INTRODUZIONE

Lucia Battaglia Ricci

 

 

 

Composta verisimilmente verso la fine del Duecento e sottoposta, nel corso dei secoli, a plurimi interventi che ne hanno profondamente modificato estensione e struttura, oltre che, localmente, articolazione e forma del discorso, la raccolta di brevi racconti che si usa indicare col titolo di Novellino è tra le realtà testuali più complesse e sfuggenti della nostra tradizione letteraria. A renderla tale ha certo contribuito la sua appartenenza, o prossimità, a un genere – quello della novella – caratterizzato da una mai esausta disponibilità alla riscrittura attualizzante: a pratiche quali la libera appropriazione e riscrittura dei singoli racconti o il libero intervento sulla compagine testuale, che nel caso del Novellino sono state largamente sperimentate dai lettori del libretto, occasionalmente disponibili a trasformarsi in co-autori per rimodellare a proprio gusto segmenti dell’assieme e singoli testi, dando vita a forme, o redazioni, diverse, alcune delle quali documentate dalle peraltro scarse attestazioni conservate.1

Può apparire un paradosso, ma molto spesso la novella – genere catalogato sotto un’etichetta, “novella” appunto, che esalta la novitas del racconto offerto al pubblico di lettori/uditori – nasce da un’operazione di riscrittura di storie, testi, motivi già vulgati: racconti a volte vecchi di secoli, e appartenenti a tradizioni culturali le più remote, come quella classica o quella orientale, o più vicine, come quella mediolatina o quella romanza, che sulle carte degli antichi manoscritti possono convivere con racconti tratti invece dalla cronaca locale più recente.

Così anche, o soprattutto, per il padre-fondatore Boccaccio, che non esita ad adottare procedure proprie della tradizione orale popolare su cui questa modalità del raccontare si modella. È infatti proprio di questa tradizione raccontare come accadute ora, in questo preciso luogo, vicende che appartengono alla preistoria della novellistica internazionale, alla tradizione delle fiabe, ai più consunti repertori di motivi folclorici. Un esempio illuminante è offerto dalla celebre novelletta delle “donne-papere”. Raccontata dall’autore nell’introduzione alla quarta giornata del Decameron per offrire un supporto documentario alle sue riflessioni sull’opera in corso, e in quanto tale proposta come racconto di cose realmente accadute nella sua Firenze in un passato recentissimo, mostra la complessità dei percorsi sottesi al genere, tradizionalmente minore, della novella. Lungi dall’essere estratta dalla più recente tradizione aneddotica fiorentina, come il testo suggerisce, questa novelletta è infatti il prodotto delle raffinate alchimie formali messe in atto da Boccaccio su un raccontino derivato dall’antica storia di Buddha, che compare sia nella redazione tardo-duecentesca del Novellino (XIV) sia nella tradizione agiografica e omiletica medievale.2 L’esempio – ben presente alla letteratura critica moderna – dimostra anche senso e rilevanza dell’intervento dell’autore del Decameron su questa tradizione: è proprio sul Decameron, infatti, che si valutano le opere di tipo novellistico, sia, inevitabilmente, quelle composte dopo l’uscita del capolavoro di Boccaccio, sia, con effetti di distorsione non irrilevanti, quelle prodotte nei decenni precedenti.

Così è stato anche per il Novellino: che di fatto si legge, ancora in questa edizione, nella forma fissata nel terzo decennio del Cinquecento sotto la supervisione di scrittori perfettamente padroni dei codici formali stabiliti una volta per tutte dal Certaldese, quali furono i Bembo e i Gualteruzzi cui si deve la definizione ultima dell’assetto formale, linguistico e strutturale dell’opera.

 

Sono infatti due testimoni del primo Cinquecento, V e Gz, ovvero il ms. Vaticano 3214 della Biblioteca Apostolica Vaticana del 1523, commissionato da Pietro Bembo a Giulio Camillo Delminio, e l’editio princeps, preparata da Carlo Gualteruzzi e uscita a Bologna nel 1525, a fissare stabilmente estensione e struttura della raccolta, che è qui presentata come un assieme di cento pezzi costituito da novantanove novelle numerate e rubricate, precedute da un prologo cui è attribuito il numero 1.

Il confronto tra le due attestazioni ne prova la comune discendenza da un antigrafo perduto, ma a provare che a questa altezza cronologica copisti e/o committenti si rapportavano ancora in modo attivo con la silloge di racconti intervenendo su contenuto e struttura, e che i confini materiali della silloge erano ancora fluidi, è la presenza di una rasura nello spazio che in V segue la novella catalogata col numero 100, ultima della raccolta.

