lisergiche degli anni Ottanta avevano avuto una coda lunga, e si chiedeva in effetti cosa potesse essere questo chiodo di bronzo, questo punto da cui dipende la vita. Quante delle persone che gli sedevano davanti, che cominciavano a meravigliarsi del suo silenzio e cercavano di eluderlo sfogliando appunti o libri e poi alzando rapidamente la testa, quante di quelle persone sarebbero arrivate alla laurea, avrebbero avuto una relazione duratura, avrebbero superato i cinquant’anni e portato i nipoti al parco, riflettendo sul fatto che sí erano davvero invecchiate? Li guardava curioso e li guardava amandoli, tutte e tutti gli ricordavano lui, quando ancora era intatto. Ma poi era morta Carmen, e Carmen aveva la sua età, e la morte di Carmen era diventata tutte le morti. La morte di Carmen stava sullo scudo di Achille insieme alla terra, al cielo, al mare, alle giovenche, alle pecore, ai leoni, al fiume Oceano e alle città. C’è il mondo sullo scudo di Achille ma non la morte. La morte, complemento indispensabile della vita, sta nell’arma che Achille brandisce. Invece, dopo la morte di Carmen, sullo scudo di Achille Andrea aveva inciso Carmen. Aprite l’Iliade al libro XVIII, si sentiva pronunciare quando era ancora uno studente universitario e stava seduto tra i banchi. Aprite l’Iliade al libro XVIII e cominciate dal verso 478, ripeteva eco di sé stesso, nel suo petto cavo, quella mattina. In piedi, davanti alla cattedra, con due lavagne scorrevoli alle spalle. Reggeva il libro aperto, senza guardarlo. Fissava l’aula e l’aula era immobile, in attesa. Cosí aveva abbassato il mento e cominciato a recitare i versi dell’Iliade.
Solo che a un certo punto nella sua testa, come un batterista che tiene un ritmo con la destra e un altro con la sinistra, aveva abbandonato Omero e, sullo scudo di Achille, in uno dei cerchi concentrici, nel piú esterno, dopo Oceano stava Carmen ferma in macchina al semaforo, con la musica alta, i capelli biondi sparati, ascoltava una canzone disco tutta percussioni, era l’estate del 1996, Carmen cantava con gli occhi chiusi e la testa all’indietro come per bere e come l’aveva vista sempre fare. Carmen forse grida perché è notte e non c’è nessuno, l’aria dell’estate è fresca, forse alza ancora il volume della radio, e la voce, e un ubriaco a cento all’ora prende in pieno la macchina che fa un primo giro, e si ribalta e si ribalta ancora senza che la musica smetta. L’ultima giravolta spegne anche la radio. Sull’ultimo cerchio dello scudo di Achille c’è questa macchina che gira e gira e anche se non potete saperlo, perché è una bugnatura su metallo, io vi dico che la macchina è azzurra. Questo sta sull’ultimo anello dello scudo di Achille che tutti devono temere perché inespugnabile. Quando Carmen era morta, pur amandola, non era morto. E quindi il chiodo di Talo non era nemmeno un essere amato. Questo il parallelo che avrebbe fatto agli studenti durante la lezione successiva. Se non si muore quando muoiono le persone amate, allora si può sopravvivere anche senza cuore.
Possibile. Quando Laura era rientrata, Andrea stava piegando i panni. Lei, premurosa, dopo avergli dato un bacio leggero sulla guancia, aveva detto Faccio io. Si era seduto sul letto e si era acceso una sigaretta, perché lei gli piaceva, perché nonostante avesse perso il cuore era tornata, perché era bella (a lei piaceva che lui lo dicesse) nel tailleur blu e nelle sneakers bianche. Poi, però, aveva provato una sensazione di oppressione, ed era uscito in fretta dalla stanza e da casa. Gli mancava l’aria. Aveva sbattuto la porta, Corteccia lo aveva seguito fin sulla soglia. Laura aveva piegato l’asciugamano a metà, prima sul lato corto e poi sul lato lungo, ed era passata al successivo. L’aveva piegato in quattro. Perché in tanti anni di frequentazione di casa sua, perché Laura che ormai viveva a casa sua, non aveva mai notato come erano piegati gli asciugamani? In tre sul lato lungo e in due o tre sul lato corto. Era semplice. Perché la donna che ripeteva, e lui le credeva, di amarlo, non aveva mai tenuto conto del modo in cui sistemava gli asciugamani? Cosí era uscito, blaterando qualcosa sulle sigarette (visto che ne aveva già una in bocca), perché non voleva litigare in quella situazione, ed era andato a fare un giro intorno al palazzo, poi due giri, poi tre, fino a cinquecento, come a scuola quando si allenava per la campestre e la professoressa li faceva correre in tondo, e loro correvano, e forse capivano che l’allenamento sta nella ripetizione e cosí la realtà, e nella ripetizione i suoi asciugamani di lino avrebbero dovuto continuare a essere riposti nella madia. Passi per le mutande lasciate a terra (era divertente) o per le sue espadrillas infilate al volo quando non trovava le infradito, ma gli asciugamani erano un gesto di tale disattenzione che Andrea, oltre che sentirsi solo, si era sentito derubato degli anni passati insieme a condividere il quotidiano. Seduto su un muretto, con le gambe allungate e le caviglie incrociate, alzando e abbassando la testa, voltandola a destra e a sinistra, ancora compreso in una lezione di educazione fisica del liceo che riscopriva mai conclusa, si era detto che i disattenti hanno il potere della realtà, occupano lo spazio con la loro disattenzione, impongono la loro presenza con le mancanze, mentre i troppo attenti tendono a scomparire, perché l’attenzione è invisibile e inodore e insapore, l’attenzione rende tutto scontato. E su quel pensiero, degli attenti invisibili e disattenti presenzialisti, aveva tirato una boccata di fumo che avrebbe voluto copiosa e voluttuosa, e aveva sentito di non esserne capace. Con la chiarezza di una lastra vedeva di aver perso anche i polmoni.
Angelica, quella che poteva chiamare senza sentirsi infantile la mia migliore amica, era medico – medico dei morti, motivo per cui, scaramanzia bella e buona, non le aveva spiegato tutto subito –, Angelica era concentrata sul diafanoscopio Deve essere sporco, strofinava, non c’è altra spiegazione. Con lei aveva condiviso la vittoria per il torneo di palla tamburella – gioco talmente anni Novanta che, quando ne aveva parlato a Simone, aveva impiegato due minuti per illustrarne le regole e soprattutto per provare a rendere avvincente uno sport, in definitiva, insensato, un tennis senza racchette giocato col pallone da pallavolo. Angelica, la sua piú cara amica, medico dei morti al Policlinico dei preti, fissando la lastra retroilluminata, era rimasta zitta. Che ti ha detto Laura?, Niente, E Carla?, Niente, credo fosse irritata, Vai ancora a letto con lei?, Non sono mai andato a letto con lei, Vai ancora in campagna con lei?, Piú raramente, E perché non fate l’amore, siete castrati?, Dice che non è il tempo, E quando è il tempo?, Il tempo non è e non passa, Ah sí?, e che fa?, Arriva, Non intendo continuare questo gioco adesso, ma nessuna ha detto niente?
A quel punto, facendo spallucce, avevano cominciato a mugugnare una vecchia canzone di Fiorella Mannoia, anche se la voce di Andrea era piú incerta perché senza polmoni, le corde vocali venivano sollecitate molto meno. Avevano stonato e riso e poi erano tornati a guardare la lastra. Angelica era stata la sua prima fidanzata, poi era andata a studiare fuori, e quando era tornata si era portata dietro una ragazza. Gli aveva detto È un’amica, ma lui aveva capito che era piú una amica amica. L’idea che sarebbe rimasto l’unico uomo di Angelica, l’unico al quale lei avesse fatto un pompino, l’unico a venirle sulla pancia per timore di metterla incinta – le prime volte facevano cosí perché entrambi trovavano eccessivo il costo dei preservativi – ancora lo ringalluzziva. Poi non ci aveva piú pensato perché Angelica gli piaceva comunque e gli sarebbe piaciuta sempre. Anche senza scopare. Come Carla?, no, non come Carla.
Dottore, aveva detto, allegro non si sa come con quello che gli stava capitando, Dottore, esiste una cura?, Non so che dirti, non so nemmeno perché sei vivo, le vedi le lastre?, Sí, Ci sono ben definite le ombre di cuore e polmoni. Una specie di calco. Le ombre dei tuoi organi.
Sembrava una frase da poeti cortesi. L’ombra del cuore.
Quindi non è che hanno smesso di funzionare, cosa che sarebbe causa di morte, sono solo scomparsi. Meglio, no?
Angelica aveva aperto la finestra, guardato in basso qualcosa o qualcuno che non si era sentita di condividere, e, sfilando una sigaretta dal taschino del camice, l’aveva accesa. Lo sapevo che studiare tanto alla fine si sarebbe rivelato inutile, davvero Carla si è infastidita?, hai intenzione di dirlo a Simone?, No, non credo, anche se forse lui avrebbe una spiegazione, le spiegazioni riescono sempre a chi non ha paura e lui non ha paura, E tu hai paura?, Non lo so. Angelica lo aveva guardato bene, aveva inclinato la testa come le fosse venuta un’idea, poi gli aveva detto di salire sulla bilancia. Non è possibile che tu non abbia piú cuore e polmoni e sia in vita, nessuno vive senza gli organi, non siamo piante, abbiamo le funzioni concentrate negli organi, o tu sei un fantasma, uno zombie, un non-morto, un mezzo e mezzo come Peter Pan, un inestinto come Dracula, oppure qualcosa ci sfugge. Andrea era salito sulla bilancia, sempre 75 chili piú o meno. Le aveva chiesto Quanto pesano cuore e polmoni?
Angelica neppure era molto cambiata, portava lo stesso taglio di capelli, usava ancora certi jeans comprati insieme venticinque anni prima al mercato di Resina. L’espressione si era un po’ indurita. Era diventata piú riflessiva, le guance le erano un po’ cadute, e probabilmente anche i seni, il naso lievemente piú aquilino e cominciava – alla sua età, lui compreso, erano già tutti, da molto, brizzolati – ad avere qualche capello bianco. Quando vedeva un pallone, Angelica lo rincorreva e lo calciava facendolo passare da un piede all’altro, e certe volte lo alzava e colpiva di testa. Un pomeriggio, con la solita sigaretta in una mano, aveva tirato un colpo di prima, in sforbiciata, lasciando di stucco i ragazzini che giocavano in strada, e se n’era rallegrata fino a quando quegli stessi ragazzini, che le si erano avvicinati come lupi famelici per guardarla meglio, le avevano ciangottato intorno Brava Signora Brava Signora. Non voleva essere una signora, voleva essere quella che era sempre stata. E invece Brava Signora Brava Signora. Avesse avuto un coltello, avrebbe squartato il Super Santos. E quindi?, Quindi non lo so anche perché con lo stetoscopio né ti sento respirare né sento il cuore battere, ma il tuo peso non è cambiato. Uno e ottantotto per settantacinque chili e cento grammi. Ma quanto pesano cuore e polmoni? Angelica non rispondeva perché non ascoltava. Era l’esempio lampante di come il pensiero generi solitudine. Il punto, diceva ad alta voce, continuando a fissare qualcosa sul marciapiede, qualcosa o qualcuno di cui, ora, Andrea era curioso, il punto, ripeteva, è che non li vediamo e non li sentiamo, però il tuo organismo fa come se. Come se ci fossero. Il tuo corpo ricorda le funzioni, e le completa, è possibile? Non lo so.
Spostando gli occhi dal marciapiede, improvvisamente di nuovo presente alla stanza e a lui, Angelica lo aveva guardato spocchiosa e stupita, Non lo chiedevo a te, Andrea, lo chiedevo a me. Polmoni e cuore pesano. Pesano quelli degli animali che compri in macelleria, e pesano i tuoi.
Due borse della spesa la tenevano piú vicina alla terra. Come fa uno a perdere il cuore, mica è un portafoglio! Mentre cercava le chiavi nella borsa, si diceva Va bene che è un uomo particolare, ma cosí è troppo. Andare in giro senza il cuore. Sem, il cane, le era saltato addosso appena aveva aperto, cosí lei gli aveva dato la mezza girella alle uvette, perché lo faceva felice e perché odiava buttare il cibo. Era sempre stata cosí. Pratica, fredda, razionale. La prima volta che erano andati in campagna avevano fatto un picnic su un prato, stesi su un plaid che sembrava un plaid, non quei teli di etno-pile con velcro per richiuderli, sotto due salici le cui foglie finivano nell’acqua del torrente. Simone ci aveva giocato, lui si era arrotolato i pantaloni al ginocchio per ripescarlo, lei era rimasta stesa a pancia in giú a guardarli con un sorriso assopito, tranquilla. Poi Simone aveva allungato entrambe le braccia a lasciare intendere che voleva essere tenuto, non solo salvato.
Andrea stringendolo aveva avvertito di nuovo il calore del divano. Il bambino, guardandolo negli occhi, gli aveva afferrato il volto tra le mani, lo aveva baciato sulle labbra bavoso come una lumaca, si era accoccolato sulla spalla e, dopo poco, si era addormentato. Andrea non ricordava di aver mai fatto colpo su nessuno con tanta efficacia e immediatezza, era solo la seconda volta che lo vedeva, non sapeva nemmeno perché avesse annullato il ricevimento all’università e avesse risposto Sí a Carla che gli chiedeva di accompagnarla, Andiamo e torniamo aveva assicurato lei, e lui aveva annuito pensando fosse sufficiente, invece erano al telefono, cosí lei aveva chiesto ancora, con tono piú dolce ma piú impaziente, forse timorosa di un rifiuto, e lui ricordandosi del telefono, aveva detto Sí, sí, certo, adoro la campagna. Che non era vero, data la campagna nella quale aveva trascorso l’infanzia. Tu adori la campagna?, aveva riso leggera Laura, tenendo un bicchiere di vino in una mano e saltellando per liberare il piede sinistro del pantalone che aveva cominciato a togliersi – perché Laura faceva sempre due o tre cose insieme –, Tu adori la campagna? Sí, aveva risposto lui, incerto, Sí, poi sai, lí vicino c’è un museo con resti etruschi e romani importanti, due chimere, e un vaso con le rane e i topi molto bello, Allora lo conosci, Certo ma a me piace riconoscere. Cosí lei, liberato il piede, e lasciando il pantalone a languire sul pavimento come la pelle di un serpente dopo la muta, era tornata in cucina, si era seduta, aveva acceso il computer, poggiato il bicchiere sul tavolo, e detto Ordiniamo cinese? E la discussione non era mai cominciata. Laura sapeva essere leggera. Il disinteresse di Laura per Carla avrebbe dovuto metterlo in guardia? Se Laura non si ingelosiva, Carla era un abbaglio? Si fidava di Laura come del proprio corpo, si fidava di Laura piú di quanto si fidasse del proprio sentire. Andrea avrebbe voluto dirle che il pantalone non si sarebbe consumato come la pelle del serpente, e avrebbe dunque dovuto raccoglierlo, ma si era limitato a sospirare sul disordine e ordinare cinese. Ravioli alla piastra con verdure, spaghetti di riso con verdure e gamberi, verdure miste saltate, pollo con gamberetti e funghi, un riso bianco, salse, birra cinese, sí, basta cosí, sí, suonare Dileva, poi era andato a spegnere la luce che Laura aveva lasciato accesa in ingresso.
Quando Simone si era addormentato, Carla si era sollevata ed era andata verso la macchina. Vieni, mettiamolo qui, fuori c’è vento. Lo avevano sistemato sul seggiolino abbassando un poco il vetro che con quel vento, pensava Andrea, avrebbe prodotto un lugubre fischio disturbando il riposo del bambino. Invece, Simone non si era svegliato e dopo poco lui si era acceso una sigaretta, appoggiando le spalle al salice e incrociando le gambe. La posizione di Laura e di Siddharta nella quale non era mai stato comodo. Quando tutti al liceo leggevano Siddharta e, subito dopo, Narciso e Boccadoro, lui si era rifugiato nel Gioco delle perle di vetro, per non essere tagliato fuori dalle conversazioni su Hesse e perché almeno lo riportava alle piste delle biglie sulla spiaggia d’estate. Nemmeno Carla aveva amato Siddharta e infatti con tono sbrigativo aveva ordinato Vieni qui, lí prendi umido. Andrea aveva esitato, poi era andato, le si era disteso accanto, e per la prima volta aveva visto vicinissimi gli occhi color acqua di mare con fondale sabbioso, e qualsiasi essere umano in quella situazione l’avrebbe baciata, e cosí lo aveva fatto anche lui. Un istinto di specie. Carla aveva denti irregolari e un po’ aguzzi, il gusto della birra si era mischiato a quello del caffè. Facendole scorrere la mano sulla schiena, prima di arrivare al bassopiano delle reni, si era avveduto di quanto fosse ossuta, cosa che non avrebbe detto a vederla in piedi. Erano rimasti a consumarsi la bocca nella solita nuvola di profumo, persistente nonostante il vento, lei stesa a pancia in giú e con le mani sotto una guancia e lui poggiato su un fianco con la mano sulla sua schiena senza nemmeno toccarle il culo. Poi Simone aveva urlato, forse il fischio lo aveva spaventato, il sibilo serpentesco dell’aria che strisciava attraverso il vetro, forse un altro istinto di specie che avverte la famiglia felice del predatore in prossimità del nido, e Carla si era alzata subito lasciandolo cosí, quasi non fosse successo niente. Accade sempre tutto quello che desidero, gli aveva detto lei, sbarazzina, mentre rientravano, Deve essere terribile, aveva risposto lui, guastato dagli studi classici. Tutti e due avevano fissato il viale. Non pensi che debba prendere un cane?, Non so, un cane ha bisogno di spazio, Sí, ma ho un marito al quale non piacciono i gatti e una casa grande, è una scelta obbligata e semplice.
