I. Benedizione

Quando per un decreto delle forze supreme

il Poeta appare nel mondo annoiato,

piena di spavento e bestemmie sua madre

mostra i pugni al Signore che ne ha compassione:

– «Perché di mille vipere non mi sono sgravata

invece di nutrire una tal derisione?

Maledetta la notte che tra piaceri effimeri

ho concepito la mia espiazione!

Se fra tutte le donne hai scelto me

per essere l’obbrobrio del mio triste marito,

né lo posso buttare al fuoco come

un biglietto d’amore quel mostro rinsecchito,

sullo strumento della tua perfidia

farò sprizzare l’odio che m’opprime,

e tanto torcerò quell’alberello gramo

che la sua peste non potrà fiorire!»

E ringhiotte la schiuma del suo odio,

e non capendo nulla degli eterni disegni

si prepara da sola in fondo alla Geenna

i roghi consacrati ai delitti materni.

Ma, protetto da un Angelo invisibile, il Figlio

diseredato s’inebria di sole,

e in tutto ciò che beve e in tutto ciò che mangia

trova l’ambrosia e il nettare vermiglio.

Gioca col vento, parla con le nubi,

e s’inebria cantando del calvario,

e lo Spirito che veglia sul suo peregrinare

piange a vederlo allegro come un uccellino.

Quelli che vuole amare lo guardano atterriti

o, incarogniti dalla sua dolcezza,

fanno a gara per spremergli un lamento

e su lui fanno prove di ferocia.

Nel pane e nel vino destinati alla sua bocca

a sputi impuri mescolano cenere;

gettano via, ipocriti, le cose che lui tocca,

s’accusano l’un l’altro di seguirlo.

In piazza la sua donna va gridando:

«Se sono cosí bella da essere adorata,

farò degli antichi idoli il mestiere,

e voglio come loro esser dorata;

e mi ubriacherò di nardo, incenso e mirra

e di genuflessioni e carni e vini

per scoprire se in un cuore che m’ammira, ridendo

posso usurpare gli omaggi divini!

E poi, sazia di queste farse impure,

poserò su di lui la mano lieve e forte;

e, simili a quelle delle arpie, le mie unghie

troveranno la strada del suo cuore.

Tremante e palpitante come un uccello appena nato

lo strapperò, scarlatto, dal suo petto,

e sazierò la mia bestia favorita

gettandoglielo in terra con disprezzo!»

Al Cielo, dove un trono sfavillante gli appare,

sereno alza il Poeta le sue braccia pietose,

e i vasti bagliori del lucido intelletto

gli offuscano la vista delle genti furiose:

«Sia lode a te, Signore, che dai la sofferenza

a rimedio divino delle nostre impurità,

e come la migliore e la piú pura essenza

che addestra i forti a sante voluttà!

So che per il Poeta tieni un posto

nei ranghi beati delle sante Legioni,

e che lo inviti all’infinita festa

dei Troni, delle Virtú, delle Dominazioni.

So che il dolore, sola nobiltà,

non morderanno mai terra né inferno,

che a fare la mia mistica corona

concorrono ogni tempo e ogni universo.

Ma né i gioielli persi dell’antica Palmira

né gli ignoti metalli né le perle del mare

montati dalla tua mano potrebbero bastare

a un diadema cosí splendente e chiaro,

fatto come sarà di pura luce

presa dal fuoco sacro dei raggi primordiali

e di cui pur splendenti occhi mortali

sono soltanto specchi malinconici e oscuri!»

II. L’albatro

Spesso, per divertirsi, i marinai

catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,

indolenti compagni di viaggio delle navi

in lieve corsa sugli abissi amari.

L’hanno appena posato sulla tolda

e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso,

pietosamente accanto a sé strascina

come fossero remi le grandi ali bianche.

Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!

E comico e brutto, lui prima cosí bello!

Chi gli mette una pipa sotto il becco,

chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!

Il Poeta è come lui, principe delle nubi

che sta con l’uragano e ride degli arcieri;

esule in terra fra gli scherni, impediscono

che cammini le sue ali di gigante.