Le poche lettere sfuggite alla cancellazione totale consentono di capire che alla n. 100, Come lo ’mperadore Federigo andò alla montagna del Veglio, doveva seguire una storia che aveva come protagonista un Messer […] da Bologna, non presente in alcuno dei testimoni noti della raccolta. Solo in un testimone antico – ovvero nella seconda sezione del ms. Panciatichiano 32 della Biblioteca Nazionale di Firenze (P2), databile attorno al 1325-30 secondo Bertelli o non molto prima della metà del secolo XIV secondo Besthorn – quello di Federico e il Veglio della Montagna è seguito da un altro racconto, la cui rubrica recita Come Ercule uccide l’orribile Gigante per forza.

Ciò prova che nella tradizione della silloge l’attuale n. 100 non era necessariamente l’ultimo della raccolta e che il materiale registrato in chiusura (P2 è l’unico a tramandare, con Gz e V, le novelle LXXII-LXXIX e LXXXII-C) era sottoposto a variazioni significative (certo nel tema, forse anche nel numero) da un’attestazione all’altra. La rasura presente alla fine della raccolta in V lascia infatti immaginare che l’antico manoscritto da cui derivano V e Gz potesse essere non del tutto identico a essi, almeno dal punto di vista dell’estensione della raccolta. E lascia sospettare che l’importanza attribuita per evidenti ragioni storico-culturali alla quantità di novelle che compongono il libro (qui ridotte esattamente a cento, giustappunto come nel Decameron) abbia prevalso, in questo caso, sul rispetto della testimonianza storica.

Lecito credere che l’operazione sia stata voluta dall’intellettuale che aveva commissionato la copia o da chi si preoccupò di farne una rapida revisione prima di consegnare il codice al committente, ovvero, nell’ordine, Pietro Bembo e Giulio Camillo: più Bembo che Giulio Camillo, forse, se, come è acquisito, Bembo è la figura culturale di riferimento per tutta la vicenda editoriale cinquecentesca del libretto. Improbabile invece che la cancellazione si debba a un intervento attivo del copista, il maggior calligrafo del tempo, Pierantonio Sallando, che in tutto il codice tese a produrre una copia fedelissima dell’antico, prezioso testimone da cui trascriveva, ripetendone anche le caratteristiche paleografiche e codicologiche.

Di siffatte oscillazioni non resta, ovviamente, alcuna traccia in Gz. In questa stampa, tratta verisimilmente dal medesimo codice da cui discende V, uscita un paio di anni dopo V, curata da Gualteruzzi, ma su cui «par certo probabile» avesse avuto parte attiva Pietro Bembo, per dirla con Alfredo Stussi,3 la raccolta è esplicitamente trattata come un centonovelle, in cui i pezzi sono, come già in V (ma come non sono nei testimoni antichi conservati), numerati, oltre che rubricati. Se anche il testo di Gz non deriva direttamente da V, Gualteruzzi adotta senza dubbio la forma definitiva assunta dal libro in questo manoscritto: un prologo, non numerato ma conteggiato, e novantanove novelle, per un totale di cento testi. Il titolo imposto dall’editore a tale compagine – Le ciento novelle antike – ratifica e fissa stabilmente ciò che la sbrigativa omologazione di prologo e testi narrativi indotta dalla numerazione surrettiziamente suggerisce.

Questa è la forma in cui il Novellino è stato recepito e letto nella nostra cultura: la cosiddetta vulgata, a formare la quale, come si è detto, hanno collaborato varie generazioni di scrittori e di intellettuali, e su cui, di fatto, intere generazioni di studiosi hanno finito per valutare i dati offerti dai manoscritti più antichi e cercato di ricostruire la storia del genere novella toscana trecentesca, di cui l’opera contiene certo alcune delle più interessanti e antiche attestazioni letterarie.

A questa forma spetta propriamente il titolo di Novellino , nato da questo medesimo contesto culturale. Esso è stato infatti usato per la prima volta da Giovanni Della Casa in una lettera del 27 luglio 1525 indirizzata a Carlo Gualteruzzi ed è entrato nell’uso al posto sia della titolazione imposta dal medesimo Gualteruzzi alla sua edizione (la princeps, come si è detto, uscita nell’agosto di quell’anno), sia della titolazione Libro di novelle e di bel parlare gientile che è esibita dal codice più antico a noi pervenuto, P1, ovvero la prima sezione del ms. Panciatichiano 32 confezionata probabilmente verso il 1320, che alle cc. 9r-43r tramanda una raccolta di ottantacinque «moduli» (per usare un’etichetta introdotta dall’ultimo editore a indicare l’eterogeneità anche formale di questi pezzi, non tutti di carattere narrativo), non numerati e non rubricati, preceduti dal prologo.