In principio tutto era semplice e tutto era tre. Gli dèi in alto, gli uomini in basso, in mezzo, in senso geografico e temporale, tra il cielo e la terra, tra l’eternità e il tempo, stavano gli eroi. Gli eroi li conoscete, o pensate di conoscerli, li immaginate. In Esiodo, hanno un’età tutta per loro. Per Crono c’è l’oro, per Zeus l’argento, per gli uomini il ferro, per gli eroi, gli eroi. Gli eroi non necessitano di altra qualifica, sono definiti in sé, e per sé. Per questo non ho mai voluto essere un eroe. Non guardatemi con sufficienza, se avessi voluto, se mi fossi concentrato, o se fossi stato orfano, come Batman, avrei potuto diventare un eroe. Tutti possono. A ogni modo, dove sono il brutto, il cattivo, l’orrendo e il deforme in questi mondi rigidi come i metalli o senza macchia come gli eroi? Dov’è lo strambo? Dove le sirene e i centauri? Le arpie e le sfingi? I giganti e i fantasmi? Le meraviglie e i mostri? E cosí accanto al termine dio nasce il termine demone. L’etimologia sembra biforcarsi, dividere o illuminare, ma non si biforca affatto perché chi porta una fiaccola separa la luce dalle ombre, il visibile dall’invisibile. Cercheremo di capire se l’età dei demoni sia un’età, nel senso di Esiodo e, in tal caso, con quale attributo la si possa definire.
Per iniziare, due osservazioni. La prima è la principale differenza tra dèi e uomini, ogni dio è diverso dall’altro, ogni dio consustanzia un aspetto della natura o un carattere, gli uomini invece sono tutti uguali. Per gli dèi esiste una teogonia, per gli uomini una storia collettiva. Gli uomini hanno il tempo, gli dèi l’eternità. La stessa aria che gli dèi respirano è diversa da quella che respirano gli uomini. La seconda osservazione riguarda il termine con il quale i latini indicavano ciò che viola l’ordine naturale delle cose: monstrum. Vi chiedo di pensare alla prima volta che vi siete imbattuti in un dio greco. Mi auguro che molti di voi abbiano avuto l’epifania di trovarsi esposti alla freccia di Amore e abbiano mostrato il petto per riceverne i colpi, immagino che alcuni siano inciampati grazie ai videogiochi in minotauri e centauri, altri siano stati rapiti dalla Sirenetta di Disney che per amore abdica al suo regno eterno e, senza voce e senza sangue, arriva a camminare nel mondo degli uomini. Io no, io sono piú vecchio, e nel 1984, quando nessuno di voi era nato e molti dei vostri genitori ancora dovevano decidere se mettersi insieme, io davanti alla televisione, il pomeriggio, in un programma televisivo chiamato Bim Bum Bam ho visto Pollon. Pollon nel cartone è l’unica figlia di Apollo, mentre sappiamo assai bene che i figli di Apollo erano piú delle sue amanti, come per altro spesso succede anche agli uomini. Pollon, figlia di Apollo, nipote di Zeus, vuole diventare una grande dea dell’Olimpo, e per farlo deve superare alcune prove, l’ultima delle quali è liberare il mondo dai mali usciti dal vaso di Pandora. Pollon viene aiutata da Eros, bruttissimo, alato e munito di un arco che non fa gola né spavento, viene sostenuta da Zeus in persona e da una dea che le regala un pettinino walkie-talkie. Quando Pollon lo mette tra i capelli, la Dea delle Dee arriva e risolve. Quando fa qualcosa di molto eccessivo, bugie e sotterfugi pieni di buone intenzioni, Pollon getta in aria una polverina che dà allegria, una specie di polvere glitterata. Era il 1984, sono diventato uno studioso di mitologia ma avrei potuto diventare un cocainomane, cosí esposto alla polverina che dà l’allegria. Non scherzo. La Dea delle Dee, l’entità femminile e divina che cederà il suo titolo a Pollon, è proprio la dea Speranza, rinchiusa nel vaso di Pandora insieme ai mali del mondo. È buona la speranza?, vi chiedo, anche se la domanda piú esatta sarebbe Quando è buona la speranza? A ogni modo, ho incontrato gli dèi in un cartone animato giapponese di ambientazione contemporanea, camminavano nelle strade dei mortali e con loro interagivano e per me questa è la realtà. Ma torniamo alle meraviglie, agli orrori, ai mostri, torniamo all’età dei demoni. Partiamo da Platone – si parte sempre da Platone per tornare a Platone –, nel Simposio il demone è Eros, l’amore, che media tra dèi e uomini, nell’Epinomide i demoni sono invisibili forme aeree alle quali rivolgersi con rispetto, somigliano ai fantasmi ottocenteschi. Subito dopo Platone, morto Platone, i demoni mutano in creature malvagie e spesso mostruose. Cosí per me l’età dei demoni, coeva a quella degli uomini, è l’età dell’acqua. L’acqua è talvolta terribile, spesso un sollievo. Siamo fatti, come il mondo stesso, di una notevole quantità di acqua, cosí come siamo fatti di demoni. Certe volte i demoni mangiano noi, certe altre accade il contrario. L’età dei demoni, per me, è l’età dell’acqua.
Aveva piovuto, ma poco. Rientrando le aveva detto di essere stato da Angelica e di non avere piú i polmoni, Laura si era versata il vino in un bicchiere già pieno e gli aveva chiesto una sigaretta. Il vino era sbordato in piccole gocce rosse sul tavolo di vetro. Sembrava si fosse ferita, o sangue dal naso. Laura aveva appoggiato le labbra al bicchiere e risucchiato il vino per abbassare il livello. Quel rumore infantile lo aveva addolcito ma era ancora arrabbiato con lei per gli asciugamani, cosí che aveva lasciato il pacchetto di sigarette sul tavolo e glielo aveva avvicinato con una schicchera. Che dice Angelica?, Che non ho perso peso, quindi forse semplicemente i miei organi sono diventati invisibili, Ah, e quanto pesano cuore e polmoni?, Piú o meno un chilo e mezzo.
Laura, sorridendo, gli aveva lanciato il pacchetto indietro, È come i mandarini, non riesco ad aprirlo. Doveva essere stata una bambina insopportabile, questo pensava guardandola, autosufficiente, dura, volitiva, prepotente, e tutti questi sentimenti e attitudini erano nascosti dietro una capacità di restare in silenzio che sulle prime poteva somigliare alla ragionevolezza e alla riflessione, e invece era rabbia. Laura era un mostro. Capace di covare rancore, capace di rimanergli accanto per il semplice fatto di averlo scelto (e delle sue scelte era sicura), capace di sopportare le sue distrazioni e dunque di annientarle, capace di accettarle e dunque di restare ciò che sapeva di essere, o pensava di essere, cioè superiore. Giunone nel corpo di Diana, delle sue gazzelle e dei suoi cerbiatti. Non era un soldato scelto, era un’intera armata, e cosí lui la rispettava, la temeva e si sentiva al sicuro. L’aveva vista lasciare il precedente compagno senza voltarsi indietro una sola volta. Laura avrebbe riportato Euridice dagli Inferi fottendosene delle conseguenze. Col pacchetto in mano, le si era avvicinato e le aveva dato un bacio sulla testa. Era rimasta immobile. Laura se ne fotteva delle conseguenze, perciò tutte le madri che pretendevano alimenti, affidi esclusivi, patteggiamenti e pura vendetta si rivolgevano a lei, perché faceva di piú che vivere nel presente e averne coscienza, lo incarnava, e il presente non ha tempo e spazio per le conseguenze. Le aveva acceso una sigaretta con qualche difficoltà per la limitata circolazione d’aria, difficoltà che forse, presto, sarebbe diventata impossibilità. Angelica si sarà messa a studiare, sai come fa lei, adesso riemergerà con un fallimento o con una risposta, alla fine le guerre si combattono con lo stesso spirito sia che si perdano sia che si vincano, e per gli studi è la stessa cosa. Per non avere piú i polmoni parli tanto, non puoi tranquillizzarmi, non puoi e basta. Laura si era alzata e gli aveva poggiato l’orecchio sulla schiena Di’ trentatre, Trentatre, No, non respiri, la cassa toracica non si alza, cioè appena, non sono solo invisibili, ma anche col silenziatore, Perché non guardi come piego gli asciugamani?, Che c’entrano gli asciugamani?, C’entrano, Sono solo asciugamani piegati, perché ne parliamo?, Tu mi fai questa domanda e io penso di essere sempre stato invisibile, e col silenziatore.
La prima volta che si era fermato a dormire a casa di Laura lei gli aveva chiesto di togliersi le scarpe, e da allora non aveva mai piú camminato sul parquet se non scalzo, l’aveva osservata e imparato che la mattina prendeva yogurt bianco col miele, che odiava le gocce d’acqua sul lavello, che detestava lui entrasse in bagno mentre si lavava i denti, che quando facevano l’amore le piaceva stare sotto, ma anche addormentarsi sulla sua schiena strofinandosi un poco tra le sue natiche, che il caffè lo prendeva amaro e voleva chiudere il motorino da sola, a modo suo, e dunque la cavalleria di aiutarla a mettere la catena doveva essere dismessa nonostante il lucchetto fosse pesante, e cosí era stato. Andrea aveva osservato e incamerato le abitudini. Cercava di non dimenticarsene, di modo che Laura si sentisse sempre a suo agio con lui come con sé stessa. Non sempre riusciva perché lei lo faceva incazzare, e quando era arrabbiato, dimenticava. Sul perché Laura gli facesse saltare i nervi non sapeva o non poteva o non voleva dire, ma sempre il nervosismo aveva a che fare con la rabbia silente di lei. Lo faceva incazzare l’evidenza che lei lo giudicasse e lo giudicasse uno che perdeva tempo, quando il tempo era l’unica cosa che non aveva perso in vita sua. Per Laura le perdite di tempo, ne era conscio, si assiepavano sempre intorno a Carla e Simone. Ragionevole, certo. Quante volte aveva detto Ma perché non facciamo un figlio nostro? E lui girava le spalle perché il possessivo in quel contesto lo faceva diventare matto, ma non poteva dirglielo, nel senso che non voleva, perché probabilmente Laura, intelligente com’era, avrebbe capito anche quel nervosismo e lui sarebbe rimasto solo senza piú un sentimento che fosse suo e basta. Il lato oscuro di capire è perdonare. Anzi, il lato oscuro di capire è il lato oscuro di perdonare, cioè capire fino a usurpare. Laura era l’esempio del perché la comprensione, la pietas con la quale i professori sfondano il cervello agli studenti, non sia che una palude maledetta nella quale si muore poco alla volta, alla velocità con la quale si affonda. Senza averne contezza, distratti dalla bellezza della flora, dalla varietà della fauna, intenti, da un certo punto in poi, a urlare per essere salvati. Sprofondava nella palude della comprensione che Laura non si decideva a bonificare. Quanto aveva odiato la professoressa del liceo col suo elogio della pietas nell’Eneide.
Senza polmoni, avrebbe potuto ancora respirare il profumo di Carla? Pensare a lei lo faceva diventare melodrammatico. Triste pioggia, rabbia tuono, felice sole, amore stelle, profumo ossigeno, distanza freddo. Per carità. Avrebbe perso anche i sensi, certo. Senza l’olfatto, Carla avrebbe continuato a sedurlo? Andrea sapeva di non appartenere alla categoria dei seduttori ma a quella dei sedotti. Con tutti i problemi che hai, pensare agli asciugamani mi pare frivolo, C’è da dire che con quello che mi è successo è frivolo pensare a qualsiasi cosa, tu di me non hai capito niente.
Se fosse stato un uomo diverso le avrebbe fatto fare un figlio, come dicevano i braccianti nella terra dei nonni, E fagl’ fa’ nu figl’. Quando, stavano insieme da un anno, giovani ma non tanto da giustificare l’ansia, Laura gli aveva detto E se fossi rimasta incinta?, e aveva avuto talmente paura delle conseguenze che senza che Andrea avesse potuto dire niente – certo, non che avesse saltato di gioia quando aveva sentito la parola incinta, non che l’avesse abbracciata –, senza che Andrea avesse potuto dire niente, Laura era andata in farmacia ed era tornata dopo aver preso la pillola del giorno dopo. Era rimasto interdetto, forse l’aveva giudicata. Era marzo. E a maggio era comparso Corteccia, nero, guardingo, incapace di restare solo, canino in modo disperante. Un gatto che rispondeva ai fischi.
Il futuro d’altronde non era roba per lui. Aveva fatto studi classici e insegnava greco, era un’autorità, e, a tratti, non gliene importava niente, andava in giro per convegni e si annoiava, formava studenti dicendo loro che senza memoria del passato non esiste immaginazione del futuro e probabilmente, mentre lo diceva e lo ripeteva, ne era convinto, ma no, il futuro non gli interessava. Si situava, come Borges, in un punto indefinito della decadenza dell’impero romano. Il suo sentimento piú persistente era il tramonto. Eppure dava la colpa a Laura per aver chiuso la porta verso il futuro prossimo, per non aver voluto un figlio loro, e sospettava che potesse averlo fatto altre volte, che non glielo avesse detto, che lui non se ne fosse accorto. Passava giorni a verificare, nel secchio dell’indifferenziato o della carta, la presenza di bugiardini, blister, cercava i segni di una effrazione alla loro coppia. Poi era arrivato Simone, il bambino già fatto che lo aveva baciato sulle labbra la seconda volta che lo aveva visto, cioè la prima volta utile, appena si era trovato a tiro. Il bambino che gli correva incontro a braccia larghe, che se si impauriva per qualcosa (un vento, il rombo di un trattore, un grido) o si emozionava (un vento, il rombo di un trattore, un grido), lo cercava con gli occhi e alzava una mano per farsela tenere, senza nemmeno voltare la testa, continuando a guardare quello che stava guardando, sicuro, sicuro e dunque seducente, che la mano sarebbe sempre stata accolta. Poi era arrivato Simone, che gli correva incontro e gli si arrampicava addosso, e Laura aveva cominciato a dire facciamo un figlio nostro. Ma a che punto un figlio diventa nostro?, o da che punto possiamo avere figli nostri?, perché ora sarebbero nostri e quando non li volevi erano solo tuoi? Simone era il vaso per tutti i fiori raccolti in solitari e meno solitari anni di studio, quando non si annoiava, e quando nella memoria rimaneva impressa qualsiasi cosa, di piú, Simone era la terra per quelli che lui credeva fiori recisi e invece si erano rivelati capaci di semi e germogli. Avrebbe voluto che Simone facesse l’astronauta e portasse le storie che gli aveva raccontato tra le stelle. E avrebbe voluto vederlo un’ultima volta prima di perdere gli occhi. Cieco come Tiresia punito per aver contraddetto Giunone e veggente per compensazione di Giove. Cieco come Polifemo per una trave nell’occhio. A Simone la storia del Gigante accecato da Nessuno era piaciuta. Non aveva capito subito il fatto del nome. Era piccolo. Si era acceso un’altra sigaretta e non era riuscito a fumarla, il fumo si fermava in gola e lo faceva starnutire.
Tu di me non hai capito niente. Laura era rimasta zitta a guardarlo, forse, per la prima volta da quando la conosceva, senza rabbia. Corteccia era saltato sul tavolo di vetro facendolo oscillare. Sei piú andato dal dentista?
La domanda che lo aveva perseguitato era Sono innamorato di Carla? E la risposta era No. Non lo era, nonostante lo fosse della vita sottile e degli occhi, di Simone, di come guidava la macchina e della macchina, della facilità con cui parcheggiava, della casa, della sorella, del suo profumo, del modo in cui, un giorno che gli era caduto un bottone dalla camicia, lei, entrata in un negozio, aveva chiesto ago e filo e glielo aveva riattaccato facendo il nodo con due sole dita. Probabilmente era innamorato anche di Claudio, il marito di Carla, anche se non ne era ricambiato. Era innamorato insomma del mondo di Carla. E di tutto ciò che conteneva. Pure le fogne. Hai idea di dove sia finita la mia maglietta?, Che hai detto?, ho l’acqua aperta. E comunque, è troppo facile dire Sono innamorato, bisognerebbe evitare. Lui ne aveva diffidato, aveva quasi trentacinque anni quando l’aveva incontrata, si era ripetuto che era facile ma, evidentemente, non abbastanza. La sua diffidenza verso quelle tre parole – sono innamorato di – era stata come quella di Biancaneve per la mela. E infatti, era finita allo stesso modo.