III. Elevazione

Piú su di stagni e valli,

di monti e boschi, di nuvole e mari,

oltre l’etere e il sole, oltre i confini

delle sfere celesti

ti muovi, o mente, con agilità

e come un nuotatore a suo agio tra le onde

solchi la fonda immensità, godendo

indicibili e maschie voluttà.

Via, via dall’insidioso fetore!

Va’ a purificarti nell’aria superiore,

bevi l’ardente nettare che colma

gli spazi trasparenti puro.

Dietro di sé le noie, i vasti orrori

gravanti sulla brumosa vita,

felice chi con forti ali saprà

slanciarsi verso campi luminosi e sereni

e ogni mattina, come le allodole, s’alza

nei pensieri liberamente al cielo

– e si libra ben alto sulla vita, e non fa

fatica a intendere i fiori e le altre cose mute!

IV. Corrispondenze

È un tempio la Natura, dove a volte parole

escono confuse da viventi pilastri

e che l’uomo attraversa tra foreste di simboli

che gli lanciano occhiate familiari.

Come echi che a lungo e da lontano

tendono a un’unità profonda e oscura,

vasta come le tenebre o la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Profumi freschi come la carne d’un bambino,

dolci come l’oboe, verdi come i prati

– e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,

con tutta l’espansione delle cose infinite:

l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino,

che cantano i trasporti della mente e dei sensi.

V.

Amo il ricordo delle nude età

le cui statue Febo volentieri dorava.

Agili, senza angoscia né menzogna

godevano uomo e donna, integre e nobili

macchine di se stessi, accarezzati

sulla schiena dal cielo innamorato.

Fertile e buona, allora, anche Cibele

non rifiutava il peso dei suoi figli

ma, lupa colma di comuni affetti,

tutti sfamava dal suo petto bruno.

Elegante, robusto, forte, delle bellezze

a lui soggette l’uomo poteva essere fiero,

frutti mondi d’oltraggio e non segnati,

di carne liscia che attirava i denti!

Al Poeta che oggi cerca di concepire

le grandezze d’allora ove ancora

d’uomo e donna la nudità si mostra

l’anima avvolge un gelo tenebroso

davanti a un nero quadro spaventoso.

O mostruose apparenze che a coprirsi

anelano, toraci da pagliacci,

corpi storti o panciuti o macilenti

che Utile, dio implacabile e sereno,

presto in fasce di bronzo ha infagottato!

E voi, donne piú pallide dei ceri,

che il vizio nutre e smangia, voi fanciulle

contagiate dal male delle madri

e da tutti gli orrori della fecondità!

Abbiamo, è vero, popoli corrotti,

bellezze che agli antichi erano ignote:

volti rosi dai cancri dell’anima, bellezze

che potremmo chiamare di languore;

ma, trovate d’una musa tardiva, non potranno

impedire alle razze malaticce

di cantare la santa giovinezza

– lei che ha semplice e tenera la fronte

e occhi limpidi e chiari di ruscello

e che ovunque, incosciente come il cielo,

gli uccelli e i fiori, versa i suoi profumi,

le sue canzoni, i suoi dolci calori!

VI. I fari

Rubens fiume d’oblio, giardino di pigrizia,

guanciale di fresche carni che nessuno può amare,

ma che la vita smuove e percorre infinita

come aria nel cielo, onda sull’onda;

Leonardo da Vinci, specchio profondo e oscuro

dove angeli stupendi con un riso

di misterioso incanto affiorano da un’ombra

di pini e di ghiacciai, loro dimora;

Rembrandt, triste ospedale pieno di mormorii,

che solo un grande crocefisso adorna

e dove pianti e preci s’alzano dai rifiuti

al fioco, brusco raggio dell’inverno;

Michelangelo, spazio senza certezza dove

degli Ercoli e dei Cristi si confondono,

e fantasmi si rizzano possenti nel crepuscolo

stracciandosi il sudario con le tortili dita;

collere di boxeur, impudenze di fauno,

cuore grande e gonfio d’orgoglio, giallo e fiacco

collezionista di brutali bellezze, Puget,

malinconico re d’un regno di forzati;

Watteau, carnevale dove errano bruciando

come farfalle tanti illustri cuori,

lieve, fresco scenario su cui versano i lumi

la follia per un ballo che turbina senza posa;