 

È ipotesi ampiamente condivisa che proprio quello attestato da P1 possa essere il titolo originale della raccolta confezionata nell’ultimo ventennio del Duecento da un anonimo toscano, forse fiorentino: un Ur-Novellino, di cui l’edizione del Novellino curata di recente da Alberto Conte per i Novellieri italiani Salerno ripropone il testo accanto a quello della vulgata, consentendo una lettura parallela delle due forme e contribuendo a districare i nodi di una tradizione testuale tra le più complesse della nostra storia letteraria. Tanto complessa da suggerire a Letterio Di Francia, intento a redigere negli anni Trenta del Novecento un’edizione della raccolta, un non iperbolico raffronto con la questione omerica.

L’analisi sistematica condotta dal più recente editore sull’intera tradizione superstite ha confermato il sospetto, avanzato nei primi anni Ottanta da chi scrive e ribadito con altre prove da Luisa Mulas, che la forma vulgata attestasse non la raccolta originaria ma l’esito finale di interventi attivi – e progressivi – di ristrutturazione macro e micro-testuale di quella, individuando la linea di sviluppo che dall’originale tardo-duecentesco (o dal testimone più prossimo all’originale, ora identificato con P1) porta alla forma per noi attestata dai testimoni cinquecenteschi. Il confronto tra le due forme consente di riconoscere le procedure attivate da chi, nei decenni che seguirono immediatamente la prima elaborazione del libretto, è intervenuto sul testo, modificandone contenuto e struttura. Egli ha infatti espunto i pezzi non facilmente inventariabili in una silloge novellistica, ha imposto un diverso ordinamento dei pezzi conservati, occasionalmente accorpando racconti tematicamente affini, ma soprattutto ha aggiunto al corpo originario – verisimilmente databile agli ultimi due decenni del Duecento – parecchi racconti di altra provenienza, certamente composti in epoca successiva a quella in cui fu composto l’Ur-Novellino. Sintomatico, seppur non unico, esempio di racconto scritto ben oltre il ventennio 1281-1300 nel quale è tradizione ritenere composti i microtesti entrati nel Novellino, la divertente novella XCVI, costruita su una beffa economica tessuta dal fiorentino Bito ai danni di un nobile arrugginito, ser Frulli, che per l’allusione a una moneta fuori corso può risalire, al più presto, ai primi decenni del Trecento, come ha segnalato la Mulas.

 

L’incremento che ha portato l’originaria raccolta di ottantacinque moduli attestata da P1 – peraltro ridotta da un’oculata selezione che ha tagliato una quindicina dei testi meno disponibili a entrare in una raccolta più decisamente orientata in direzione novellistica – ai cento pezzi della vulgata4 è stato sostanzialmente assicurato dall’assunzione di gran parte dell’assieme di racconti per noi attestati solo da P2, il quale si distingue da P1 sul piano della scrittura, per la presenza di racconti di chiara ambientazione fiorentina e un più marcato gusto aneddotico-allusivo. Ma non solo. Le due sezioni del manoscritto Panciatichiano non sono omogenee neppure dal punto di vista della lingua. P2 è infatti caratterizzato da una più compatta coloritura fiorentina, che si oppone alla prevalente coloritura toscano-occidentale di P1. Così il problema della lingua dell’autore (o degli autori) si intreccia indissolubilmente con quello dell’individuazione della mano (o delle mani) che vergarono quelle carte.

Se, come ritengono i paleografi che più di recente si sono interessati del manoscritto, Gabriella Pomaro e Sandro Bertelli, una fu la mano che copiò, a distanza di pochi anni e attingendo a due diversi antigrafi, le due sezioni del Panciatichiano, a quest’unica identità si dovrà attribuire l’uso della lingua che compare in entrambe le sezioni, ovvero il fiorentino: e sospettare che lucchese (o pisano) potesse essere l’autore primo del libretto, l’anonimo che ne stese il programma affidato al prologo e la silloge di ottantacinque moduli, oppure tale fosse il copista che aveva confezionato il manoscritto da cui dipende P1. Ma se, come rileva Conte nella sua Nota al testo, è poco probabile che un copista fiorentino abbia mantenuto i tratti occidentali del suo antigrafo, si può anche sospettare che a confezionare le due sezioni siano stati due diversi copisti, come volevano Aruch e Folena: un toscano-occidentale per P1, e un fiorentino per P2, corroborando la tesi che vuole le due sezioni della raccolta composte a Firenze, ma trascritte, appunto, da due copisti di diversa caratterizzazione linguisticoculturale.