Si era addormentato senza sapere se sarebbe stato meglio svegliarsi o non svegliarsi e senza sapere, come tutti gli uomini ma piú di tutti, se quella notte sarebbe stata l’ultima.
Laura invece sapeva che avrebbe dovuto lasciarlo cinque anni prima o giú di lí, quando lui aveva incontrato Carla. Lui incontrava sempre un’altra, era bigamo, lui aveva avuto una relazione, duratura, anche mentre conviveva con la sua unica vera precedente fidanzata, la donna che avrebbe voluto sposare ma che non voleva sposarsi, la donna con cui avrebbe voluto un figlio ma che non voleva figli, la donna che voleva andare in vacanza ma lui no, perché programmare le vacanze è volgare. E infatti nemmeno loro erano mai andati in vacanza, avevano prolungato di qualche giorno le trasferte di lavoro, erano stati al mare a casa dei suoi, con Cristina, la sorella, che la guardava pensando non fosse il grande amore del fratello. Alla bambina, Agata, invece era piaciuta subito. Anche fisicamente. Le stava addosso, e Andrea l’aveva amata di piú grazie a quell’amore riflesso dalla nipote. Laura poteva accettare la versione di Cristina, convivere con la certezza di non essere il piú grande amore della vita di Andrea, ma per accettarlo, lui doveva esserci. E cosí era stato per qualche tempo, lui c’era e parlava. Lui, come i veri sentimentali, parlava di tutta la vita e non della prossima estate, parlava del futuro – tempo verbale che non utilizzava mai e che era certa non gli interessasse – e non della cena di domani sera. Almeno non con lei. Quando era arrivata Carla, Carla col bambino, Carla che le stava molto simpatica e capiva bene, guardandola, perché un uomo potesse trovarla attraente, di piú, perché Carla fosse attraente in sé, quando era arrivata Carla col bambino (dunque col futuro in braccio), Andrea aveva cominciato, improvvisamente, a prendere appuntamenti il mercoledí per il cinema, il venerdí mattina per il caffè, il martedí o il giovedí per le gite fuori porta. Giorni sempre infrasettimanali che facevano sí che lei, con un lavoro d’ufficio, un lavoro normale, non potesse mai andare. Forse, per la prima volta, in un anno di relazione e quasi convivenza, avrebbero prenotato qualche giorno di vacanza. E tutto grazie all’avvento di Carla. All’inizio quindi era stato consolante, Carla era apparsa come una facilitazione del quotidiano, perché quella programmazione implicava la loro e dunque Laura l’aveva accolta, nonostante tutto, come una benedizione. E invece Carla non era abbastanza per essere una benedizione, ma sufficiente per essere una maledizione. È una faccenda di proporzioni, si ripeteva Laura al buio, con le spalle appoggiate alla testiera del letto e gli occhi fissi sui piedi di Andrea che, di tanto in tanto, si muovevano sotto le lenzuola e parevano delfini che prima o poi sarebbero saltati sul velo di cotone. Avrebbe dovuto lasciarlo ma non lo aveva fatto, per pigrizia anche, perché nonostante fosse conscia di non essere il grande amore della vita di Andrea, era altrettanto certa che loro non si sarebbero feriti piú del dovuto. Meglio gli amori che i piú grandi amori. Però adesso Andrea aveva perso il cuore e i polmoni e per quanto non sembrasse essergli successo niente, non era quello di prima. Carla era nell’ordine delle cose, Simone anche, i tradimenti, gli affanni, gli asciugamani piegati male lo erano, le ansie per la carriera, la gelosia insopportabile perché accompagnata sempre al considerare lei un dato di fatto, un arredo umano, al darla per scontata, tutto era plausibile ma non restare con un uomo che, in meno di ventiquattro ore, aveva perso cuore e polmoni. Si può fare l’amore senza il cuore, senza i polmoni e senza tutto il resto? Non voleva pensarci ma non riusciva a dormire. Avrebbe dovuto lasciarlo prima che lui perdesse tutto o restare e vederlo scomparire senza poter fare niente? Adesso lasciarlo era impossibile e con tutta probabilità pensarci era inutile, l’avrebbe lasciata prima lui. Se avesse aspettato ancora, lui avrebbe perso le ghiandole lacrimali e non avrebbe potuto piangerla mentre si lasciavano. E forse a quel punto senza ghiandole lacrimali non avrebbe piú avuto gli occhi, occhi bellissimi verde marcio, aperti, curiosi, che tanto le piacevano. Forse era colpa sua, forse amarlo tanto lo aveva trasformato in uno di quei pupazzetti, orsacchiotti e giraffine, pesciolini e scimmiette di pezza che i bambini tengono sempre con sé per anni e senza i quali non riescono a dormire e poi – era successo anche a lei con la pecora Margherita –, quando uno se li ritrova in mano anni dopo, venti, trenta anni dopo, li vede nella loro realtà, sporchi e consunti, deformi spesso. Del perché i genitori tendano a conservare cose del genere invece, per esempio, del loro matrimonio, non sapeva dire. Del perché obblighino i figli alla contemplazione di cose deformate dall’amore piú che dal tempo, nemmeno. Vedere quei pupazzetti senza una gamba, con la lana bruciata, il torace forato, le orecchie pinzate e avere chiaro quanto male fa l’amore assoluto, il piú grande amore, e tenersene lontani.
Forse stava con Andrea per una forma di cautela, non voleva essere la pecora Margherita di nessuno, voleva un sentimento che la lasciasse integra, e cosí era stato. Andrea l’aveva lasciata integra. Ma il contrario era successo? Il suo amore che era piú violento e prepotente di quello di Andrea lo aveva forse trasformato nella pecora Margherita dell’età adulta, e dunque la soluzione a questa strana malattia, che mangiava e faceva scomparire gli uomini, o solo rendeva invisibili gli organi vitali, sarebbe stata – era – smettere di amarlo? Non si sentiva pronta a restare e non era mai stata pronta ad andarsene, ma adesso aveva paura, una paura nera. Avrebbe dovuto lasciarlo prima, perché niente di questo succedesse. O almeno, per non esserne testimone. O forse era una nuova malattia, che non dipendeva da lei – e sarebbe stato un sollievo –, una malattia di cui Andrea era il primo. Come spesso. Primo figlio, primo del corso di laurea, primo al dottorato italiano e a quello inglese, primo professore ordinario tra gli studiosi della sua generazione e tra quelli di due o tre generazioni precedenti che, mentre alcuni dei compagni iscritti con lui ancora dovevano discutere la tesi, già sedeva in senato accademico con le iniziali ricamate sul polsino sinistro. Forse era il primo di questa malattia che mangiava gli uomini dall’interno, un tarlo. O forse la malattia non faceva sparire tutti gli uomini ma solo il suo uomo. Non mi interessa se è una malattia, si era detta, a lei interessava che non scomparisse lui. Non voleva non poteva e non doveva scomparire.
Però sapeva farlo. In senso pratico e metaforico. Scoprire di riuscirci anche in senso fisico, lo aveva spaventato. Era sempre stato abile a scomparire. Dal nascondino in campagna dai nonni, e nelle cabine o sotto i pattini dismessi e dimenticati sulle spiagge durante l’inverno, nelle stanze di casa, a scuola. Dal nascondino alla vita adulta fatta di impegni non troppo distanti, tra i quali poteva giocare presenze e assenze cullando l’idea di essere sempre altrove, di non essere visto dunque di non essere vincolato. C’era sempre un motivo efficiente, verificabile, per cui poteva non essere in un posto, o esserci. Cosí, funambolo, si sentiva libero. Io non sono qui. Questo aveva desiderato, e messo in pratica, e forse adesso – risvegliandosi si era tastato ogni parte del corpo, aveva sentito Laura russare appena e si era rammaricato perché, molto probabilmente, lui non avrebbe russato mai piú –, forse adesso sarebbe scomparso davvero. Il coronamento di un’intera vita di esercizio, pratica, studio. Per Andrea Dileva è stata creata la prima cattedra mondiale di scomparsa. Attento a ciò che desideri.
Il calore. Acciambellato nella cesta di vimini, Corteccia era rimasto immobile nonostante l’eco dei passi risuonanti nell’ingresso. Quando Roxana aveva spalancato gli scuri del salone, aveva nascosto la testa dietro una zampa. La donna, dal canto suo, non gli aveva rivolto uno sguardo. Roxana aveva le chiavi della casa di Andrea, che chiamava Signorleva, da quando, sei anni prima, aveva accettato di sostituire, per i primi quindici giorni di agosto, il portiere del palazzo. Andrea era l’unico inquilino che, passando, si toccava il cappello di paglia in segno di saluto. Quel gesto e quel caldo l’avevano riportata, mattina dopo mattina, al 136 di calle Yapura a Lima dove il nonno trascorreva la controra seduto su una sedia fuori la porta, sul marciapiede. Forte di quella confidenza lo aveva invitato il giorno di Ferragosto a un picnic a Villa Sciarra con le sorelle, la figlia e i nipoti. A quel tempo il gatto non c’era, era arrivato l’anno dopo, portato da Signoralaura. A quel tempo il lavoro era meno faticoso, bisognava spolverare i libri, invece adesso c’era piú disordine, e peli di gatto ovunque. Se li avesse raccolti dalla prima volta, adesso avrebbe una casacchina di pelo di gatto, molto comoda durante l’inverno. Roma era come i tropici, d’estate si bruciava e d’inverno si gelava. Tornata in salotto, aveva notato la maglietta di Signorleva stretta tra le zampe del gatto, aveva imprecato – i gatti non le piacevano – e cercato di tirarla via. Ma il gatto aveva soffiato e ringhiato, cosí era andata nell’altra stanza, aveva preso la scopa e gliel’aveva tirata in testa le due volte sufficienti a fargli mollare la presa. Aprendo la maglietta, Roxana si era accorta che Corteccia aveva mangiato il «va» di Harvard, facendo un buco enorme al centro del petto. Non si poteva riparare. Aveva preso il cellulare, scattato una foto e l’aveva spedita a Pilar che viveva negli Stati Uniti e poteva comprarne una uguale. Poi l’aveva appallottolata come uno straccio e l’aveva buttata. Signorleva non si sarebbe mai accorto della sostituzione, pensava solo alle lingue morte e alle cosce della sua amica Carla. Fosse stata in Signoralaura gliene avrebbe dette tre. Lei gliele aveva dette. Anche se non erano affari suoi. Ma Roxana, quando vedeva le cose storte, le raddrizzava. Il giorno del picnic di Ferragosto, Signorleva era stato gentile con le sorelle, affettuoso con i bambini, e andandosene le aveva fatto una proposta di lavoro che lei aveva accettato, aggiungendo Buona la manioca fritta. Roxana aveva sospirato, Signorleva era davvero un bell’uomo dentro e fuori.
Dentro?, Sí, la prima volta che l’aveva incrociata, stava seduta in cucina e guardava fuori. Sedeva in casa di Signorleva, non era Laura e non l’aveva mai vista. Andrea è uscito, aveva detto senza voltarsi e senza che Roxana avesse fatto domande, cosí Roxana si era seduta di fronte a lei per studiarla e sincerarsi che non portasse via qualche pezzo di argenteria o un libro. Da quando lavorava da Signorleva aveva imparato che i libri possono valere piú degli anelli, anche se degli anelli sapeva valutare il prezzo e dei libri no. E a proposito di anelli, la donna di fronte ne aveva di notevoli, due di cui uno era una fede e l’altro una vera di brillanti neri – Roxana aveva alzato gli occhi al cielo perché le pareva una fascia a lutto, sua madre aveva portato un nastro nero al braccio per anni dopo la morte del padre, poi un giorno aveva perso il fiocco e tutti avevano fatto finta di dimenticarsene –, l’altro era una vera di brillanti neri e in mezzo c’era un’acquamarina grande come un’unghia e spessa come un polpastrello, una falangetta di pietre preziose staccata da una madonna incoronata e montata a giorno sul dito di quella che, senza guardarla in faccia, aveva detto Andrea è uscito, nonostante lo avesse capito da sola che Signorleva non c’era. Mi chiamo Carla, sono un’amica di Andrea. Io sono Roxana, faccio le pulizie qui, Lo so, Andrea mi ha detto che è bravissima. Roxana aveva fatto di tutto per non cedere a quella lusinga, ma la bocca doveva essersi piegata in un sorriso perché anche la donna – Carla, mi chiami Carla – aveva sorriso. Per riprendersi aveva detto, scortese, Signorleva non mi ha detto che veniva. Carla non si era scomposta, aveva pensato però che quella Roxana fosse o insicura o possessiva, o entrambe le cose, e che, in ogni caso, nel suo rapporto con Andrea c’era qualcosa di irrisolto. Carla pensava spesso che i rapporti tra uomini e donne fossero irrisolti, nonostante avesse cari amici maschi. E non che fosse andata a letto con tutti. A ogni modo, aveva già abbastanza irresolutezze di suo per occuparsi di quelle della donna di servizio. E cosí Roxana, per cui gli amici non esistevano. I maschi non servono alle confidenze, le aveva chiarito la madre, come pure la nonna, ed era certa da generazioni che l’amicizia tra maschi e femmine non fosse contemplata. Anche se da quando frequentava Signorleva capiva che certe volte un amico, qualsiasi sesso abbia, può essere di conforto. Signorleva le chiariva le questioni di contratti di affitto, bollette, aveva garantito per lei quando aveva voluto comprare una macchina, per le feste comandate scriveva bellissime cartoline agli zii dall’altra parte del mondo. Il punto però era, e cercava di riportare i pensieri in cucina, che la donna, Carla – seduta sullo sgabello, con le gambe lunghe, le mani grandi, l’acquamarina quarta falange sua e prima della Madonna di Guadalupe, la camicia coi polsini slacciati, gli occhiali rossi e gli occhi verdi, quel modo di accavallare le cosce perfetto per lo sgabello –, il punto era che la donna, Carla, non l’aveva mai vista prima. Mi deve scusare signora, aveva cominciato, e quella aveva ripetuto Carla, mi chiami Carla, che comunque era troppa confidenza, Mi deve scusare aveva ribadito, ma io non l’ho mai vista, Non le piacciono le novità?
Roxana non aveva avuto il tempo di rispondere, la serratura era scattata, era trasalita. Dopo il rumore di qualche passo, ma non singolo, come un passo aureolato da una eco, una piccola eco, era comparso in cucina Signorleva alla cui mano era appeso un bambino di circa tre anni. Roxana, lui è Simone, Simone lei è Roxana, ed era andata cosí, senza altre parole. Carla si era alzata, aveva preso il bambino e lui le aveva stretto le braccia intorno al collo, cosí che quella donna aveva indosso qualcosa di piú prezioso dell’anello con l’acquamarina, il futuro. Questo aveva pensato Roxana alla quale, per rispondere, No, le novità non piacevano, figuriamoci il futuro.