Goya, incubo d’oggetti senza nome,

di feti messi a bollire nottetempo dalle streghe,

di vecchie allo specchio e di fanciulle nude

che s’aggiustano, per tentare il diavolo, le calze;

Delacroix, lago di sangue e di angeli cattivi

cui un sempreverde bosco d’abeti fa corona

e che strane fanfare sotto un cielo crucciato

trascorrono, di Weber soffocato sospiro;

maledizioni, bestemmie, lamenti,

pianti, grida, incantesimi, Te Deum,

voi echeggiando per mille labirinti

giungete, oppio divino, sino al cuore dell’uomo,

grido ripetuto da mille sentinelle,

ordine tramandato da mille messaggeri,

faro che arde su mille cittadelle,

richiamo di cacciatori spersi nelle foreste!

Perché, Signore, niente può provare

la nostra dignità come questo singulto

che da un secolo all’altro ardente si propaga

per spegnersi alla riva della tua eternità!

VII. La musa malata

Ahi, mia povera musa, che cos’hai stamattina?

Nei tuoi occhi infossati fan ressa le visioni

notturne, a freddi lampi sul tuo viso

passano taciturni l’orrore e la follia.

Il succubo verdastro e il diavoletto rosa

paura e amore dalle urne hanno versato?

Dispotico e maligno l’incubo t’ha tenuta

con la testa sott’acqua in un Minturno favoloso?

Io voglio che il tuo petto odori di salute

e sia abitato da forti pensieri

e che il sangue cristiano ti pulsi nelle vene

cadenzato, sonoro come nei ritmi antichi

dove regnano a turno il padre di ogni canto,

Febo, e il grande Pan, signore delle messi.

VIII. La musa venale

Musa diletta, tu che ami le dimore fastose,

quando Gennaio i suoi venti scaglierà

nella nera noia delle sere di neve

avrai un po’ di brace per i tuoi piedi viola?

Le spalle venate dal gelo scalderai

ai raggi di luna che attraversano le imposte?

Asciutte bocca e borsa, cercherai

di raccogliere l’oro delle stelle?

Per guadagnarti il pane d’ogni sera, ti tocca

dare l’incenso come un chierichetto

e senza convinzione intonare il Te Deum,

mostrando, saltimbanca affamata, le tue grazie,

il tuo riso d’invisibile pianto intriso, perché

nelle viscere il volgo ne goda.

IX. Il cattivo monaco

Sui grandi muri dei conventi antichi

si mostrava dipinta la santa Verità

perché delle pie viscere, scaldandole,

temperasse la fredda austerità.

Allora che di Cristo fioriva la semente

piú d’un illustre monaco, oggi dimenticato,

come campo d’azione scegliendo il cimitero

glorificava in umiltà la Morte.

– Il mio cuore è una tomba che, indegno cenobita,

dal principio dei tempi abito e misuro,

cella odiosa che niente fa piú lieta.

Monaco senza zelo! oh quando saprò fare

del vivo spettacolo del mio triste squallore

il compito delle mie mani, l’amore dei miei occhi?

X. Il Nemico

Mia giovinezza, tenebrosa bufera

da vividi soli qualche volta interrotta;

tanti disastri han fatto piogge e fulmini che

pochi frutti vermigli restano nel giardino.

Ecco, sono all’autunno delle idee,

e di pala e rastrelli bisogna lavorare

per rimettere a nuovo questa terra inondata

dove l’acqua scava buchi grandi come tombe.

E i fiori nuovi che sogno, chi lo sa

se in quei detriti d’alluvione troveranno

il mistico alimento che può dargli vigore?

– O dolore, dolore! Mangia il tempo la vita,

e l’oscuro Nemico che ci rosicchia il cuore

col sangue che noi perdiamo cresce, si fa forte!

XI. La scarogna

Per sollevare un tal peso,

o Sisifo, ci vorresti tu!

Per quanto coraggio ci metta,

l’Opera è lunga, corta la Vita.

Via dai sepolcri famosi,

a un cimitero d’oblio,

tamburo crespato di nero

strepita a morto il cuor mio.

Quanti gioielli son sepolti

nell’immemorabile buio

che punta o sonda non scalfisce;

quanti fiori sprecan profumi

dolci come segreti

in un deserto profondo.