Se la difficoltà a conciliare i risultati della ricerca impedisce di dirimere con sicurezza assoluta la questione, pare comunque acquisita l’estraneità di autori e copisti all’area settentrionale e sembra cadere definitivamente la tesi, già cara a Guido Favati, di un’origine veneta del libretto. Non impossibile, evidentemente, che da quella zona venissero – in un’epoca caratterizzata, come il tardo medioevo, da vivaci scambi culturali e viaggi tra le regioni di tutt’Europa – modelli formali, storie o forme espressive, lacerti di una tradizione culturale internazionale ben presente in particolare nella Marca Trevigiana, che nel libretto si salda con quella più squisitamente toscana, se non propriamente fiorentina, propria dell’anonimo, ma l’origine del libretto pare doversi riconoscere nella Toscana di fine Duecento. E toscani furono certamente, se non tutti rigorosamente fiorentini, gli anonimi che a vario titolo intervennero nel corso del tempo a dargli la forma che conosciamo. Il predominio di centri non fiorentini nei decenni che videro la nascita della nostra storia letteraria sia per la poesia che per la prosa non si oppone certo all’ipotesi che l’Ur-Novellino possa essere stato composto fuori Firenze: ipotesi che non trova ostacoli nella presenza in P1 di peraltro poche novelle di ambientazione fiorentina o con personaggi fiorentini. Che compaiono ben più fitte in P2, la sezione per cui è davvero problematico verificare se tramandi il corpus di novelle aggiunte dall’anonimo compilatore intervenuto a modificare massicciamente la raccolta originaria, o una raccolta del tutto autonoma da quella. Ovvero se il Novellino esiste, nella forma in cui noi lo leggiamo, già all’altezza di P2 o se la fusione tra due sillogi originariamente del tutto autonome è intervento successivo. L’unico dato certo è che all’altezza di P2, ovvero molto probabilmente prima del Decameron, se non esattamente attorno agli anni 1325-1330, le novelle che compongono la vulgata, come scrive Conte, «ci sono già tutte».5

 

Che la raccolta originaria, composta da un anonimo sul finire del Duecento, vada identificata con quella attestata da P1 è dato non irrilevante per la valutazione dell’operetta, come anche per la storia del genere novella, nella precisa realizzazione storica catalogabile sotto l’etichetta “novella toscana trecentesca”, che fu poi adibita a modello di riferimento per la letteratura europea. Esso permette, infatti, di intravvedere con maggiore chiarezza il rapido, ma progressivo crescere, nella coscienza degli scriventi, della consapevolezza della specificità formale di questo genere, passato, proprio in quegli anni e in quegli ambienti, dalla fruizione orale alla registrazione scritta e, pochissimi decenni più avanti, per mano di Giovanni Boccaccio, alla vera e propria codificazione consegnata alle cento novelle del Decameron.

La commistione di forme che caratterizza l’Ur-Novellino , il quale comprende novelle vere e proprie, raccontini esopici, brani didascalici, sentenze, moralità e addirittura libere rielaborazioni di lettere di Guittone, assenti (ovvero: verisimilmente eliminate) nel resto della tradizione, si può assumere come specchio fedele di quel complesso magmatico di forme narrative brevi – fabula milesia, favola esopica, exemplum, legenda sacra, fabliau, lai, vida, razo, nova, aneddoto locale – che caratterizza la cultura letteraria tardo-medievale e che P1 rivela essere percepito dalla coscienza degli scriventi come assieme funzionalmente indifferenziato: disponibile, proprio nella sua varietà, alla doppia funzione di dilettare e offrire «utile consiglio» (per dirla con Giovanni Boccaccio), che il prologo espressamente rivendica per il libretto, ma privilegiando, tra le due, la funzione esemplaristico-pedagogica.

Nel tempo stesso che autorizza una sorta di libera appropriazione del Libro di novelle e di bel parlare gientile da parte dei «leggitori», invitati, se dotati di «cuore nobile e intelligenza sottile», a riproporre a loro volta i «fiori» registrati nel libro «a prode e a piacere», appunto, «di coloro che non sanno e desiderano di sapere», l’autore ricorda infatti che quei «fiori» sono stati da lui scelti tra i vissuti di uomini «nobili e gentili» perché sono questi che possono fungere da «specchio» – ovvero da modello di riferimento, positivo e negativo – per i lettori.