Rose e fiori, no. Non era innamorata di lui. Ricordava benissimo cosa significava essere innamorata. Di Claudio, per esempio, lo era stata. Andrea però era la persona piú affidabile che avesse incontrato. Non sapeva se lo fosse in generale, nei panni di Laura forse non avrebbe detto la stessa cosa, ma se stai con un uomo cosí te lo tieni comunque, i pregi sono incredibilmente superiori ai difetti. Carla aveva un approccio quantitativo ai difetti. Però non lo aveva desiderato. Ci aveva provato, e non lo aveva desiderato. Ma la sua compagnia sí. Era una certezza, come tutte le certezze aveva aspetti fideistici, e come tutte le fedi era passibile di eresia. Ovviamente le piacevano i modi, la cultura, il sapere cose stranissime con grande naturalezza, ma quello che la incantava, e se non la incantava la entusiasmava, e se non la entusiasmava la avvicinava, era la familiarità con il mondo e le persone che Andrea si portava dietro. Persone vive e morte, questioni pratiche e filosofiche, ristoranti stellati e contadini che vendevano frutta e verdura, Andrea parlava con tutti allo stesso modo, lasciando a tutti l’impressione di essere il centro della sua attenzione. E probabilmente nei primi dieci o venti secondi era davvero cosí. Angelica una volta le aveva detto La sua intelligenza non fa sentire stupido nessuno. Da questo punto di vista era fatale, ma era fatale perché ascoltava, domandava compito e ossessivo, come i bambini prendeva fissazioni e le portava avanti, rapiva perché dava l’impressione di voler sapere ogni cosa di te, che prima di te la sua vita fosse meno interessante. E tu ci credevi, perché capivi che era sincero. Ed era sincero, ma la sua sincerità era vasta nello spazio quanto breve nel tempo. Dieci o venti secondi, appunto. Lo aveva capito a Gaeta, si conoscevano da pochi mesi. Si erano dati un bacio in campagna da lei, un pomeriggio, sul prato, Simone dormiva, erano andati un po’ oltre, poi lei aveva detto Basta, lui non aveva insistito e prima di ammutolirsi aveva detto Voglio portarti a Gaeta, andiamo e torniamo, un po’ piú di mezza giornata. Cosí, due o tre settimane dopo, avevano guidato lungo la Pontina, si erano fermati a mangiare sulla costa, avevano passeggiato parlando del tempo, di Simone, delle famiglie, di Claudio, di Laura, dei nonni, dei bisnonni, dei parenti lontani, delle gomme da masticare, passeggiavano e si conoscevano e guardavano le barche nel porto. L’Arenauta, si chiamava il posto. Avevano mangiato pane e formaggio perché, in realtà, sarebbe stato chiuso. Uno dei pasti preferiti di Carla, aveva scoperto lui, e anche che conosceva già Gaeta. Mentre camminavano sul molo, l’attenzione di Andrea era stata attratta da un uomo che passava il coppale su una barca di legno. Che fa?, Passa il coppale, Che cos’è?, Sei nato sul mare e non lo sai?, Non ancora, Sta lavorando, lascialo stare!, lo aveva detto ridendo, e lui aveva accelerato il passo sbarazzino. Carla non li aveva raggiunti subito, si era seduta su una panchina, aveva aperto ancora due bottoni della camicia, si era tolta gli occhiali da sole e aveva puntato il mento al cielo. Avrebbe potuto essere estate, dal caldo sulla pelle avrebbe potuto essere giugno. E si chiedeva, senza cercare di scavarsi troppo dentro, se, per caso, sembrasse estate perché c’era Andrea. Se, per caso, sembrasse giugno perché lui, senza saperlo, l’aveva portata nel primo posto dove era stata amata. Cosí, senza richiudere la camicia, senza occhiali da sole, senza altre domande, si era alzata e lo aveva raggiunto. Gli aveva toccato il braccio con una mano, si era guardata la fede all’anulare e aveva sorriso. Andrea non aveva reagito, cosa che l’aveva messa di cattivo umore, come quando entrava in una stanza, e salutava tutti e non lei, e pure succedeva, sapeva che era una forma di timidezza, ma non bisogna mai dimenticare l’educazione, come ripeteva suo nonno. E l’amore, Carla sapeva che Andrea era innamorato di lei. E non avrebbe mai voluto perdere la sua attenzione. È quel tepore che si perde quando nessuno si innamora piú di noi? Era assorto ad ascoltare l’uomo del coppale che raccontava Quando ero bambino, nella casa di fronte là, proprio là professo’, viveva un uomo, spalle piccole ma piedi grandi professo’, un intagliatore, non maestro d’ascia come me e la famiglia mia, ma intagliatore di polene e scalmi e certi remi che la gente si portava in città ma che a mare non servivano proprio a niente, un intagliatore cieco che però si faceva capire, col bastone e con un fischietto, non ci vedeva professo’ ma ch’ purmon’ chi teniv’, e io andavo e mi dava le caramelle all’anice quando gli portavo il trinciato, o qualche ferro da lavoro, ed era bravo, bravo eh, teneva gli occhi nelle dita, E viveva solo?, Da solo professo’, perciò chiamava a me e a qualche altro bambino.
Su quella causale, l’uomo del coppale si era interrotto, e Carla ne aveva incrociato gli occhi scuri fissi fissi nonostante il vento, Signora, ma voi siete di qua, ci conosciamo. Poi però senza aspettare risposta, era tornato a rivolgersi ad Andrea, con complicità e aria di sfida, abbassando la voce a un fiato perché lei non sentisse, ma era impossibile perché erano troppo vicini per qualsiasi discrezione. L’uomo aveva detto Quando è morto l’ho rasato io.
Andrea si era illuminato, aveva cominciato a chiedere del morto, dei proprietari della casa, del costo della medesima, se la francese che viveva nello stesso stabile fosse per caso la stessa che dava il nome al bar sotto i pini. Poi, sazio, era tornato a guardare lei, aveva sorriso all’uomo, lo aveva ringraziato e si erano rimessi in macchina per Roma. Carla aveva dormito tutto il viaggio, un po’ scompostamente, rigirandosi, mugolando come per un improvviso fastidio alla schiena. La guardava e sorrideva, perciò era andato piano, anche se preferiva correre. Si chiedeva – e presto si era accorto quanto le risposte di lei fossero piú evasive di quelle di qualsiasi altro –, si chiedeva che cosa avesse di diverso da Laura, o da altre donne di cui si era invaghito, e anche se questo fascino non stesse annidato, come un serpente, un ragno, un coniglio, nei gesti mancati, nell’aver messo tra loro un altro corpo, quello del bambino.
Andrea raccontava i pensieri come altri raccontano avventure. All’inizio quel modo di fare l’aveva entusiasmata, l’aveva riempita molto di piú di quanto, pensava, avrebbe fatto il suo cazzo. Poi si era ricreduta, ma a quel punto il sesso era diventato complicato, e il gioco erotico delle parole era qualcosa che non avrebbe avuto con nessun altro. E poi Claudio era nato per fare il padre, non avrebbe mai voluto separarlo da Simone. Ad Andrea era sempre piaciuta questa sicurezza delle donne, coscienza ancestrale, nel saper distinguere un uomo che può essere un buon padre, addirittura eccellente, e un uomo come lui – Carla lo diceva spesso, sorridendo, ma con tono freddo –, un uomo che può essere solo un figlio. Eppure figlio non si sentiva piú, con lei si sentiva adulto. La differenza era che Carla lo voleva fino a un certo punto, e lui la voleva da un certo punto in poi. Dunque, per loro due, quel punto era l’unica possibilità. E, solita storia, non c’è bisogno di essere scienziati per sapere che sui punti non si costruisce niente. Eppure, eppure qualcosa c’era. I giorni insieme. Le mezze ore in macchina a cantare. C’erano, sempre piú timidi, pranzi al mare o venerdí e sabato in campagna, e meno timidi cinema o musei o cene da soli o con amici. C’era il profumo, c’era Simone che gli voleva bene e che non poteva tradire scomparendo dalla sua vita, nonostante questo scomparire fosse improvvisamente passato dal mondo della volontà a quello della possibilità. Il messaggio di Andrea diceva Non ho piú i polmoni.
Certo, aveva già visto l’uomo del coppale. Lui però non l’aveva riconosciuta, o forse sí, ma non fino in fondo. O forse era offeso, come tutti lí, perché era andata via da un giorno all’altro, trent’anni prima, senza salutare, insieme a quella che i genitori pensavano fosse la sua vergogna.
Carla era andata alla finestra e aveva detto, al vetro, Adesso basta. Il vetro si era appannato. Adesso basta, è come perdere telefono e portafogli in una botta sola, che, per un uomo che non porta la borsa, è piú che improbabile. Sei insopportabile, aveva digitato, ed era entrata in salotto per prendere un bicchiere di gin, secco. Claudio dormiva sul divano, la luce dello schermo, azzurra, gli riverberava sul viso, sembrava sott’acqua. Lei aveva gonfiato le guance come per tuffarsi, ma poi aveva sbuffato. Ti odio, devo dirlo a qualcuno prima di impazzire.
Angelica, per esempio. Angelica sosteneva che Carla fosse omosessuale. Ma il teorema era semplice. Donna intelligente, dunque bella, dunque omosessuale. Una specie di catena induttiva che faceva sí, alla fine, che tutte le donne che le piacevano, e forse tutte le donne, fossero omosessuali. Angelica, come certe quarantenni professionalmente soddisfatte, e il cui tempo libero si riduce al sonno, declinava le proprie relazioni sentimentali al passato o all’imperfetto. Angelica era stata innamorata o era ancora innamorata, era uscita o usciva, ma al presente, niente. C’erano ragazze, bionde per lo piú, che ogni tanto comparivano come raggi di sole, e scomparivano, per rimanere nello stesso ambito metaforico, al tramonto, talvolta tornavano, talvolta cambiavano, talvolta – e pareva di essere passati a latitudini artiche – c’era un ciclo di luce semestrale. Angelica sosteneva di aver incontrato Carla, qualche anno prima che lui la conoscesse, in un bar gay, con una donna dai capelli lunghi che le stava molto vicina. Ma si sono baciate?, Come se. E su quel come se rideva, rumorosamente, forse per ricordarsi, nonostante il lavoro e il resto, che la vita fa rumore. Cosí nello studio di Angelica, seduto sul davanzale, fumando una sigaretta, senza piú poter aspirare, stava raccontando ancora una volta di Gaeta e di Carla. Angelica guardava le lastre, sconsolata. Pensi che io possa morire da un momento all’altro?, Andrea, tutti, non tutti con le stesse probabilità, possiamo morire da un momento all’altro. Gli era sempre piaciuto ascoltare Angelica, soprattutto perché Angelica non riusciva mai a pensare una cosa netta, a dire sí o no. Nel cervello di Angelica, pensava Andrea, i pensieri non nascevano come rose, ma come glicini, o bocche di leone, o come giacinti. I pensieri di Angelica nascevano insomma a grappolo. Perché ridi?, Perché penso che mentre dici Tutti, non tutti con le stesse probabilità, nella tua testa scenda un telo, tipo proiezione casalinga, sul quale scorrono le statistiche di morte per incidente in varie parti del mondo, Non sei spiritoso, io non capisco cosa ti sta succedendo e tu mi fai i fumetti in testa. Andrea, guardando fuori, si era chiesto come sarebbe stato non avere piú gli occhi e le orecchie, come sarebbe stato essere una scatola chiusa a una temperatura di circa trentasei gradi, senza febbre, nella quale il cibo marcisce. Non sapendo rispondere, lo aveva chiesto a lei. Il problema non è morire all’improvviso, il problema è non poter morire. Che vuoi dire? L’aveva incalzata con la durezza repentina che spesso aveva spaventato Laura e qualche volta anche Carla. O forse Laura non si era mai davvero spaventata, Laura era talmente decisa a non spaventarsi, e talmente capace a non cambiare espressione che alla fine si era sempre spaventato lui. Si era spaventato quando lei gli aveva detto che lo amava, si era spaventato quando lei aveva lasciato il suo ragazzo per mettersi con lui, si era spaventato quando lei aveva accettato le chiavi di casa, si era spaventato la prima volta che avevano fatto l’amore perché non pensava lei scopasse con quella foga. Prendendosi ciò che desiderava, quando lo desiderava, senza chiedere permesso, decisa, indifferente anche alla stanchezza. Poi invece si erano stancati, c’erano stati periodi senza nemmeno sfiorarsi, e altri pieni di tenerezza, poi il sesso era tornato e adesso, senza cuore e senza polmoni, forse i loro corpi avrebbero dato prova, ancora una volta, di essere piú versatili dell’immaginazione e delle paure, piú complici. Ma non lo sapeva, e non aveva nessuno con cui confrontarsi. Continuava a pensarsi come il primo essere umano al quale succedeva questa cosa, e dunque di essere solo. Non sapeva dove stava andando, né se sarebbe tornato. Poi aveva sfogliato, con l’immaginazione, uno dei manuali di storia e si era quietato, erano meno di duecento anni che le esplorazioni prevedevano il ritorno, prima si chiamavano migrazioni. Si chiamano ancora cosí per molti, solo che non riconosciamo la fattispecie. Nel futuro, quando qualche umano dovrà partire per arrivare in fondo allo spazio, anche lí, il viaggio non prevederà ritorno. Il suo viaggio somigliava a certi viaggi del passato e del futuro, ma non aveva niente a che fare con il presente. Era la mancanza di presente che lo legava ad Angelica? E quanto aveva inciso sull’omosessualità di Angelica l’essere stata con lui? Quando glielo aveva domandato, Angelica era scoppiata a ridere. L’amor proprio non è scomparso, ne possiamo dedurre che non è un organo vitale.
Non era nemmeno un grande viaggiatore. Aveva paura degli aerei, dei microbi, della mancanza di acqua corrente, motivo per cui – e ancora aveva avuto paura di Laura – Laura aveva cominciato a partire con un’amica, simpatica, occhi chiari molto belli, intelligente e timida. E lui la aspettava quando rientrava, felice, eccitato qualche volta, e la sentiva raccontare, e guardava foto di lei in pantaloncini corti e canottiera, e si improvvisava esegeta di improbabili manifesti cinematografici e di miti in lingue e mitologie sconosciute, e ridevano, soprattutto ridevano, poi si baciavano, poi facevano l’amore, poi tornavano alle loro vite, dapprima dormendo abbracciati, poi ciascuno dalla parte del letto che si era scelta, con un piede che toccava una gamba, o un braccio una schiena, come in quel gioco da ragazzi, Twister, dove tutti potevano strusciarsi con tutti senza sentirsi strani. Angelica voleva sempre giocare a Twister, per intrecciarsi con Maddalena o altre ragazze che via via le erano piaciute al liceo, o forse non era davvero successo, ma lo avevano raccontato talmente spesso negli anni che era diventato vero. Guardando fuori dalla finestra, cercava di immagazzinare espressioni, suoni, risate, fruscii di lenzuola, cerniere di valigie che si aprivano, macchine fotografiche che scattavano, telefoni che squillavano. Gambe che si aprivano, zip che venivano tirate giú, reggiseni che si slacciavano, stilografiche che grattavano, il ghiaccio che si incrinava nel bicchiere di gin, la pasta che bolliva, uno starnuto, lo stridio delle corde che tengono i vaporetti attaccati all’imbarcadero nel canale di Santa Marta, la moneta dimenticata nel pantalone che gira in lavatrice, che cade, ricade e tintinna nel cestello. Nemmeno il pensiero di non poter vedere o sentire piú niente gli faceva rimpiangere i viaggi che non aveva fatto, rimpiangeva invece di non poter ascoltare i viaggi di Laura, i racconti. Improvvisamente, come un sollievo, si era detto che una volta persi tutti i sensi non sarebbe piú stato in grado di distinguere tra vita e morte, dunque, poco importava. Poter morire o non poter morire, non lo avrebbe mai saputo. Purtroppo lui coi lati positivi non si era mai rincuorato, figuriamoci adesso. Angelica si guardava nel vetro come in uno specchio. Sai quella cosa che dice sempre Carla sulla forma del corpo femminile?, Quella dei fianchi?, Sí, quella che non esiste una donna dipinta che non abbia fianchi. Io i miei li odio, se fosse possibile farmi scomparire i fianchi, lo farei. Occhi negli occhi erano stati indecisi sul da farsi, poi avevano sorriso. Fino a ieri l’altro, alle diciannove bevevano una birra in estate e un bicchiere di vino in inverno, adesso l’appuntamento si era spostato nello studio di Angelica. E infatti, Angelica era tornata a guardare le lastre e Andrea a guardare fuori.
Non era cambiato nulla. Dopo aver dormito come solo da bambino, o forse come mai, aveva trovato gli occhi di Laura aperti, e un po’ lucidi. Le aveva allungato una mano sul volto e accarezzato una guancia. Penso di svegliarmi e non trovarti piú, Spero succeda, Ma che dici?, Sarebbe meglio non poter morire? Laura si era messa a sedere con le gambe incrociate in quella posizione che, la prima volta che l’aveva vista, non sapeva sarebbe diventata caratteristica, solita, non sapeva, la prima volta che l’aveva vista, che quel gesto, tra tanti altri, gli avrebbe suscitato passione, e col passare degli anni, tenerezza. Cosí, la mano rimasta orfana della guancia di Laura si era spostata sulle ginocchia e poi aveva cominciato a percorrere, con delicatezza, l’interno delle cosce. Non si era scostata, come la mattina del cuore perduto. Quante vasche in piscina, quanti chilometri di corsa, quante ore di ginnastica artistica c’erano volute, dai sette anni ai trentanove, per renderle le cosce lisce, e quante mani prima di lui c’erano passate lisciandole ancora, e quante ne sarebbero passate quando anche le sue mani, nocca dopo nocca, sarebbero svanite? Sono qui, aveva detto Laura. Poi si erano baciati, e Laura gli aveva leccato il collo, poi lo sterno, poi si era fermata col naso nell’ombelico e gli aveva poggiato l’orecchio sulla pancia. Poi era suonata la sveglia e Andrea aveva detto Vado in piscina, e lei, certa che un milione di altre mattine ci sarebbero state, aveva risposto allegra Ti accompagno un pezzo, e mi offri la colazione da Roscioli, Sei sicura?, è prestissimo, Ho le chiavi dell’ufficio. Si erano baciati. Perché la normalità è cosí, aveva capito. La normalità è improvvisa.