XII. La vita anteriore

Vissi a lungo al riparo di colonne

dritte, solenni, accese di bagliori infiniti

dal meriggio marino, e quando è sera

simili a grandi grotte di basalto.

Le onde, gonfie immagini del cielo,

accordavano il mistico fragore

del loro canto ai fuochi del tramonto

riflesso nei miei occhi. Là ho vissuto

voluttà calme in mezzo allo splendore

delle onde e dell’azzurro, mentre schiavi

nudi, impregnati di profumi, davano

fresco con delle palme alla mia fronte

cercando, unica loro cura, di scoprire

quale pena segreta mi facesse languire.

XIII. Zingari in viaggio

Tribú di profeti dalle ardenti pupille,

sono in viaggio da ieri. Sulla schiena

portano i figli, o ai fieri loro appetiti affidano

assiduo, prezioso il bene dei penduli seni.

Gli uomini con fucili luccicanti, a piedi,

fiancheggiano i carretti dove la famiglia

sta rannicchiata, e al cielo alzano occhi grevi

del cupo rimpianto di remote chimere.

Dal fondo del suo buco di sabbia il grillo vede

che passano e raddoppia la sua canzone; Cibele

che li ama moltiplica il suo verde,

fa grondare le rocce e fiorire il deserto

per questi viaggiatori cui il domestico impero

delle future tenebre si schiude.

XIV. L’uomo e il mare

Il mare, se sei libero, ti sarà sempre caro!

È il tuo specchio; la tua anima contempli

nell’infinito volgersi dell’onda;

né il tuo cuore è un abisso meno amaro.

Con voluttà t’immergi dentro la tua figura,

con gli occhi l’afferri, con le braccia, e il tuo cuore

del rumore di sé si libera se ascolta

quel lamento indomabile e selvaggio.

Entrambi tenebrosi, e discreti: nessuno

in fondo ai tuoi abissi, uomo, è disceso mai,

nessuno, mare, conosce gli intimi tuoi tesori,

perché gelosamente li tenete segreti!

Pure, senza rimorso né pietà

dai secoli dei secoli vi combattete, tanto

vi stanno dentro il cuore carneficina e morte,

o lottatori eterni, o fratelli implacabili!

XV. Don Giovanni all’inferno

Quando scese nell’onda di sotterra

Don Giovanni, e a Caronte fu l’obolo pagato,

occhio fiero d’Antistene, braccio vindice e forte,

un cupo mendicante s’impadroní dei remi.

Discinte, i seni penduli, si torcevano donne

sotto l’ottenebrato firmamento,

come vittime offerte in una mandra immensa

dietro di lui mugghiando lungamente.

Ridendo Sganarello reclamava la paga

e con dito tremante Don Luigi

mostrava ai morti erranti sulle due opposte rive

l’audace schernitore della sua testa bianca.

Presso il perfido sposo, già suo amante,

rabbrividiva in lutto la casta e magra Elvira

e sembrava pretenderne un estremo sorriso

dove brillasse il miele del primo giuramento.

Dritto e grande al timone dentro la sua armatura

un uomo di pietra divideva la tenebra dei flutti;

ma l’eroe era raccolto, calmo, sulla spada

e fissando la scia non degnava altro vedere.

XVI. L’orgoglio punito

Nei tempi favolosi che la Teologia

con piú forza e piú impeto fioriva

dicono che un grandissimo dottore

– dopo aver smosso i cuori indifferenti

raggiungendoli in tenebre profonde

e aver aperto alle celesti glorie

strani sentieri, a lui stesso ignoti,

che solo i puri Spiriti forse avevan percorso –

come uno che, salito troppo in alto, ha paura,

in un raptus di satanico orgoglio un giorno grida:

«Gesú, mio piccolo Gesú, t’ho portato ben alto!

ma se avessi deciso d’attaccarti

dove non hai difesa, ora, feto ridicolo,

tanta vergogna avresti quanto gloria!»

Senza indugio svaní la sua ragione.

Un simile astro a lutto s’oscurò;

tutto il caos rotolò nella sua testa,

già tempio vivo d’un ordine opulento

e teatro di cosí accesa pompa.