Sono così definite con grande lucidità le linee guida dell’autore primo del libro, che compose con assoluta consapevolezza un’antologia di pezzi (un vero e proprio «Libro» d’autore) estraendoli dalle fonti più diverse, e rielaborandoli sia sul piano del lessico che sul piano delle strutture per renderli fruibili anche al di fuori del contesto, narrativo o didascalico, di provenienza. Importante quest’operazione di decontestualizzazione, che profondamente innova la tradizione letteraria coeva, liberando i segmenti narrativi dalle pastoie dei contesti fortemente orientanti delle opere utilizzate come fonti ed esaltando la forza comunicativa del racconto come espressione di per sé carica di significato, e come tale offerta alla libera fruizione del pubblico, che nel parlare umano caratterizzato da «cortesia» e «onestade» potrà trovare motivo per «rallegrare lo corpo [ovvero ‘il cuore’] e sovenire e sostentare», come scrive l’anonimo, rivelando una precoce, sorprendente consapevolezza di quella funzione consolatoria, quasi terapeutica, del narrar novelle, su cui Boccaccio costruirà il suo Decameron. E importante anche, nella stessa prospettiva, che nessuna griglia tematica o schema enciclopedico presieda, come càpita nella tradizione tardo-medievale di raccolte di Fiori o di repertori di exempla, alla messa in ordine seriale del materiale selezionato, che qui sembra organizzarsi, piuttosto, per libere associazioni memoriali, mescolando brani caratterizzati da forme, temi, stili e anche ideologie profondamente diverse, a dar vita a un libero narrare, che apre alla varietà e complessità del reale.

Ma non pare, nonostante il titolo apposto alla raccolta in P1Libro di novelle e di bel parlare gientile, che è con buona probabilità da addebitare allo stesso autore del prologo e della raccolta tràdita da P1 ed esalta la consapevolezza con cui chi scrive guarda al vero e proprio libro da lui composto – che fosse interesse prioritario di questo scrittore lo specifico statuto formale dei suoi «fiori», e tanto meno che egli utilizzasse o intendesse utilizzare un unico, individualizzante modello formale, come farà invece Boccaccio. Il quale, a metà del secolo seguente, si preoccuperà di precisare, nella rubrica-titolo d’apertura, che il suo «libro» contiene esattamente «cento novelle», attirando così l’attenzione su un fatto determinante per la storia del genere, ovvero che l’autore ha consapevolmente utilizzato per tutti i pezzi entrati nel Decameron un solo, preciso, statuto formale: quello che egli ritiene proprio del genere novella. Per l’anonimo, che non doveva essere digiuno dei grandi temi dibattuti dalle élites intellettuali toscane di fine secolo se tanto forte è il rilievo che egli accorda a dittologie come «nobili e gentili» e a concetti come «cuore nobile» e, soprattutto, «intelligenza sottile» (due nodi terminologico-concettuali centrali nel dibattito che a quest’altezza cronologica vede coinvolti gli intellettuali all’avanguardia), l’attenzione è piuttosto appuntata – glissando sull’effettiva estensione del testo («alquanti fiori») a differenza di quanto farà Boccaccio che carica il particolare strutturale («cento novelle») di valenze allusive e ideologiche – sui protagonisti delle storie proposte (quei «nobili e gentili […] che sono specchi appo i minori») e sui temi dei racconti, dettagliatamente, se pur caoticamente, censiti: «alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi, e di belle valentie, di belli donari e di belli amori». Sì che si potrebbe anche sospettare che l’etichetta novelle, esibita dal titolo, fosse ancora per l’autore dell’Ur-Novellino , come in genere per gli scrittori fino a Boccaccio, adibita a veicolare i due significati censiti a quest’altezza cronologica (‘fatto nuovo, novità’ e/o ‘racconto delle novità’, qui ‘narrazione scritta delle novità’), piuttosto che termine tecnico, atto a definire una determinata modalità, o genere, del raccontare.

La distanza si coglie perfettamente mettendo a confronto il trattamento riservato dai due autori allo stesso, tradizionalissimo, racconto, derivato dalla tradizione delle prediche e dall’agiografia.

Nel momento in cui registra nel suo libro il già citato racconto delle “donne-demoni” (XIV della vulgata, 19 dell’Ur-Novellino) l’anonimo opera interventi strutturali atti a cancellare l’interpretazione ideologicamente predeterminata propria dei contesti omiletici e/o agiografici da cui l’ha estratto, offrendolo alla libera interpretazione di chi legge. Della fonte utilizzata resta solo l’anodino commento finale del re, che lascia aperte interpretazioni divergenti: si tratta di un racconto duramente misogino, come era nella tradizione antica? o è un racconto già venato di una diversa attenzione alle donne, se non addirittura già orientato in direzione filogina, come sarà per Boccaccio? Solo il contesto allargato, costituito da un gruppo di racconti focalizzati su lussuria e diletti sensoriali e non indenne da un’esplicita reprimenda morale, che si legge in chiusura del brano che segue («O vizio velenoso, coverto di vile dolcezza, lorda e brutta lussuria, quanti n’hai morti e sottoposti e vinti!»: 20 dell’Ur-Novellino , assente dalla vulgata), suggerisce di privilegiare l’interpretazione meno moderna. Ma mentre lascia emergere la potenziale ambiguità del racconto liberato dai contesti originali, l’anonimo non si cura di intervenire sulla forma del narrato inserendo informazioni atte a trasformare il raccontino in novella e a differenza di Boccaccio – che darà un nome e un cognome al protagonista, lo collocherà nel tempo e nello spazio e colorirà di verità l’esile filigrana del racconto tradizionale, proponendo al suo lettore un racconto, una «novelletta», appunto, che ha tutto il colore e il sapore di una storia recente e, se non vera, almeno verisimile – lascerà nell’anonimato più scolorito i protagonisti della storia, conservando la filigrana irrealistica dell’esempio tradizionale.