Con un guizzo talmente rapido da lasciarla stupita di sé, Angelica nella prima luce del giorno aveva aperto un vecchio libro che il suo professore, temuto cattedratico di anatomia, le aveva regalato poche settimane dopo la discussione del dottorato. Non era un testo di medicina, non della medicina come la intendeva lei, o come l’aveva intesa il professore. Un testo rinascimentale, in un italiano aurorale, mezzo latino, mezzo francese, pieno di illustrazioni. Come tutti i testi scientifici fino a quando la teoria non aveva preso il posto di qualsiasi cosa. Come tutti i testi scientifici era, a prima vista, una sequenza di casi clinici, e di operazioni dalle quali chi leggeva doveva dedurre se non una cura, una pratica. Angelica lo usava come soprammobile. D’estate quando c’era vento, come fermaporte, vista la mole. Anno dopo anno, lo apriva per controllare se la muffa non avesse mangiato altri pezzi di pagine, morsicato le parole e, con le parole, il senso. Il professore le aveva detto È un testo prezioso, e di averlo ricevuto lui stesso dal suo professore di anatomia, e che avrebbe dovuto tenerlo per lo studente migliore quando sarebbe arrivato il tempo. Angelica, quando lo aveva accettato, non aveva specificato al professore il suo fermo desiderio di non dedicarsi alla ricerca pura. Lui c’era rimasto male, ma non aveva chiesto indietro il libro. Cosí il tomo stava lí, a impolverarsi un poco – la donna delle pulizie, sempre Roxana, gliel’aveva presentata Andrea e infatti per Andrea aveva tutte le disponibilità e per lei solo il lunedí, dalle 10.15 alle 13 –, il tomo stava lí a impolverarsi un poco nello studio di una persona che comunque lo amava e lo consultava, di tanto in tanto, per gioco. Lí aveva letto la storia che le era tornata in mente come un sogno. Alla fine del capitolo due c’era l’elenco dei malfunzionamenti renali, e l’autore analizzava il caso di un uomo al quale erano stati asportati entrambi i reni e che aveva vissuto per cinque anni senza, perché, in un modo che non veniva spiegato ma descritto, gli organi deputati alla digestione avevano continuato a funzionare come se i reni ci fossero. L’autore indicava il peso dell’uomo e dei reni asportati – perché poi avessero asportato al povero cristo entrambi i reni nell’anno di grazia 1532, non era dato saperlo, e nemmeno era tanto interessante adesso – e metteva in un post scriptum il peso dell’uomo e di ciascuno dei suoi organi quando, dopo cinque anni, era morto. Attraverso strani calcoli, incastri di tare e tabelle di oscura e vaga natura statistica (prima che le statistiche fossero definite tali), l’autore ipotizzava che gli organi rimanenti assumendo il peso dei reni ne avevano assunto la funzione. Non riusciva a spiegarselo se non attraverso una teoria che Angelica, senza un latino sufficiente per poter essere certa di ciò che leggeva, aveva tradotto come organo fantasma. Gli altri organi dell’uomo senza reni, avendo collaborato con reni perfetti, avevano continuato a mimarne il funzionamento. Aveva richiuso il libro. Non aveva senso, gli organi umani, cervello a parte, non hanno neuroni specchio. Eppure l’uomo era campato. Arrigo si chiamava, era vissuto a lungo, trentacinque anni, in perfetto accordo con l’età media del tempo. Gli ultimi cinque, senza reni. D’altro canto, le uniche cose impossibili sono i miracoli. E poiché solo i miracoli sono impossibili, per Arrigo vivo senza reni e per Andrea vivo senza cuore e polmoni, doveva esserci un’altra spiegazione. Angelica aveva riaperto il libro e lasciato una sigaretta tra le pagine, come segnalibro, poi era tornata a letto ripetendo al ritmo di Chi ha rubato la marmellata? Chi lo sa?
Organi fantasma Organi specchio Organi fantasma Organi specchio.
E il letto, anche in quell’alba, era vuoto.
In piscina non c’era nessuno. Non che avesse voglia di nuotare, ma non gli piaceva mancare agli appuntamenti. Era una postura per quelli che come lui non avevano orari fissi, tranne le lezioni in certi semestri. Andrea si imponeva orari, e voleva rispettarli. Era una forma educativa, un badge interiore, una versione post-capitalistica del super-io. Non era mai piú andato dal dentista, però gli aveva mandato un messaggio contrito. Lui aveva risposto di non preoccuparsi e fissare con la segretaria per la settimana successiva. Non aveva mai piú chiamato la segretaria. Avrebbe avuto denti da curare tra sette giorni? O anche le carie sarebbero state questioni obsolete per mancanza di denti? Si era tuffato con cautela e con cautela aveva cominciato a galleggiare – galleggiava meno – e a fare qualche bracciata. Era piú faticoso certo, ma l’acqua gli rimandava una sensazione di normalità, il corpo, sfuggendo al peso, era già assente nell’acqua. La luce, filtrante dai grandi finestroni di ferro e vetro, aumentava a ogni vasca. Andrea si sentiva il dimmer di una lampada, e si sarebbe divertito completamente se non si fosse accorto che quando le orecchie andavano sott’acqua tutto rimaneva silenzioso mentre, per tutta la vita, si era sentito respirare. Come se la luce gli fosse aumentata anche nella testa, aveva pensato che essere senza polmoni significava non poter affogare, cosí, arrivato al bordo, si era tirato su con le braccia ed era andato a prendere i pesi per le immersioni. Il guardiano gli aveva fatto un cenno di assenso, l’altro guardiano dormiva steso sugli spalti. Con la cintura di pesi si era tuffato e, spalle alle pareti della vasca, si era seduto, sotto quattro metri d’acqua, nella corsia cinque. Aveva aperto la bocca come per prendere aria e si era riempito d’acqua, all’inizio era stato strano, poi ci si era abituato, anche se il cloro gli pizzicava la gola. Era un pesce senza branchie e senza pinne, una nuova specie. Alzando la testa poteva vedere il trampolino. Non era mai stato bravo nei tuffi, ma adesso poteva respirare sott’acqua, o comunque l’effetto era quello. Se gli fosse successo da bambino avrebbe potuto esplorare tutta la costa senza bisogno di barche, e sua madre non si sarebbe mai preoccupata perché lui le avrebbe dimostrato che non poteva morire affogato, sarebbe sceso nelle profondità e avrebbe riportato in superficie piovre grandi come ombrelli da cucinare sulla piastra. Aveva guardato ancora piú in alto, il soffitto della palestra, con le luci spente, oltre la superficie d’acqua, il soffitto pareva sommerso, cosí gli spalti, cosí le finestre, cosí il cielo oltre le finestre. Cosí i gabbiani che di tanto in tanto passavano. Al quarto minuto aveva chiuso gli occhi e si era addormentato, finalmente degno del mondo subacqueo di Poseidone e degli Snorky. Era tranquillità il sentimento di quelli che rimanevano in apnea per minuti e minuti, era tranquillità il sentimento dei bambini nella pancia della madre? Se lui e Laura avessero avuto un figlio, sarebbero stati in grado di garantire al bambino, e poi al ragazzo e poi all’uomo, la stessa quiete che provava adesso che aveva perso cuore e polmoni? Quando aveva rialzato gli occhi aveva visto, oltre la superficie azzurra, le facce attonite dei guardiani, il rumeno e il romano, che agitavano le braccia, aveva sollevato anche lui il braccio in segno di saluto, poi si era mosso, era arrivato alla scaletta, si era tolto la cintura dei piombi e l’aveva restituita con un Grazie. Il rumeno, vedendolo, aveva fatto qualche passo indietro e poi era scappato. A professo’, aveva detto l’altro, Bogdan dice che siete uno che non è né morto né vivo, che ar paese suo ce ne stanno tanti, e pure me pare n’esagerazione, io mo’ volevo solo sape’ come avete fatto, ce stanno da fa’ scommesse, ce facciamo le piotte da riempi’ sta vasca, professo’, poi smezzamo. Mai visto uno cosí.
Carla non aveva mai dormito con nessuno. E anche quella mattina, aprendo gli occhi, aveva contemplato con soddisfazione il grande letto vuoto. Con una mano aveva sistemato il cuscino dietro la testa e con l’altra afferrato il libro che stava leggendo. Lo Scimmiotto, un regalo di Andrea che non faceva che portare libri a lei e a Simone. Era la storia di una scimmia di pietra partorita da una montagna che ne combina di ogni colore fino a quando per espiare deve scortare un prete dalla Cina all’India.
Quando aveva incontrato Andrea non avrebbe mai pensato che sarebbe stato tanto importante per lei e la sua vita, Andrea le aveva mostrato come fosse possibile stare insieme senza rimanere offesi dalla presenza dell’altro, dai desideri e dai capricci. Stare con Andrea era come non stare con nessuno, questo ripeteva incantata ogni volta che trascorrevano mezzo pomeriggio insieme. Anche se poi Andrea diceva Ma noi non stiamo insieme, e lei si adombrava. Anche se poi Andrea diceva che a lei piaceva star da sola per andare veloce, ma veloci di solito non si va lontano. Poi però lui si era fatto insistente nel desiderare ciò che, cercava di spiegarglielo, entrambi avevano già altrove, Laura lui e Claudio lei, e di dissuaderlo dal trasformare qualcosa di unico e speciale, in quello che avevano tutti. Le corna?, aveva domandato ironico. Lei gli aveva risposto con uno sbuffo, ravviandosi i capelli. Sempre ravviandosi i capelli aveva pensato che conosceva già Lo Scimmiotto. Sí, una scimmia con un bastone che si allungava fino al cielo, un maiale dalle forme antropomorfe, un prete indifeso, una prostituta. In un cartone animato poteva esserci una prostituta? Che quel cartone, il suo preferito durante l’infanzia, fosse ispirato al classico cinese? Per non rimanere offesi dalla presenza, dai desideri e dai capricci, bastava non scopare. Cosí sembrava. Che nome si poteva inventare per due che non scopano ma non sono solo amici. Inoltre, pur disinteressandosi del nome, cosa avevano loro due, cosa c’era tra loro due? Non riusciva a capire i termini della questione forse perché sapeva di non essere sincera.
Quel giorno a Gaeta, in spiaggia c’erano famiglie e bambini e cani, e le era dispiaciuto non aver portato Simone, ma Simone era col padre a giocare a rugby e si sarebbe divertito. Andrea si era tolto le scarpe, si era arrotolato i pantaloni alla caviglia ed era entrato in acqua reggendo scarpe e calzini in una mano e usando l’altra come pettine per i capelli scompigliati dal vento. Perché non aveva lasciato le scarpe sulla spiaggia? Era bello. Un uomo bello e dolce, un uomo colto e indaffarato, che le stava davanti come un ragazzo qualsiasi, in un giorno lavorativo di un mese altrettanto, con l’aria leggera di uno che non ha niente da fare. Quando si era voltato e l’aveva vista, aveva abbassato la testa e le era andato incontro, poi le si era seduto accanto e le aveva messo un braccio intorno alle spalle. Ti piace qui?, Molto, Stai bene con me?, Sí, è come stare soli, nemmeno con mio figlio mi sento cosí. Andrea le aveva sorriso, aveva tolto il braccio dalla spalla, raccolto le ginocchia al petto e si era lasciato cadere sulla sabbia, aveva fissato il cielo. La nuvola sopra di me ha l’aspetto di una teiera, aveva detto. Avrebbe voluto baciarlo, anche lei fantasticava sempre sulla forma delle nuvole, ma non lo aveva fatto, quel bacio, che le era costato trattenere piú di quanto sia difficile e fastidioso trattenere la pipí, li avrebbe portati entrambi in una relazione. E lei aveva già un matrimonio e un bambino, e nessuna intenzione di fare quello che fanno tutti. Le corna?, aveva ripetuto Andrea scoppiando a ridere ma forse un po’ nervoso. Quindi, aveva chiosato, mentre il riso si smorzava e la nuvola da teiera diventava Erinni, O corna o divorzio perché, comunque, non si esce da quello che fanno tutti.
No, impossibile. Quando era lucida, Laura conosceva la propria condanna. Si occupava di separazioni, perché avrebbe dovuto sfuggire al destino della maggior parte delle coppie? Aveva sinceramente pensato che lei e Andrea sarebbero rimasti insieme per sempre? O lo aveva deciso prima, ma ora aveva cambiato idea? Ed era importante adesso che a lui – il noi lo infastidiva – e dunque a lei, fosse successa questa cosa degli organi, della quale non si poteva neppure parlare e che non si sapeva dove li avrebbe condotti? La notte prima, rigirandosi nel letto, Andrea aveva detto Come vuoi che finisca?, quasi gli organi perduti gli avessero acuito i sensi. Tutto poteva essere, anche che avesse acquisito la capacità di leggere i pensieri. Non sarebbe stata piú libera nemmeno di mandarlo affanculo da sola nella sua testa. Aveva chiuso gli occhi sperando lui avesse la grazia di credere che davvero stesse dormendo. O facesse finta, che poi è la stessa cosa. Le amiche quando parlavano di Carla, piú precisamente di quella-stronza-di-Carla, le dicevano di andarsene. Prova ad andartene e vedi come torna. Andare dove?, rispondeva ansiosa chiedendo una sigaretta, Hai tutti gli uomini che ti pare, perché rimanere con uno che passa il tempo con un’altra e suo figlio? A questa domanda, Laura non sapeva rispondere. Andrea era sempre stato bravo a evidenziare il senso della propria eccezionalità. In sei anni, poi – di cui cinque con Carla, sottolineavano le amiche – entrambi erano molto cambiati. Andrea era diventato professore ordinario, poi direttore di dipartimento, poi aveva cominciato a scrivere articoli su «Repubblica» un giorno sí e l’altro anche, poi conduceva un programma radio, poi era invitato in moltissime università in Europa e in America a tenere lezioni, raccoglieva insomma ciò che aveva seminato quando – tipico degli studiosi – era invisibile agli occhi del mondo. Era successo anche a lei d’altronde, ma era come se ciò che capitava ad Andrea fosse di piú. Sei la prima a farla lunga, dicevano le amiche, canzonandola e accendendole la sigaretta – Laura si diceva di non fumare semplicemente perché non comprava le sigarette –, Sei la prima a farla lunga, insistevano, e lei un po’ lo sapeva, un po’ credeva che tutte loro la invidiassero perché Andrea aveva scelto lei. Ma perché la gente non si limita ad abbracciare un essere umano che non riesce piú a stare in coppia?, perché si schiera, parteggia, commenta e giudica?, perché la gente, anche se interrogata, non si fa i cazzi suoi quando si tratta delle coppie degli altri?
Te lo dico perché sono tua amica.
Te lo dico perché ci sono già passato.
Te lo dico perché alla fine gli uomini sono tutti uguali.
Te lo dico perché le donne, alla fine, sono tutte uguali.
Te lo dico perché ti voglio bene.
Il bene è silenzioso, non si vede e non si sente, il bene non chiacchiera.
Con me – si diceva sempre con gli occhi chiusi, e adesso che il respiro dell’uomo a fianco era diventato un’idea di respiro, un’intuizione –, con me si sente libero di fare ciò che crede, che lo fa sentire meglio. Ma che la libertà fosse accarezzare il corpo di un’altra, l’aveva sempre fatta soffrire. Posso tollerarlo, si diceva. Insomma, potrei se lui ci fosse, tutto intero, invece perde pezzi. Da subito, avrebbe voluto piú candore per credergli quando diceva Non vado a letto con Carla, ed essere piú stupida per accontentarsi di quella conferma. Poi si era detta che se quella era la verità, non c’era da stare tranquilli. Sono forse la tua puttana e quella non la scopi perché è la madonna? Non lo era. Allora è una cazzo di gattamorta di merda. Carla aveva i fianchi, Carla aveva gli occhi chiari, Carla aveva i modi, Carla vestiva in maniera inappuntabile, Carla soprattutto aveva una famiglia che lei non aveva avuto il tempo o il coraggio di fare. Aveva sentito le palpebre imbottirsi di lacrime. Anche lei e Andrea avrebbero potuto avere un figlio, solo che lei non si era fidata di lui. Lo capisco amore mio, l’aveva consolata la madre quando aveva pianto, disperata, per non sentirsi pronta ad avere un figlio con Andrea, Sí, certo, è uno che c’è ma domani chissà dietro a quale formula sta correndo, in una lingua morta perduta e ritrovata. Mettendosi a sedere, asciugandosi gli occhi, si era confessata che se dell’incomprensione di sua madre negli anni si era fatta una ragione, della sua comprensione non sapeva che farne.
Niente. Nessuna. Non una ragione per cui Andrea fosse in vita. Avrebbe dovuto parlarne con un collega di cui si fidava. E se lo avessero internato per motivi di studio? Se fosse diventato un caso clinico da mettere in formalina come non se ne vedevano dai musei di fine Ottocento? Tutto ciò che le lastre mostravano, Angelica non l’aveva mai visto. Aveva osservato il fegato fare le funzioni della milza, un occhio compensare l’altro, ma essere in vita senza cuore e polmoni andava oltre l’umana comprensione e conoscenza. Ma cosa c’è oltre l’umana comprensione e conoscenza? Niente, la comprensione e la conoscenza nascono con l’uomo. Come il tempo con l’universo. Era tuttavia disposta ad ammettere di non sapere tutto riguardo al sistema corpo. L’essere umano era forse l’insieme di altri esseri viventi e delle loro contraddizioni? Di solito, quando qualcosa non torna, bisogna allargare la definizione.