Il silenzio e la notte s’installarono in lui

come in una cantina abbandonata.

Fu, da quel giorno, simile a una bestia randagia;

e quando, senza nulla vedere, andava errando

nei campi, ignaro dell’estate e dell’inverno,

brutto, inutile e sporco come un oggetto usato,

era ai fanciulli di trastullo e riso.

XVII. La bellezza

Sono bella, o mortali! come un sogno di pietra,

e il mio seno, che a tutti fu tortura,

fa nel poeta nascere un amore

eterno e muto come la materia.

Sfinge incompresa regno nell’azzurro.

In me il bianco dei cigni copre un cuore di neve.

Il movimento, che turba le linee, lo detesto,

e non piango mai e mai non rido.

Vedendo che m’atteggio come se mi ispirassi

ai monumenti piú fieri, i poeti

passano i loro giorni in studi austeri,

giacché per incantare cosí docili amanti

ho due limpidi specchi che fan tutto piú bello:

gli occhi, i miei grandi occhi dalle chiarezze eterne!

XVIII. L’ideale

Mai di queste bellezze da giornale,

frutti guasti d’un secolo canaglia,

di questi piedi da socco, di queste dita da nacchere

sarà contento un cuore come il mio.

A Gavarni, poeta della leucemia,

lascio il suo branco garrulo di bellezze da corsia:

fra quelle rose pallide non c’è di certo fiore

che al mio rosso ideale s’avvicini.

Questo cuore, profondo come un baratro, vuole

voi, Lady Macbeth, anima ai crimini possente,

sogno d’Eschilo che il clima degli altani dischiude,

o te, grande notte, figlia di Michelangelo,

che in strane pose placida contorci

bellezze use alle bocche dei Titani!

XIX. La gigantessa

Quando ogni giorno, estrosa, la Natura

generava altri mostri, avrei voluto vivere

vicino a una fanciulla gigante, come un gatto

voluttuoso vicino a una regina.

Vedere insieme all’anima il suo corpo fiorire

e libero in terribili giochi crescere – e capire

dall’umida nebbia che fuma nei suoi occhi

la fiamma buia accesa nel suo cuore.

Minuzioso esplorare la fastosa bellezza

delle sue forme, scalare le sue ginocchia immense,

e a volte, d’estate, quando il torbido sole

l’atterra supina per tutta la campagna,

addormentarmi all’ombra del suo seno

come un borgo tranquillo appiè d’una montagna.

XX. La maschera

Statua allegorica nel gusto del Rinascimento

A Ernest Christophe, scultore

Contempliamolo, questo tesoro di grazie fiorentine;

nel suo ondularsi, corpo muscoloso,

abbondano, divine sorelle, la Forza e l’Eleganza.

Autentico prodigio

di divina robustezza, di snellezza adorabile,

è fatta, questa donna, per lo svago e l’incanto

di principi e di papi sopra letti sontuosi.

– Guarda, ecco, quel fine, voluttuoso sorriso

dove estatica vaga Fatuità,

quel lungo sguardo sornione che languido schernisce,

quel viso leggiadro, inquadrato dai veli,

che in ogni tratto esprime la vittoria

e sembra dire: «Voluttà mi chiama, m’incorona Amore!»

Vedi quanta maestà, vedi che fascino

eccitante le dà la gentilezza...

Accostiamoci a tanta bellezza, e giriamole intorno.

O bestemmia dell’arte! o sorpresa fatale!

Quel suo corpo divino, che promette la gioia,

finisce in alto in un mostro a due teste!

– Ma no, è solo una maschera, un inganno posticcio,

quel volto illuminato da una smorfia squisita,

e qui, osserva, contratta atrocemente,

la testa che non mente, e la faccia sincera

nascosta sul rovescio di quella menzognera.

Bellezza immensa e misera! Il fiume del tuo pianto

si versa con orgoglio nel mio cuore crucciato;

la tua bugia m’inebria, la mia anima sugge

l’acqua che dai tuoi occhi fa sgorgare il Dolore!

– Ma perché piange? A lei, bellezza intera

che potrebbe ai suoi piedi vedere prono il mondo,

che male misterioso rode il fianco possente?