In altri casi il racconto offrirà nomi e attributi dei protagonisti: più che per un’esigenza di mimesi, per coerenza col progetto esplicitato nel prologo, ovvero per offrire precisa, verificabile testimonianza di vissuti, gesti, parole di quei personaggi nobili e gentili in cui i lettori sono invitati a specchiarsi, per trarre dal racconto, oltre al diletto, precisi esempi di vita. Lo schema concettuale implicato non è troppo diverso da quello che, varcata la soglia del secolo, l’Alighieri farà esplicitare al suo avo Cacciaguida, che, in Paradiso XVII 132 ss., ricorderà al pellegrino come solo i vissuti di personaggi «di fama noti» siano atti a fungere da esempio.

In effetti nella forma attestata da P1 l’istanza esemplaristica si intreccia strettamente col gusto del raccontare. E i racconti divertenti e divertiti, che adottano a finalità espressive anche il mimetismo linguistico, fornendo alcuni dei più antichi e gustosi esempi di scrittura novellistica vera e propria, come càpita nell’umorosa novella di Imberal del Balzo (XXXIII della vulgata, 48 dell’Ur- Novellino), si alternano a zone in cui si succedono puri e semplici cataloghi di morti per lussuria (20 dell’Ur- Novellino, assente dalla vulgata), storie che risulta molto difficile registrare, come fa la vulgata, sotto il cartellino di «novella», come la 23 (XVII della vulgata), che sintetizza in tre righe la vita esemplare di un banchiere che tutto ha donato, anche se stesso, ai poveri, o racconti esplicitamente proposti come exempla, quale il 24 dell’Ur- Novellino, XVIII della vulgata: un «exenplo di satisfazione per l’anima de’ morti», secondo la rubrica apposta da un lettore di P1, che a suo modo sintetizza la riflessione registrata dall’anonimo in chiusura di questo racconto di apparizioni ultraterrene e castighi per mancato adempimento delle volontà testamentarie. Degno di nota che, mentre ripete fedelmente la fonte, l’anonimo si preoccupi di introdurre il termine tecnico di «exemplo», che a ritroso classifica il racconto rimandando, invece che alla tradizione squisitamente letteraria di «novelle» e «fiori di parlare», a quella degli exempla, caratteristici della tradizione omiletica e didattica: «Per questo exemplo sappiano quelli che le limosine delli difunti ritengnono, quelli si dannano perpetualemente».

 

Nella redazione consegnata alla vulgata la rubrica che precede questo racconto si cura, più che del genere, del tema (Della vendetta che fece Iddio d’un barone di Carlo Magno) e il testo risulta estesamente rielaborato. L’analisi delle fonti prova che chi intervenne sulla prima redazione ne riscrisse una parte, attingendo a una fonte diversa, più breve. Per quanto qui interessa vale la pena registrare due dati di fatto di grande peso per la valutazione della storia del testo come anche per quella del genere novella, ovvero: 1. l’assenza, nella redazione più recente, di questa glossa parenetica finale, estratta di peso dalla più scontata pratica omiletica, che non lascia spazio alla libertà interpretativa del lettore/uditore e appunto per questo si distingue dalla scrittura novellistica; e, 2., la presenza di questa seconda redazione – oltre che in GzV e nel manoscritto II III 343 della Nazionale di Firenze, collocabile tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, che per ragioni di cronologia qui meno interessa – in A, uno dei testimoni più antichi della vulgata: il manoscritto Palatino 566 della Biblioteca Nazionale di Firenze databile attorno agli anni Quaranta del XIV secolo, che tramanda, con varie lacune dovute a guasti del codice, le novelle VI-LXV.

Ovviamente la datazione di A non è utilizzabile per datare la riscrittura di questo pezzo, come anche per la complessiva rielaborazione, in senso sia micro che macro-strutturale di questa parte dell’Ur-Novellino, per la quale la testimonianza di A è solidale, oltre che con quella di V e Gz, con quella di G: il ms. Gaddiano reliqui 193 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, del primo Trecento, ma certamente successivo al 1315, che tramanda ventinove novelle, grosso modo corrispondenti alla serie XXIV-LXV della vulgata.