Da bambini durante le vacanze andavano a giocare sul Monte d’Oro, una collina a picco sul mare, sulla cui sommità c’era la Torre saracena. E c’è ancora, ma il paesaggio è stato pettinato, sono state aggiunte ghiaia e panchine, le mura sono state messe in sicurezza e i sentieri, nelle parti scoscese, sono bordati di paletti di ferro e corda. Da bambini invece, prima di arrivare alla torre, bisognava passare attraverso la macchia, e il gioco che facevano era nascondersi a turno e gareggiare a chi rimaneva nascosto piú a lungo. Lei si era scoperta bravissima ad appiattirsi nelle buche o sotto le radici e Andrea velocissimo ad arrampicarsi sugli alberi. Cosí trascorrevano il tempo e il tempo trascorreva su di loro con quel logorio che, fino ai vent’anni, è una lucidatura che fa belli e forti. Dorati. A ogni modo, all’inizio dell’estate dei sedici anni, il primo sorteggio per il nascondino nel bosco aveva favorito Andrea. Lui doveva nascondersi e Angelica cercarlo, e cosí, appoggiata a un muro a secco con gli avambracci ad accecarla, aveva cominciato la litania dei numeri naturali fino a cinquanta e Andrea si era messo a correre. Il vento era tale che Angelica non distingueva il fruscio delle foglie dai passi nella sterpaglia. Quarantotto, quarantanove, cinquanta e si era voltata. Il vento, ancora nemico, vento a sfavore, le aveva fatto piovere sulla faccia i capelli e lei, con qualche irritazione, li aveva raccolti con la matita in uno chignon. Non abile come quello della mamma, ma ragionevole, e utile. Poi, soffiando aria dalla bocca verso l’alto per liberare gli occhi dall’ultima ciocca ribelle, si era inoltrata nella macchia. Gli uccellini cantavano, le bisce strisciavano, qualche movimento piú rapido nel sottobosco indicava la presenza di un coniglio, e la solita colonia di gatti inselvatichiti seguiva i suoi passi da lontano sperando forse di raccogliere qualche boccone. Angelica li osservava con la stessa attenzione con cui quelli la seguivano, perché di solito i movimenti delle loro orecchie erano forieri di indizi. Invece quel giorno stavano stranamente fissi su un punto alle sue spalle, immoti come divinità egizie. Dopo aver cercato sopra ogni singolo albero e sotto ogni singola foglia, quasi Andrea avesse potuto, correndo nel bosco, rimpiccolire, aveva cominciato a chiamarlo, a gridarne il nome, o Basta esci, o anche Ok sei il piú bravo, dài facciamo un tuffo? Andrea però non era uscito, nemmeno quando Angelica aveva urlato, estenuata e rabbiosa, Me ne vado, e non si era piú voltata, nonostante la paura che lui fosse caduto dallo strapiombo e la scogliera gli avesse cancellato per sempre, come una super gomma, i tratti del volto e dunque non lo avrebbe visto mai piú, nemmeno da morto, perché figurati se la corrente ti riporta il cadavere, e poi la corrente mica è un labrador. Prima di cominciare col maledetto nascondino, avevano discusso del nome latino del fegato. La questione – nonostante la profonda conoscenza che Andrea aveva dei vocaboli greci e latini, dei loro costumi e dei loro miti –, la questione era sorta perché Andrea, a marzo, era andato per uno scambio scolastico quindici giorni a Parigi e al suo posto era arrivato René, uno che con Cartesio aveva in comune solo il nome. Molto contento di essere francese e già abbronzato, René aveva portato con sé tre scatole di foie gras e due bottiglie di champagne. Andrea invece era capitato in una famiglia con un padre, una madre, due figli e due pappagalli che lottavano tutto il giorno l’uno contro l’altro, beccandosi e lanciandosi improperi. Questo aveva raccontato al ritorno, niente altro. Nonostante René fosse la persona piú noiosa che avesse mai incontrato, Angelica aveva fatto intendere ad Andrea che i quindici giorni con René fossero stati meravigliosi. I genitori di René hanno una casa a Nizza con una piscina a mosaico dal blu oltremare all’azzurro pallido, a luglio andrò a trovarlo. Ma tu hai il mare, che te ne frega della piscina?
Il nome latino del fegato iecur ficatum alludeva al modo in cui i romani cucinavano il fegato d’oca con i fichi. Il fegato delle oche, le aveva spiegato René, con un tono macabro che non gli si addiceva e che quindi non faceva paura, ma solo schifo, il fegato delle oche, aveva detto, lo ingrassano mentre le oche sono vive. Di questo avevano parlato prima che Andrea scomparisse nel bosco, perché lui era geloso, voleva essere il centro della sua attenzione e le aveva promesso che se lo avesse trovato in meno di quindici minuti l’avrebbe portata a vedere le vasche della morte sulla scogliera e le avrebbe parlato del garum che quanto a schifo non ha niente da invidiare al fegato ingrassato vivo delle oche francesi. Come se da morti si potesse ingrassare.
Un silenzio di tomba. Cosí aveva deciso. Parigi era un formicaio, a questo pensava mentre spiava Angelica contare fino a cinquanta. E aveva continuato mentalmente fino a settanta prima di uscire allo scoperto e urlare Tana. Solo che, uscito, si era trovato davanti il bosco e le spalle di Angelica che si inoltravano nel verde cupo sbiondito dal sole e aveva deciso di seguirla. Tana l’avrebbe fatta dopo. All’inizio voleva solo capire con quali criteri Angelica cercasse, se aveva un metodo o solo fortuna – Angelica riusciva sempre a trovarlo, e solo la maggiore velocità nella corsa gli permetteva di vincere. Piano piano, invece, il nascondino si era tramutato in un pedinamento, e le ricerche di Angelica, sopra le foglie e nelle fosse, si erano fatte piú angosciose. La vedeva respirare affannosamente, voltarsi di scatto, sussultare a ogni miagolio di gatto selvatico. Piú la seguiva, piú diventava difficile tornare a giocare a nascondino. Piú si fingeva invisibile, piú scompariva, piú gli sembrava di conoscere meglio Angelica. Tenace, precisa, sgomenta. La sentiva sussurrare con tono sempre piú tremolante Guarda che se non sei nascosto qui non vale. Ma non aveva fatto niente di male, era nascosto lí. Lui la spiava sempre piú acuto, lei lo cercava sempre piú incerta. Quando Angelica si era affacciata allo strapiombo, avrebbe voluto dirle Ehi, ero dietro di te, ma aveva avuto paura si spaventasse e perdesse l’equilibrio, cosí non si era manifestato, e non lo aveva fatto nemmeno quando l’aveva vista, incredula, prendere la via di casa, stringendo i pugni, calciando i sassi. Anche lui era tornato a casa, ma per un’altra via, piú veloce, e si era fatto trovare in giardino, sorridente, esultante, nonostante avesse inteso che la paura piú grande è che le cose scompaiano senza motivo. E questo perché gli esseri umani sono sinceramente incapaci di accettare che le cose scompaiano senza motivo. E spesso si affannano nello stabilire rapporti causali folli e ragionevoli, superstiziosi talvolta. Angelica non gli aveva parlato per una settimana. Perché hai voluto farmi paura?, Per curiosità, aveva risposto. E per il foie gras.
E adesso era ancora curioso di capire cosa sarebbe successo. Quando sarebbe morto, e di cosa. Se tutti muoiono, in fondo, di arresto cardiaco, lui, che non aveva piú il cuore, come sarebbe morto? Nel bosco, quella volta della scomparsa, a un certo punto, allo scrocchio di un rametto che si spezzava alle sue spalle, il sangue gli si era gelato. La stessa paura che Angelica non sapeva nominare, ma sentiva. La paura di essere seguiti. Sentiva Laura sveglia – si era messa a sedere e poi ridistesa –, sentiva Laura sveglia e si chiedeva se la persona che lo spiava non fosse lei. Aveva allungato il braccio e l’aveva toccata, lei si era messa su un fianco e gli aveva preso il viso tra le mani. Andrea aprendo gli occhi, nel terzo giorno della loro nuova vita, le aveva visto gli occhi lucidi, Sei del colore del mare quando c’è scirocco e su tutto soffia la sabbia gialla dall’Africa.
Giallo? è il fegato, aveva sentenziato Angelica, ancora in maglietta e calzoncini, ancora dentro casa, ancora senza yogurt e caffè, ma già con sigaretta in bocca e accendino in mano. Anche il fegato funzionerà un po’ meno, si vedrà un po’ meno. Insomma, non sappiamo come e perché, ma se fossero totalmente scomparsi saresti morto. Invece no, invece no, è come se avessero diffuso, delegato ad altro le loro funzioni. Che ne so. Mi ascolti?, aveva chiesto col tono impaurito del nascondino nel bosco. Lui non la ascoltava, o forse non aveva piú le orecchie, chi poteva scommettere con serenità che ancora le avesse. Andrea stava pensando alla nonna che entrava nel pollaio con passo marziale, afferrava una gallina, le spezzava il collo e cominciava, assisa su un treppiedi, con un secchio davanti – di solito di plastica e blu, alto come il treppiedi –, con un secchio davanti, e dopo aver aperto con la cesoia il torace lungo lo sterno, a estrarre il cuore, il fegato, i polmoni e l’intestino e a metterli in un pentolino di metallo nel quale poi li avrebbe bolliti. L’intestino no, l’intestino diventava un piatto per bambini, una specie di lunghissima fettuccina di carne, altrimenti veniva gettato in una fossa che da sempre era chiamata buco degli intestini, e puzzava molto, ma per sentirne l’odore bisognava ficcarci la testa dentro perché era talmente profonda che nemmeno l’odore di carne marcia riusciva a risalire. Una volta Leo, il cucciolo di pointer che il nonno gli aveva regalato, c’era finito dentro ed era rimasto lí in fondo a guaire fino a sera inoltrata, quando il nonno era rientrato e con due retini – i retini che usava per la pesca di pesci e cocci romani – era riuscito a tirarlo su, Leo aveva una gamba rotta. Cosí quando qualche anno dopo, sempre il nonno, aveva deciso di far scavare un pozzo artesiano, Andrea era stato attento a non farci avvicinare né Cristina, né Leo. Cristina ci sarebbe entrata perfettamente. Aveva fatto la prova un pomeriggio nella controra dove si sfuggiva al sorvegliare, educare e punire degli adulti, mantenendola per le ascelle e sospendendola nel pozzo artesiano fino alle ginocchia. E il cane pure. Ma il cane, al contrario della sorella, aveva guaito come il maiale mentre lo scannavano. Era stato anche un empirista prima di scegliere la mitologia e le lingue morte che, al contrario delle cose vive, non muoiono. Leo era morto, e a Cristina non aveva il coraggio di dire niente, le aveva promesso, come a Simone, e alla nipotina Agata, che ci sarebbe stato sempre. Mi ascolti? Il tono di Angelica si era addolcito. Ho un po’ di acidità di stomaco, aveva risposto, ma non è la prima volta, quindi non so se dipende dall’ex fegato o dal vino di ieri sera, Laura dice che sono giallo, a parte questo tutto bene. Gli era scappato da ridere, ma anche le risate, senza polmoni, erano meno piene, piú secche, corte, nervose. Rido come tua nonna, Vorrei che venissi in ospedale con me, forse è il caso di vedere altri medici, da sola non ne vengo a capo, Non possiamo vedere altri medici, non mi lascerebbero andare via, io stesso non lo farei, ma non posso fermarmi, ho molte cose da sistemare. Per esempio vorrei invitare Cristina a pranzo oggi, a Maccarese, c’è il sole, sulla spiaggia. All’Ancora?, Sí, metti che abbiano le bruschette con le telline, Ma Cristina è in laboratorio, Quanto vuoi che ci voglia da Ostia a Maccarese, prenderà un’ora di permesso, Devi vedere un altro medico, non tua sorella, Sai cosa veramente mi dispiace, ci pensavo stanotte, il sonno non può scomparire perché non l’ho mai avuto, pensavo ai particolari della mia autopsia. Quando mi toccherà di starti nudo davanti, sul tavolo di ferro, non pensare a quanto sono invecchiato dall’ultima volta che sono stato nudo davanti a te, Sei patetico, Sono curioso, Sei vanitoso, Tu hai paura che di me non rimarrà piú niente, Certo che ho paura, Ora ti lascio, vado a fare colazione, non ti preoccupare, non preoccuparti piú, è solo questione di tempo, come per tutti, stiamo tutti scomparendo. Angelica aveva richiuso il telefono. Lo odiava, odiava la sua melodrammaticità, odiava il suo modo di minimizzare le questioni fisiche. Odiava il ridicolo disinteressarsi al corpo. Era ridicola la capacità di astrazione di Andrea, e frivola. Era sempre stato ipocondriaco all’ultimo livello di ipocondria cioè negazione del male, del medico e delle medicine. Come se il cervello potesse campare da solo, come se non fosse corpo. Come se senza cuore polmoni fegato fosse possibile il pensiero. Prima di svanire avrebbe colmato la distanza tra sé stesso e sé stesso?
E cosí paradiso e inferno distano diecimila piedi. Diecimila piedi non sono impossibili da percorrere se si è un po’ allenati e si ha a disposizione l’eternità. Quanti chilometri sono? Carla aveva riposto Lo Scimmiotto sul comodino, attenta a non perdere il segno, e preso il telefono per chiamare Andrea. Aveva voglia di caffè e brioche. Non era piú arrabbiata perché aveva perso polmoni e cuore, l’aveva perdonato. Aveva appena sbloccato lo schermo dello smartphone che Claudio, bussando e senza aspettare risposta, era entrato con un vassoio sul quale stavano una tazza e una girella alle uvette tagliata in due. Il marito, sorridente e sbarbato, aveva appoggiato il vassoio sul letto, le aveva dato un bacio leggero sulle labbra, afferrato metà girella, le aveva strizzato l’occhio ed era andato via, canticchiando. Con la voce impastata dal burro e interrotta dalle uvette aveva detto Torno per pranzo. Il semplice pensare alla colazione aveva fatto sí che il vassoio si materializzasse sul letto. Possedeva la capacità di pensare le cose e di farle accadere, ma non esattamente come le desiderava. Un po’ come le desiderava, un po’ no. Avrebbe dovuto allungare una mano, afferrare la tazzina, bere e cominciare la giornata canticchiando anche lei, rinfrancata da quelle piccole attenzioni affettuose. E invece si era infastidita. E quel fastidio era un misto di odio, rassegnazione, contrizione. Una mescolanza degli unici sentimenti che ormai Claudio le ispirava nonostante l’estrema gentilezza, la presenza premurosa, nonostante ricordasse le sue abitudini e i suoi gusti. Solo che non era un’attenzione naturale, come quella di Andrea, era ansia di controllo. Claudio la controllava e lei odiava sentirsi controllata. Quando il loro amore si era trasformato in una forma accurata di persecuzione? Aveva passato l’infanzia sotto gli occhi della madre, aveva lasciato la scuola solo per allontanarsi da lei, ed era stato faticoso perché studiare le piaceva e le piaceva stare in mezzo alle persone che conoscono molte cose e, con naturalezza, ne imparano altrettante. Claudio lo aveva scelto con cura, era un uomo che tutti normalmente definivano un bel tipo. Un uomo bruno, che guidava una motocicletta nera, piantato a terra, apparteneva a una famiglia quasi nobile e aveva una casa in campagna e una al mare, sapeva sciare ed era un avvocato stimato, lo studio cui aveva dato il nome e che adesso contava trenta associati aveva sede nel palazzo all’angolo tra via Arenula e il Lungotevere, davanti a ponte Garibaldi. Dal terrazzo, il panorama era unico. Il cupolone, il Gianicolo, il Tevere, la sinagoga, il gazometro e certi giorni limpidi seguendo il corso del fiume si vedeva il mare, anche se tutti quelli a cui lo diceva rispondevano Dài non è possibile. Tutti i giorni, grazie alle esalazioni del metano e dei tubi di scappamento, i monumenti di Roma si mostravano, da quel terrazzo, virati al rosa, azzurro, verde acido, giallo cromo e cosí ci si sentiva in una cartolina che qualcuno avrebbe comprato e spedito chissà dove, in chissà quale cittadella americana o provincia italiana vasto impero di geometri, in chissà quale infisso di alluminio anodizzato sarebbe stata fermata, per un bordo o per un angolo, quella cartolina in cui lei sorrideva sul terrazzo. Col passare degli anni, la meraviglia di vivere con Claudio nel mondo di Claudio si era trasformata in rassegnazione, e insieme alla rassegnazione – ma forse era un portato della cartolina – aveva cominciato a sentirsi costretta dai bordi. Eppure lo aveva amato tanto da andarci a vivere insieme, gli aveva dato un figlio, e lui a lei. Lo aveva sostenuto, ne aveva sopportato le scappatelle. Non voleva lasciarlo perché era un ottimo padre – non perdeva un allenamento o una partita di rugby di Simone, e lei sapeva bene quale difficoltà fosse crescere senza padre –, non poteva lasciarlo perché l’idea di dipendere economicamente da lui senza essere sua moglie la disturbava, anche perché sapeva che Claudio le avrebbe consentito lo stesso tenore di vita, le avrebbe anche lasciato la casa di Roma. Claudio avrebbe continuato a occuparsi del mantenimento della casa in campagna, per la quale ogni intervento ordinario aveva un costo straordinario. Aveva inoltre molto rispetto per la sé stessa che lo aveva scelto, e se non rispetto fiducia – era stata una scelta eccellente – e cosí rimaneva con lui, tollerando le premure con fastidio. Non resisteva piú a quella perfezione mondana, perché appunto c’erano le scappatelle e certi affari loschi di cui non voleva sapere niente e che non le somigliavano, ma ai quali, se ne fosse venuta a conoscenza, avrebbe cominciato a somigliare. Non resisteva a quella patina perfetta. Perché quando si dice che la perfezione è irresistibile, si pensa ai nodi che si sciolgono grazie al balsamo del fascino e mai ai muscoli lacerati dalla ruota della prepotenza. Il suono roco alla porta – una zampa che raspava – l’aveva riportata al presente. Se aveva preso il cane, era per poter uscire tutte le mattine alle nove, senza discussioni. E anche perché lo aveva sempre voluto. E anche Simone. E anche Claudio. Tutti per motivi diversi desideravano la stessa cosa. E questa è una buona sintesi di famiglia felice.