– Povero stolto... piange che ha vissuto,

piange che vive! Ma ancor piú l’affligge

e fino alle ginocchia la fa fremere

dover vivere ancora –

domani, e poi domani, e sempre: come noi!

XXI. Inno alla Bellezza

Vieni, o Bellezza, dal profondo cielo

o sbuchi dall’abisso? Infernale e divino

versa insieme, confusi, la carità e il delitto

il tuo sguardo: assomigli, in questo, al vino.

Racchiudi nei tuoi occhi alba e tramonto. Esali

profumi come un temporale a sera.

Sono un filtro i tuoi baci, la tua bocca un’ampolla

che fan vile l’eroe e il fanciullo ardito.

Esci dal gorgo nero o discendi dagli astri?

Il Destino, innamorato, ti segue come un cane;

sémini capricciosa felicità e disastri,

disponi di tutto, non rispondi di niente.

Cammini, Bellezza, su morti, e ne sorridi;

fra i tuoi gioielli l’Orrore non è il meno attraente

e, in mezzo ai tuoi gingilli preferiti, l’Assassinio

danza amorosamente sul tuo ventre orgoglioso.

Abbagliata l’effimera s’abbatte in te candela

e crepita bruciando e la tua fiamma benedice.

Cosí, chino fremente sul suo amore, chi ama

sembra un moribondo che accarezza la sua tomba.

Che importa che tu venga dall’inferno o dal cielo,

o mostro enorme, ingenuo, spaventoso!

se grazie al tuo sorriso, al tuo sguardo, al tuo piede

penetro un Infinito che ignoravo e che adoro?

Che importa se da Satana o da Dio? se Sirena

o Angelo, che importa? se si fanno per te

– fata occhi-di-velluto, ritmo, luce, profumo, mia regina –

meno orrendo l’universo, meno grevi gli istanti.

XXII. Profumo esotico

Se in una calda sera d’autunno, gli occhi chiusi,

respiro del tuo seno accaldato l’odore,

vedo scorrermi innanzi lunghe rive radiose

sbiancate dai bagliori d’un monotono sole:

un’isola pigra dove dà la natura

alberi strani e frutta saporose,

uomini dalle membra sottili e vigorose

e donne che hanno sguardi d’un mirabile ardire.

Guidato dal tuo odore verso climi d’incanto

vedo un porto con alberi e con vele

per la forza dei flutti ancor tremanti

e intanto un profumo di verdi tamerici

gira nell’aria e colma il mio respiro

e al canto degli equipaggi si mischia nel mio cuore.

XXIII. La capelliera

Chioma, che al collo scorri d’onda in onda!

riccioli, profumi pesanti di languore,

estasi! Perché stasera gremiscano la buia alcova

i ricordi che dormono nella tua capelliera,

io voglio sventolarla come un fazzoletto!

L’Africa ardente, l’Asia sospirosa,

tutto un mondo lontano, assente, quasi morto

vive, foresta d’aromi, nei tuoi luoghi profondi;

e, come altri spiriti sulla musica, il mio

galleggia, amore, sopra il tuo profumo!

Là dove, colmi di linfa, alberi e uomini

si struggono nella calura in deliqui senza fine

lanciatemi, forti trecce, come sa fare l’onda!

In te, mare d’ebano, vive un fulgido sogno

di remi e vele, d’alberi e di fiamme:

porto risonante dove l’anima può

dissetarsi d’odore, di suono e di colore,

e su scivoli d’oro e seta i bastimenti

le ampie braccia spalancano alla gloria

d’un cielo puro che freme d’immortale calore.

La mia testa, che l’ebbrezza innamora, immergerò

nell’oceano che nero l’altro chiude;

e il mio spirito sottile, molcito dal rollio,

saprà ben ritrovarvi, o pigrizia feconda,

di svaghi imbalsamati dondolarsi infinito!

In voi, capelli azzurri, baldacchino di tenebre,

c’è l’immensa, celeste rotondità del cielo;

sui piumosi contorni delle ciocche ritorte

ardendo io m’inebrio d’un confuso sentore

d’olio di cocco, di muschio e di catrame.

A lungo – sempre! – nella greve criniera la mia mano

rubini spargerà e zaffiri e perle

perché al mio desiderio tu non sia mai sorda,

oasi dove sogno, borraccia dove fiuto

a lunghi sorsi il vino del ricordo...