A e G possono però essere utilizzati, insieme a P2, per fissare un termine di riferimento ante quem utile per la storia del genere. Essi provano, infatti, che i due spezzoni di raccolta novellistica registrati sulle loro carte (siano tali spezzoni entità testuali autonome o parti organiche dell’assieme per noi integralmente attestato solo dai testimoni cinquecenteschi) sono stati composti (o meglio rielaborati) in anni con tutta probabilità precedenti alla composizione del Decameron. E dimostrano presente nello scrittore/negli scrittori impegnati a comporli (o rielaborarli) una ben più viva coscienza della specificità del genere novella, e una diversa apertura al mondo dei narrabili, rispetto all’autore dell’Ur-Novellino: non tanto nel senso di una più precisa consapevolezza dello statuto formale del genere novella, quanto nella direzione di un progressivo allontanarsi dei racconti dalla finalità esemplaristica, a favore di un narrare che privilegia la dimensione ludica e il gusto allusivo.

In chi è intervenuto a riordinare la raccolta originaria, ripensando ordine, contenuto e forma dei singoli moduli, non è attivo, infatti, un preciso progetto di omogeneizzazione formale dei pezzi antologizzati, che ancora nella vulgata continuano in realtà a caratterizzarsi per un irrefrenabile polimorfismo, cui si deve che testi decisamente novellistici come la «bella novella d’amore», quella della damigella di Scalot o quella di Bito e ser Frulli (XCIX, LXXXII, XCVI), possano convivere con scheletrici raccontini come quello del «tavoliere» che ha donato tutto «per Dio» (XVII), della «guasca che si richiamò a lo re di Cipri» (LI) o del «mercante che comprò berrette» (XCVIII), che offrivano il destro a lettori come Alessandro D’Ancona di ipotizzare che si trattasse di schemi narrativi da sviluppare oralmente. Ma a rinnovare profondamente l’assetto complessivo della raccolta chi è intervenuto a riordinare e localmente riscrivere i testi dell’Ur-Novellino si è preoccupato di operare una decisa riduzione della dimensione pedagogicoesemplaristica della sezione P1 che, rispetto al testo tràdito da P1, in queste più moderne attestazioni risulta, per così dire, alleggerita dei moduli difficilmente catalogabili come testi narrativi, rinnovata da una scrittura che in genere opera sui racconti conservati spostando l’attenzione dal valore morale delle azioni compiute dai vari personaggi all’azione in sé, o alla caratterizzazione del personaggio in quanto persona, e al tempo stesso aperta a racconti di deciso gusto boccaccesco (come i raccontini LIV e LVII, per esempio, assenti in P1).

Una siffatta apertura è ancora più evidente nella parte finale della raccolta, che accoglie i racconti della sezione P2: basti vedere i racconti LXXXVI (Qui conta di uno ch’era fornito a dismisura) e LXXXVII (Come uno s’andò a confessare), nei quali è molto difficile cogliere una qualunque, sia pur larvata, intenzione esemplaristica o una qualunque proposta di vissuto in cui idealmente specchiarsi, ma anche il C, che getta una luce niente affatto edificante sull’imperatore Federico, in evidente contrasto con il II, dove del «nobile e potente imperatore» si dice che «veramente fu specchio del mondo in parlare e in costumi, e amò molto dilicato parlare, e istudiò in dare savi risposi».

Le conseguenze di tali operazioni non sono irrilevanti per il libro come sistema organico. Chi è intervenuto con tanta libertà sulla raccolta originaria ha disatteso, se non stravolto, il progetto iniziale esplicitato dal prologo, aprendo a racconti i cui protagonisti sono non più, in genere, i «nobili e gentili» da proporre come «specchio appo i minori», che affollano le prime pagine del libretto, bensì uomini e donne privi non solo di blasone, ma anche di nome. E se questi nuovi racconti meritano di entrare nel libro non è perché essi sono catalogabili come gesta memorabili, sì piuttosto perché sono divertite e divertenti registrazioni dal vivo di un vissuto quotidiano e cittadino, compresa la beffa, il motto arguto e l’apertura a tematiche oscene, che negli esiti più felici sembrano anticipare il genio narrativo di Boccaccio.