Lui e quelli come lui sembravano sorridere. Aveva ripescato un vecchio modello anatomico dallo scantinato dell’università. Non ne erano rimasti molti, cosí come i tavoli e le lampade e le lavagne finite in chissà quale mercato, da Porta Portese in là. Una volta, in un mercatino dell’usato non distante da Porta Maggiore, aveva ritrovato una lavagna sul cui bordo ligneo lei stessa aveva inciso un verso degli Smiths, riconosceva la grafia, e altri versi sparsi da canzoni che non ricordava di aver mai cantato, ma non l’aveva comprata, perché non avrebbe avuto dove metterla, si era appena laureata e ancora viveva in una casa in condivisione. E ci viveva perché. Si era interrotta, non era il momento. Era riuscita a trovare tutti gli organi, tutti si incastravano perfettamente, la gabbia delle costole però andava adattata perché apparteneva a un modello di taglia diversa. Quando ancora studiava, i modelli anatomici erano oggetti di uso comune. Adesso erano solo arredi, perduti, dismessi, come le cartine geografiche dalle aule scolastiche. Lo aveva sistemato nello studio con l’intento di portarlo a casa. Sicché quando Laura era entrata dalla porta socchiusa, aveva trovato Angelica a limare le costole di una cassa toracica che sulle prime avrebbe potuto essere vera. Scusa. Nel momento in cui aveva visto la donna sulla soglia, Angelica aveva nascosto mani, cassa toracica e lima sotto la scrivania e solo dopo, quando l’aveva riconosciuta, aveva ricominciato il lavoro. Si erano messe a ridere. Si può sapere che stai facendo?, Cerco di sistemare queste costole, Ma perché?, Voglio un modello per la scomparsa degli organi di Andrea, E hai intenzione di sostituire i suoi con questi? – col fegato in mano, Laura pareva il mostro di Milwaukee –, No, voglio solo avere la sua nuova geografia davanti agli occhi, volta per volta, Non hai bisogno di nessun manichino, Forse cerco un conforto, A cosa?, A quello che non capisco, forse nell’ordine di sparizione c’è una strada per capire. Seduta davanti ad Angelica, Laura si era afflosciata come un soufflé. Mi offri una sigaretta?, Da quando fumi, Non fumo, se non compri le sigarette non fumi, Sono nella mia borsa, prendi il pacchetto, cosí fumo anche io, Che sigaretta è della giornata?, La quarta, E da quanto sei in piedi?, Dalle sei, Una all’ora non è male, No, non è male, se continuassi cosí rimarrei sotto il pacchetto al giorno, A ciascuno i suoi traguardi, Parliamo ancora di sigarette o mi dici di Andrea?, Stamattina era tutto giallo, Perché ha perso il fegato, che è l’organo che hai in mano, So cos’è il fegato, non so se Andrea ne ha mai avuto uno. Avevano riso, la cassa toracica era caduta per terra e le costole si erano sparpagliate. Oltre la parete, a destra, qualcuno aveva battuto tre tocchi, cosí avevano cercato di trattenersi ma con poco frutto tant’è che dalla parete erano arrivati altri tre tocchi. Ma chi c’è?, Il rettore. E giú a ridere sempre di piú fino a quando era giunta una gragnola di colpi e la laurea di Angelica, incorniciata e macchiata di umido, era caduta per terra, il vetro si era rotto. Non fare quella faccia, non me ne importa niente, era una fissazione di mia madre. Laura, accendendo la sigaretta, con gli occhi umidi aveva confessato che a lei, vedere il diploma di laurea incorniciato, aveva fatto grande impressione, era stato difficile studiare in mezzo al casino di vita in cui era cresciuta. Angelica aveva fatto quel gesto con la mano a metà tra Non curartene e Chi se ne importa, dunque tra la premura e l’insofferenza, che a Laura era sempre stato indigesto, ciononostante gli occhi le erano rimasti umidi. Secondo te quanto tempo gli rimane?, Che ne so, Secondo te se avessimo fatto un figlio, o se lo facessimo ora, avrebbe questa stessa malattia, cioè è ereditaria?, e se fosse a trasmissione sessuale?, forse dovrei fare degli esami, Perché sei cosí certa che sia una malattia?, Perché lo farà morire, Vivere fa morire, Laura.
Ecco. Non aveva mai pensato al suo fegato. Era una parola per indicare il coraggio o una sineddoche, una parte per il tutto, per scherzare su qualcuno o con qualcuno che beveva troppo. Oppure qualcosa da mangiare alla piastra o alla veneziana. Il fegato alla veneziana gli piaceva. Ma del suo fegato, di quello che lo aveva trasformato, con la semplice assenza, in un muso giallo, sporco muso giallo come nei film di spie della sua adolescenza, di quel fegato che non aveva piú, non poteva dire niente. Non poteva perché non sapeva. Avrebbe dovuto chiedere ad Angelica quindici minuti di lezione sul fegato, ma se gli fossero rimaste, per dire, trecento ore di vita, o seicento, o anche mille, sarebbe stato giusto impiegare quindici minuti per parlare del fegato? Una Ted sul fegato. Il fegato non è cosí importante. È una ghiandolona. A quei quindici minuti avrebbe dovuto sottrarre il tempo in cui pensava alla Ted? Del cuore sapeva cosa dire, e anche dei polmoni, ma avrebbe potuto non accorgersi mai di avere il fegato, il fegato non era mai stato nominato. Eppure a forza di perdere organi non era piú lo stesso, si sentiva piú leggero, quasi euforico, cosí leggero non era mai stato. E se fosse stato il primo uomo a essere composto, invece che essenzialmente d’acqua, essenzialmente d’aria? Avrebbe potuto. Forte di quel tempo indefinito in cui rimaneva incredibilmente vivo, godeva come tutta la sua specie della tranquillità diffusa dal nominare le cose, quasi le parole fossero una soluzione. Impostare il problema era il gesto necessario alla soluzione, ma non sempre il gesto sufficiente. D’altronde chi poteva negare che le parole esatte fossero una prima soluzione?, forse lo stesso che avrebbe potuto spiegare come un uomo senza organi – un uomo che aveva come antenati non tanto i nonni quanto i polli spennati e eviscerati dai nonni –, come un uomo senza organi fosse vivo. Gli era venuta voglia di prendere un caffè con Carla, quello che Carla non chiamava il loro caffè ma che lo era in effetti, perché era il loro rito di ogni mattina, e il rito è esattamente il motivo per cui le religioni si diffondono e prosperano nel mondo, anche le religioni tecnologiche – controllare la posta almeno una volta al giorno, e i social almeno dieci, è un rito che accomuna differenti generazioni di esseri umani a differenti latitudini – aveva afferrato il telefono e l’aveva chiamata e detto Ehi, e lei aveva detto Ciao, esattamente come i giorni precedenti. Carla, come nessun altro, aveva la possibilità di riportare il tempo indietro di un giorno, anzi di molti altri giorni, anzi all’anno in cui per la prima volta lui le aveva telefonato dicendo Ehi, e lei aveva risposto Ciao, e indossava un paio di pantaloni corti sulla caviglia e una camicia a maniche lunghe sporca di creta e aperta fino all’incavo dei seni e lui era vestito probabilmente al solito modo ma possedeva ancora cuore, polmoni e fegato e dunque tutto quello che serve per avere una vita normale. Stavo per chiamarti, Ho fatto prima io, vuoi un caffè?, Prendo Sem e arrivo. Giallo come il sole dei disegni dei bambini, si era seduto sul letto e aveva imparato che senza fegato non si può avere una buona digestione giacché tutto quello che aveva mangiato la sera prima era adesso una chiazza maleolente sulle lenzuola di lino di Laura. Altro che caffè e girella, era meglio smettere di mangiare e bere, o almeno di mangiare. Cosa sarebbe successo nel momento in cui avesse messo in bocca qualcosa, avrebbe sentito un tonfo, una eco? La milza lí dentro, da sola, e la cistifellea, cosa avrebbero fatto, quanto sarebbero durate, e i reni? La scheda che teneva religiosamente nel portafoglio in cui dichiarava di voler donare gli organi – anche se non è piú necessaria, la teneva per postura, sempre per il badge interiore anche nell’ora della nostra morte amen –, la scheda non aveva piú senso. Raccogliendo le lenzuola e infilandole nella lavatrice si era ricordato della scena di Trainspotting in cui Spud si sveglia in un letto pieno di merda e si affretta a togliere le lenzuola perché la madre della ragazza non se ne accorga. Ma la madre lo vede col fagotto in mano e cerca di strappargli le lenzuola di mano, e tira e molla, tira e molla, tira e molla il nodo di lenzuola si scioglie e la merda finisce sulle pareti, dappertutto. Merda effetto Pollock. Se è umiliante perdere il corpo, lo è di piú perdere il controllo delle sue funzioni.
L’ultima volta che aveva accompagnato la madre in chiesa si era reso conto che il coro della piccola parrocchia di quartiere – di certo non l’unica parrocchia intorno a via Manzoni, col prete nero le cui arringhe confortavano anche lui che ne intuiva la composizione (vecchi riti copti) – si era reso conto che il coro della parrocchia, mediante arrangiamenti avanguardistici e discutibili, aveva trasformato la funzione religiosa da rito in spettacolo, impedendo agli astanti, tra cui la madre, di intonare insieme il santo e sentirsi parte di una storia millenaria perennemente rinnovata e dunque essere certi di ricevere salvezza, benedizione e addirittura santità. Aveva perso tempo su quel ricordo e si era innervosito come quando era uscito dalla chiesa. Sua madre gli aveva chiarito che il coro si preparava a partecipare, in Vaticano, a una specie di X Factor dei cori. Il pensiero continuava a farlo rabbrividire. Nel bar aveva trovato Carla, contrariata per il ritardo. Bella e contrariata stava con gli occhiali da sole appollaiata su una sedia da regista. Non hai una bella cera, Stanotte ho perso il fegato, Questa storia mi farà impazzire, è impossibile che Angelica non sappia cosa succede, devi andare a farti vedere da uno specialista, non vorrai sparire tutto tutto?, Uno specialista in cosa?
Offerte pubbliche di acquisto. Queste le quattro parole pronunciate da Claudio mentre, passando davanti alla vetrina della pasticceria francese non distante dalla casa dove viveva con moglie e figlio, pasticceria nella quale era entrato qualche ora prima per fare colazione e comprare come quasi ogni mattina una girella per Carla – che Simone chiamava girandola –, l’aveva vista discutere con Andrea Dileva, l’uomo che odiava piú al mondo, l’uomo che gli aveva sottratto prima una moglie e poi una confidente, l’uomo che se avesse potuto o saputo esprimere un desiderio qualsiasi nella sua vita pienamente soddisfatta – e che tale gli era sembrata fino alla comparsa di quel tipo alto e biondo almeno quanto lui era bruno e piazzato –, se avesse saputo esprimere un desiderio, si era detto, interrompendo la chiamata senza avvisare, avrebbe voluto che scomparisse per sempre dalla faccia della Terra. Claudio avrebbe continuato a guardarli ma il telefono aveva ripreso a squillare e lui si era sentito obbligato, dal senso del dovere, dall’educazione, dai soldi che stavano in quella telefonata come in un caveau, a rispondere giustificandosi Deve essere caduta la linea. È già terribile vedere tua moglie, in pubblico, con le braccia al collo di un altro, ma vederla litigare, in pubblico, con un altro è inaccettabile. Riprendendo il discorso al telefono da dove lo aveva interrotto, aveva proseguito verso casa, liberandosi in un cestino della spazzatura di gamberi e scampi che aveva pensato di preparare per pranzo. Il piatto preferito di Carla. Non aveva nessuno con cui dire male di Andrea Dileva, non poteva, era l’eroe di Simone, quello di cui persino le maestre erano pazze incantate. Che Andrea andasse al ricevimento dei genitori era stato proprio un desiderio di Simone, che aveva argomentato Papà tu non puoi mai e mamma perde subito la pazienza. Vai tu, aveva detto poi ad Andrea, possono entrare a scuola anche gli adulti di riferimento, vuoi essere il mio adulto di riferimento? Andrea lo aveva guardato, lui aveva guardato Carla, Carla aveva guardato Andrea, cosí che tutti avevano visto la nuca dell’altro, ma non l’espressione. Tranne Claudio che era esterno al cerchio magico, e che quella scena poteva solo immaginarla. Come aveva fatto quell’uomo a incantare il figlio? Forse aveva dedicato troppo tempo al lavoro, questo gli aveva suggerito la madre, l’unica pronta a non stupirsi della gelosia, anzi a ritenerla sacrosanta. Anzi a rinfacciargli la sottovalutazione della comparsa di quell’uomo sull’orizzonte del loro quotidiano. Quando tutto era iniziato, Claudio era impegnato nella causa che contrapponeva i prodotti di un marchio di latticini a quelli di una catena di supermercati per il posizionamento nel banco frigo. Il formaggio di pasta filata del supermercato, del tutto simile per consistenza e involucro all’originale, era il pezzo piú problematico. Per questo la sera della festa era rimasto a casa, e quando Carla e Simone erano tornati e Simone gli aveva detto di aver conosciuto un vero cacciatore di coccodrilli, e Carla, una volta in camera, si era tolta le scarpe da barca che portava sempre, sia in estate sia in inverno, ed era uscita dal bagno vestita solo del cellulare, l’unica cosa che aveva pensato Claudio era sollevare il banco frigo di modo che i prodotti originali fossero ad altezza occhio rispetto alla pedana ma risultassero piú in alto rispetto al corridoio dove passavano tutti prima di ascendere al banco frigo, e, viceversa, i prodotti del supermercato fossero ad altezza occhio nel corridoio di passaggio. Papà?, Finisco una cosa amore mio, Non vuoi sapere del cacciatore di coccodrilli, Sí, certo, Allora, è molto alto, Piú di me?, Il doppio almeno. Tutto da quella sera in poi sarebbe stato ridotto a un problema di proporzioni.
Non aveva perso un centimetro. Nessuno avrebbe potuto accorgersi di quello che gli stava capitando. Tuttavia, guardandosi il torace – cosa che aveva preso a fare con un’ossessione finora riservata ai testi antichi –, lo trovava, il torace, come svuotato e non era in grado di capire se fosse la coscienza che dentro non ci fossero gli organi a mostrarglielo piú concavo o piú concavo fosse davvero. Proprio com’era successo a sua nonna, l’artrosi l’aveva piegata tanto che gli organi si erano spostati. Seguendo la nuova forma del corpo si erano adagiati a sinistra, riempiendo l’ansa dovuta alla flessione della colonna vertebrale. E questo le aveva causato problemi di digestione. I problemi di digestione però non l’avevano costretta a rinunciare ai peperoni.
Professore, lo aveva distratto la voce di una studentessa, mentre usciva dal bagno, perché ormai gli studenti erano cosí. Senza pudore. E perché poi gli studenti dovrebbero essere diversi dal resto della popolazione? Professore, ieri ci siamo preoccupati quando non l’abbiamo vista a lezione, abbiamo aspettato per quaranta minuti poi siamo andati via, non la trovavamo da nessuna parte, sembrava scomparso, Avete fatto bene, non si aspetta nessuno per piú di quaranta minuti. Aveva sorriso e proseguito verso lo studio, poi si era chiuso dentro. Sulla scrivania c’erano i suoi libri, li aveva aperti, senza leggerli, solo per capire se fossero scomparse le pagine. Qualche pagina. Forse era un morbo, il suo, che prendeva cose e persone, forse, piano piano, dall’interno, come i tarli, tutto sarebbe stato mangiato e sarebbe scomparso. Forse l’idea che la distruzione venga da fuori, che la fine sia qualcosa a cui assistere – un’idea innestata dalla letteratura, dal nome e significato e dall’esperienza della parola tramonto –, era sbagliata e falsa. Ci aspettiamo che la fine sia qualcosa che prevede una chiusura di sipario. Forse invece la fine viene da dentro, e se è dentro, la fine c’è sempre stata. Come nel cappello del prestigiatore, il coniglio c’è già. La fine è un coniglio, aveva riso come sempre lo facevano ridere i sillogismi sbagliati. Anche adesso che non c’era piú la nonna da sfottere. D’altronde era curioso. Come si sarebbe accorto di perdere la tiroide, per esempio? Gli occhi sarebbero diventati come quelli delle oche? O il cervello? A un certo punto avrebbe perso anche il cervello? E lí sarebbe finita o avrebbe avuto ancora l’ombra del senso, della memoria, delle cose intorno? Il libro delle meraviglie di Flegonte, che lo accompagnava da quando poteva ricordarlo, non avrebbe potuto dargli conforto, nessuna sibilla, nessun uomo centenario, nessun vampiro, nessuna stranezza era paragonabile alla sua, nessun fantasma. Seduto, con un bel pantalone di lino e il suo bellissimo latino del secondo secolo, si era messo a scrivere su un foglio di carta velina, nello stile di Flegonte, la storia di un uomo che perde gli organi, uno a uno, senza motivo apparente, e aveva preso a divertirsi. Era una lebbra invisibile per la quale non c’era cura, o non ancora. O forse era una forma di avvicinamento all’eternità. Flegonte lo aveva condotto ad Adriano imperatore di cui era stato schiavo prediletto e liberto, e Adriano alla Villa di Tivoli, e la Villa al Canopo nella stessa, e il Canopo ai vasi omonimi dentro i quali gli egizi conservavano gli organi interni dopo averli escerti dai corpi mummificandi. Senza organi interni forse avrebbe potuto conservarsi. La situazione era tale che l’eccesso di ottimismo e l’eccesso di pessimismo si equivalevano. Non andava a Villa Adriana da anni, aveva giurato a Carla che le avrebbe fatto da guida. Doveva farlo il prima possibile, prima che l’infezione della scomparsa passasse agli arti e alle parole.
Una volta c’era stato con Laura e avevano scattato fotografie. Aveva con sé un vecchissimo opuscolo della società geografica, del 1932, dalla copertina azzurro polvere. Avevano scherzato, parlato di architettura e diritto romano, erano rimasti stesi all’ombra degli alberi di Giuda in fiore, viola contro il blu del cielo, il rosso dei mattoni, i gialli baluginii del marmo, rari perché il marmo tutto era stato sottratto dagli ammiratori, dai ladri o dalla sovrintendenza. Le aveva letto ogni epigrafe e per ogni epigrafe aveva raccontato una storia, e per ogni storia Laura aveva raccolto un fiore e glielo aveva messo tra i capelli, sicché quando si era specchiato nell’acqua verde del Canopo si era trovato somigliante alla zia che al mare indossava una spessa cuffia fiorita di lattice color malva. Ma non era finito come Narciso, era sfuggito al proprio riflesso. Nel deambulatorio, ancora non completamente liberato dai rovi, l’aveva baciata, le aveva passato le mani sulla schiena poi sulla pancia, poi sui seni, poi le aveva sollevato la gonna, abbassato le mutande, si era slacciato i pantaloni, l’aveva presa in braccio e avevano fatto l’amore appoggiati a un muro sul quale si muovevano, indifferenti e operose, centinaia, forse migliaia di formiche. Poi le formiche avevano cominciato a salire sulla testa di Laura e dalla testa di lei gli erano arrivate in fronte e lí prudevano tanto da rompere un ritmo che doveva tenere, per lui e per lei, e che lei, ignara, teneva. Lo distraevano le formiche come neri emissari di una forza moralizzatrice. A peggiorare il tutto gli era tornata in mente una lezione di biologia sull’addome delle formiche nel quale stanno le ghiandole di acido formico. Laura aveva smesso di strizzargli le natiche e, preso il volto tra le mani, aveva cominciato a stritolargli le mascelle Dove sei?, in un sussurro, un fiato, un respiro spesso e roco, e lui aveva detto Qui, e avrebbe dovuto giustificare la distrazione della sua testa e del corpo – improvvisamente molle, inutile alle spinte regolari e vogliose del bacino di lei –, avrebbe dovuto se Laura stessa, scorgendo una formica sul proprio braccio, non avesse alzato gli occhi e visto sul muro la slavina di formiche che, come uno sciame di perline nere, le correva verso la fronte. Si era staccata, saltellando si era infilata le mutande rimaste intorno alla caviglia destra e urlato tanto che il custode era accorso e Andrea aveva fatto appena in tempo a riallacciarsi i pantaloni. Cosí dalle urla erano passati al riso sguaiato, e tra le urla e il riso non c’era poi tanta differenza, e avevano cominciato a correre per seminare il custode che un po’ li aveva rincorsi, un po’, inciampando nel reggiseno di Laura perduto e abbandonato, si era fermato pensando ciò che pensano gli uomini di una certa età guardando i piú giovani. Che la giovinezza passa, peccato.
La lebbra si sarebbe mangiata anche la nostalgia. Sudato, con il bavero della giacca fuori posto, riflesso nel piano in vetro della scrivania – la penna in mano, il volto sorridente – aveva inspirato con piú convinzione perché almeno poteva ancora vedersi. Dallo specchio del bagno alla finestra non era cambiato niente. Si era sistemato, ravviato i capelli, preso i verbali d’esame, i Carmina Latina Epigraphica ed era uscito. L’epigrafia non era il suo argomento, ma era stata una grande passione. Nonostante le epigrafi perdano pezzi e di alcuni scritti non siano rimasti che frammenti, siamo stati in grado e siamo in grado di ricostruire il senso. Il suo corpo finora si era dimostrato capace di ricostruire il senso nonostante i pezzi mancanti. Il senso del corpo è la vita ma tutto ciò che vive ha senso? Avrebbe voluto prendere un profondo respiro. Professore tutto bene? Aveva risposto con un cenno della testa e con quel particolare sguardo – imparato dalla madre – che piú che dire qualcosa, segnava una distanza. I suoi organi scomparivano e gli studenti mai. Senza contare che lo studio era diventato una forma di questua, perché da soli non riuscivano a fare niente.
Avete tutti una sedia?, abbiamo già detto, e confido che ciascuno di voi si sia inoltrato in ricognizioni, che l’organo mancante non è presente nei miti e nelle leggende greche. Tuttavia partiamo da Zagreo, come si legge nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli. Zagreo figlio diletto di Zeus e Persefone, signora del regno dei morti, destinato a sedere sul trono celeste e, come nell’Europa delle dinastie, ma millenni prima, a riunificare il sottomondo e l’ultramondo. La solita Era – iraconda e madre di altri dèi antropomorfi e senza la coda di serpente come il piccolo Zagreo –, Era, dicevo, chiede aiuto ai Titani, gli stessi che l’hanno informata delle volontà ereditarie di Zeus. I Titani, che avevano eccellenti motivi per avercela con Zeus, partono all’inseguimento di Zagreo. Il bambino, in un primo momento, grazie a una girandola di metamorfosi animali, riesce a sfuggire, ma i Titani attirandolo con astragali e trottole lo prendono e lo fanno a pezzi. Ai greci, come avrete letto e come capirete sempre piú andando avanti negli studi, piaceva fare a pezzi le persone e talvolta mangiarle. Al macabro pasto dei Titani sfugge però il cuore di Zagreo che Atena riporta a Zeus. Qui ci sono almeno due versioni, Zeus che mangia il cuore, lo rende immortale e lo eterna in Dioniso, o Zeus che chiude il cuore in una statua di gesso alla quale infonde la vita. Ne deduciamo che il cuore è abbastanza per conservare la singolarità di una persona, ma non abbastanza per preservare le sue relazioni, in effetti Zagreo destinato al trono celeste, solo col cuore, non può ambire ad altro che alla nuda vita. Che cos’è quest’organo che ci consente il sé ma non il noi? Seguitemi, con la testa, dunque col cuore, come scrive Aurelio Agostino.
L’efferatezza di Medea, il suo aver ucciso i figli, il suo aver mangiato il fratello, il suo aver – e questa, da studente, era la cosa che piú mi dava eccitazione, se mi e vi consentite un certo gusto per il grand guignol –, il suo aver confezionato il vestito mannaro e la corona infuocata per Creusa, promessa sposa di Giasone, l’efferatezza di Medea è qualcosa sulla quale riflettere, che potrebbe aiutare il nostro ragionamento sull’avere o non avere il cuore.
Creusa adolescente e innamorata riceve da Medea come doni di nozze un vestito porpora e una corona d’oro. Davanti allo specchio Creusa entusiasta, forse vanitosa, forse solo giovane, indossa vestito e corona. La corona prende fuoco e il vestito la divora. Il padre, attirato dalle urla della figlia e dalla disperazione delle serve, accorre e si getta sulla carne della sua carne (non è piú possibile chiamarla in altro modo), nel tentativo di liberarla dalle vesti, ma una volta toccato il vestito mannaro, viene divorato anche lui. Ecco, e se l’efferatezza di Medea dipendesse dal fatto che le manca il cuore? Certo, è una mancanza metaforica, nessun testo ci consente di andare oltre metafora, eppure, è Afrodite a rubare il cuore a Medea per consegnarlo a Giasone e alla Grecia. Senza le arti di Medea – ricorderete che Medea è di stirpe magica, è la nipote di Circe –, senza le arti di Medea, Giasone nemmeno potrebbe pensare di intraprendere la ricerca del vello d’oro. Sono le magie di Medea che gli spianano la strada da draghi e altri animali fantastici ma nemici. Medea nasce nella Colchide, sulle rive del Mar Nero, dove è vivo il culto di Ecate, divinità ctonia che passeggia sulle terre dei vivi reggendo una fiaccola. La descrizione piú viva di Ecate, la troviamo in Luciano di Samosata che nel Philopseudes racconta di un tale Eucrate che abbandonati i lavoranti nella vigna si addentra nel fondo del bosco dove gli appare Ecate, alta piú di novanta metri, con fiaccola in mano e serpenti per piedi e capelli. Al suo seguito i cani latranti, neri e lucidi come elefanti indiani – cosí specifica Luciano. Ecate nella sua oscura immensità – l’oscurità porta la luce, ricordiamo la radice dividere / illuminare della parola demone – batte il piede biforcuto sulla terra e apre una immensa voragine dalla quale Eucrate, sporgendosi, vede gli inferi, Ade e il Flegetonte, le tre teste di Cerbero e anche il padre morto. Quando Eucrate ritorna tra gli uomini riferisce che laggiú le anime languono inani e distese in campi di asfodelo. Nel secondo secolo dopo Cristo, epoca in cui Luciano scrive, gli inferi sono l’eterna attesa, l’eterna inedia. Non quella cosa agitata per la maggior parte del tempo che sarà poi l’inferno di Dante. Dunque, Ecate che porta gli inferi in ogni strada dei vivi è la dea cui Medea è devota.
Tutti i bambini, e spero sinceramente che voi lo abbiate fatto, provano a chiudere la luna nel pozzo, Medea bambina, grazie alle arti di Ecate, riesce a portare con le mani la luna sulla Terra. Se aprite poi le Metamorfosi all’altezza del libro settimo, potete leggere la storia del ringiovanimento di Esone, padre di Giasone. Ricordiamola. Medea costruisce due altari, uno per Giovinezza, uno per Ecate – non pronunciate mai il suo nome con convinzione, potreste evocarla. Su ciascuno degli altari, sacrifica due agnelli dal vello nero. Intanto in una pignatta getta pelle di serpente, ali di gufo, brina notturna, viscere di lupo mannaro, cuore di cervo e mescola fino a farne un fluido vischioso e compatto. Scava un buco in terra e vi versa latte e miele evocando Ade. Poi chiama Esone, lo invita a distendersi, lo sgozza e nello squarcio del collo versa l’intruglio del calderone fino a riempirgli anche l’ultimo capillare. L’imbalsamazione a cui Medea si dedica – perché di imbalsamazione si tratta, nella quale tuttavia gli organi che abitualmente vengono escerti dai corpi, come fegato e visceri, sono aggiunti –, l’imbalsamazione del corpo di Esone non dona bellezza e tempo nel mondo dei morti, ma bellezza e tempo nel mondo dei vivi. Esone si alza coi capelli neri e rinvigorito nei muscoli e nel volto. Dicevamo che l’assenza del cuore di Medea è metaforica, tuttavia, per consegnarlo a Giasone, Afrodite costruisce un meccanismo che metaforico non è. Una ruota alla quale è inchiodato un uccello il cui movimento strega Medea. Probabilmente la ipnotizza. Immaginate invece che a ogni giro della ruota d’amore, il cuore di Medea rimpicciolisca, rimpicciolisca fino a un punto, un punto pulsante o addirittura fino a una assenza. Nel torace di Medea ci sarà sempre un sistema cardiocircolatorio vuoto del cuore di Medea. Che cos’è, vi chiedo, questo organo che garantisce la definizione del sé ma non la relazione con gli altri?, che cos’è, vi chiedo, questo organo involontario come l’amore?
Non ne so niente. Non c’è letteratura, è un caso clinico, dovrei parlarne con i colleghi, portare su di lui l’attenzione della comunità scientifica. Questo potrebbe salvarlo, oppure rovinargli la vita. Non guardarmi cosí, Laura, non so se siano momenti o giorni o anni, non ne so niente, ragiono in base a ciò che ho visto, letto, studiato, sentito, non so che nome dare a ciò che sta mangiando il corpo di Andrea, mangiando, consumando, dissolvendo, non lo so. Ho trovato un libro di medicina, no, non l’ho trovato, lo avevo, non c’è la cura, ma è descritto il caso di un uomo a cui vengono asportati entrambi i reni, e rimane in vita per cinque anni. Non ci sono ipotesi a riguardo, tuttavia chi ha compilato il manuale lasciava intendere che per gli organi vale una specie di sindrome dell’arto amputato, il corpo sente ancora l’arto. Adesso, non è che si possa sostenere scientificamente una cosa del genere. Una cosa del genere ci renderebbe piú simili alle piante che agli animali, una cosa del genere cambierebbe la definizione di specie, e anche la separazione tra una specie e un’altra. Troppo da pensare tutto insieme. Non ne so niente, non so impostare il problema. E il libro con l’uomo senza reni è del Cinquecento.
Angelica fumava e Laura la guardava come se le orecchie non fossero sufficienti per ascoltare ciò che andava dicendo. Si era ricordata improvvisamente del caso della duchessa di Castelpoto che si rifiutava di pagare l’affitto alla baronessa Englen perché sosteneva che gli appartamenti fossero infestati dai fantasmi. L’avvocato della duchessa, Francesco Zingaropoli, era un esperto del diritto delle case infestate. I fantasmi potevano essere trattati giuridicamente come vizi occulti – tubi murati che perdevano –, o potevano servire per cercare di tramutare contratti di affitto in subaffitto – la casa non era libera, ci viveva un fantasma –, e altri cavilli attraverso i quali la ferrea logica regalava al fantasma esistenza piú della superstizione. La mera esistenza in vita di Andrea bastava a rendere reale la teoria dell’organo fantasma? O dell’organo specchio, come aveva farfugliato? Purtroppo la vita non è logica come il diritto, questo sapeva Laura. Dobbiamo stare qui a vederlo scomparire?, Sí, E se è infettiva?, Ancora?
Con tutte quelle infezioni che puoi prendere. Ti ricordi come sei stato male quando hai raccolto una busta di ricci e l’hai mangiata tutta sullo scoglio?, perché non li avevi portati a casa?, Avevo litigato con mamma, non voleva che scomparissi tutti i pomeriggi, Si preoccupava, Le preoccupazioni degli altri asfissiano, Come sei severo, allora l’amore è asfittico, Lo è. Cristina aveva guardato il fratello maggiore con tenerezza materna, a mano a mano che sua figlia cresceva Andrea andava assomigliandole. Perché domani pomeriggio non ti porti Agata in giro?, al parchetto con Simone, Non posso, Forse si scoccia perché Agata è troppo piccola, No, non è questo, è bravo con i piccoli, E allora?, Non posso, Che significa? Cristina aveva seguito il volto di Andrea addolcirsi e sentito il suo allargarsi in un sorriso, Nonna faceva battute fenomenali, Piú con te che con me, pensava tu fossi quello intelligente, si sbagliava.