Insieme con la datazione dei vari pezzi, non tutti, come si è detto, omogeneamente riconducibili alla fine del secolo XIII, e con i risultati dell’indagine filologica condotta sull’intera tradizione nota, è questa mancata consapevolezza della frizione che all’interno della silloge attestata dalla vulgata si rileva tra le dichiarazioni dell’autore primo registrate nel prologo, conservato in tutti i testimoni completi a noi giunti, e molti dei racconti effettivamente inventariati nel libro, specie nella parte finale, a provare, fuori di ogni sensato dubbio, la pluralità di voci autoriali attive nel tempo relativamente lungo della storia redazionale del Novellino, il cui «testo e macrotesto» è proprio per questo davvero difficile ritenere, con Michelangelo Picone, «creazione dello stesso ambiente e della stessa epoca che hanno visto l’affermarsi dello Stilnovo e nascere il libello giovanile dantesco»: opera costruita seguendo «un ben preciso programma autoriale» da un anonimo che – senza varcare la soglia del secolo XIV – l’avrebbe fatta oggetto di varie riscritture, parzialmente attestate dai testimoni trecenteschi, per consegnarla al futuro nella forma documentata da V, «il depositario più attendibile del Novellino duecentesco», fedelmente esemplato sull’«originale duecentesco», che doveva tramandare le cento novelle numerate e rubricate, ed esattamente disposte nell’ordine attestato da V e Gz.6 Più che possibile, per non dire del tutto certo, che così fosse strutturato il libretto nell’antigrafo di V e di Gz. Ma basta ricordare come in V e Gz siano presenti novelle sicuramente composte non prima degli anni Venti/Trenta del secolo XIV per spostare la collocazione dell’antico manoscritto di novelle e rime da cui Giulio Camillo fece trarre la copia per Bembo verso il più pieno Trecento.

 

Che il libretto sia stato concepito in Toscana, se non esattamente a Firenze, a fine Duecento, per opera di uno scrittore non indifferente al dibattito culturale legato all’esperienza stilnovistica, e dotato di una ricca e variegata biblioteca mentale aperta sia alla cultura romanza che a quella mediolatina, che gli ha permesso di coniugare materiali e forme di varie tradizioni,7 è certo altamente probabile. Ma è certo altrettanto probabile che esso sia stato fatto oggetto di interventi abbastanza radicali nei decenni successivi, che ne hanno mutato profondamente la fisionomia, attenuando l’originario interesse per un narrare prevalentemente orientato in funzione esemplaristico-idealizzante a favore di un narrare più facilmente riconducibile al genere novella, trasformando questa summa della narrativa duecentesca in una sorta di laboratorio, aperto a registrare il rapido evolvere del gusto narrativo presso gli scrittori toscani nei decenni che vanno dall’ultimo decennio del secolo XIII ai primi decenni del successivo: tra la Vita nova e il Decameron, probabilmente.

La particolare struttura dell’Ur-Novellino, cui l’anonimo non impose limiti definiti, o sbarramenti formali, organizzando i moduli per associazioni in parte sollecitate dalle categorie elencate dal prologo, in parte sollecitate da più o meno occasionali accensioni della memoria, provocate da suggestioni tematicocontenutistiche o stilistico-formali, ma senza che sia riconoscibile un «ordinamento ragionato delle novelle», per dirla con Cesare Segre,8 ha certo favorito la continua rielaborazione e manipolazione dei materiali antologizzati da parte di lettori fattisi, per l’occasione, co-autori.

Questa dovette essere, peraltro, una prassi diffusa per le più antiche raccolte di novelle, genere si direbbe costituzionalmente aperto a continue interpolazioni/sostituzioni /soppressioni/aggiunte. Esempi significativi sono offerti perfino dalle raccolte fornite di struttura chiusa o di cornice, come dimostra la tradizione manoscritta del Libro dei sette savi, del Novelliere di Sercambi, del Pecorone di Giovanni Fiorentino. Neppure il Decameron attraversò del tutto indenne gli scrittoi dei copisti, nonostante il suo autore si fosse preoccupato di indicare con chiarezza inizio e fine del libro, avesse costruito una struttura complessa e avesse fissato con sicurezza il numero delle novelle: ma i casi di rimaneggiamento testuale sono davvero, per il Centonovelle, ridottissimi. Dopo Boccaccio la numerazione diventò un criterio strutturale forte, come dimostra la titolazione imposta da Franco Sacchetti, ormai alla fine del secolo, al suo Trecentonovelle. Possibile dunque che lettori esperti della tradizione novellistica trecentesca più matura, come furono gli editori cinquecenteschi del Novellino, se non già l’anonimo estensore dell’antico manoscritto perduto che in una glossa registrata al margine di un suo libro Camillo indica sinteticamente come il «libo antico Cento no.», avessero a loro volta immaginato di poter, ricorrendo appunto al numero canonico di cento, definire una volta per tutte la consistenza del libretto, e al tempo stesso codificare la sua appartenenza al genere novella, consegnando alle generazioni future un libro che si fregiava del titolo, squisitamente informativo e al contempo fortemente orientante dal punto di vista del genere, di Le ciento novelle antike.