XXIV.

Io t’adoro come la volta notturna,

o vaso di tristezza, grande taciturna,

e t’amo tanto piú, bella, se fuggi,

quasi sommando, o mia notturna gioia,

con ironia le leghe che separano

dal mio petto le azzurre immensità.

Vengo all’attacco, insisto su di te

come un grumo di vermi su un cadavere e t’amo,

o animale implacabile e crudele,

anche nel gelo che ti fa piú bella!

XXV.

Ti porteresti a letto il mondo intero,

o impura, o crudele per noia! A questo gioco strano

devi, per tenerli in esercizio, ogni giorno

metterti almeno un cuore sotto i denti.

Chiari come vetrine, fiammeggianti

come le luminarie d’una festa, i tuoi occhi

usano, insolenti, d’un potere non loro,

ignari della legge onde son belli.

Macchina cieca, sorda, feconda in crudeltà!

Strumento salutare, sanguisuga del mondo,

non hai vergogna, dunque, non hai visto

spegnersi in ogni specchio le tue grazie?

E la forza del male in cui ti credi esperta

non ti fa indietreggiare di spavento

quando, grande nelle ascose sue trame, la natura

si serve di te, femmina, regina dei peccati,

di te, vile animale! perché un genio abbia vita?

Sublime infamia, altezza verminosa...

XXVI. Sed non satiata

Bizzarro idolo, bruno al pari delle notti,

odoroso di muschio e avana, creatura

d’un obi, il Faust della savana, strega

dal fianco d’ebano, figlia di tenebre profonde,

a esotici vini, a resine, all’oppio io preferisco

l’elisir dei tuoi baci, dove amore è pavone,

e se a te in carovana vengono le mie voglie,

nel pozzo dei tuoi occhi disseto le mie pene.

Da quei grandi occhi neri, spie della tua anima,

non versarmi, demone senza cuore, tanto fuoco!

Non son lo Stige, io, per abbracciarti

nove volte – né posso, Megera libertina,

per domarti e ridurti alla ragione

nell’inferno del tuo letto convertirmi in Proserpina.

XXVII.

Sembra, coi suoi vestiti d’ondulante

madreperla, che danzi se cammina,

simile a quei serpenti che nei riti, in cadenza,

smuovono su bastoni i giocolieri.

Come nei deserti la smorta sabbia e il cielo,

sordi al dolore di chi vive, o l’onda

che nel mare s’intreccia senza posa,

cosí lei si dispiega, indifferente.

Splendono nel suo sguardo minerali d’incanto;

in lei, strana, simbolica natura

di sfinge antica e d’angelo inviolato,

tutto è chiarore, acciaio, oro e diamanti,

e per sempre, astro inutile, scintilla

il gelo maestoso della sterilità!

XXVIII. Il serpente che danza

Quanto, indolente amata, amo vedere

del tuo corpo leggiadro

come seta che oscilla e trascolora

luccicare la pelle!

Sulla tua chioma senza fondo

che sí acre profuma,

mare odoroso e vagabondo

dall’onda azzurra e bruna,

simile ad un vascello che si desta

al vento del mattino,

sognante il mio cuore s’appresta

verso un cielo lontano.

I tuoi occhi ove nulla si rivela

di dolce né d’amaro

son freddi gioielli ove fuso

è con il ferro l’oro.

Se guardo i passi che muovi in cadenza,

bella d’abbandono,

penso a un serpente che danza

in cima ad un bastone.

Sotto il fardello della tua pigrizia

la testa di bambina

come quella d’un giovane elefante

dondola mollemente

e il corpo si tende e s’inclina,

smilzo vascello

che rolla e sbanda e tuffa

i pennoni nei flutti.

Quando, fiume che inturgida rombando

la fonte dei ghiacciai,

all’orlo dei denti risale

l’acqua della tua bocca,

mi par di bere un vino di Boemia

amaro e trionfale,

un liquido cielo che di stelle

spruzza il mio cuore!

XXIX. Una carogna

Ricordi la cosa che vedemmo, anima mia,

una dolce mattina d’estate?

Svoltato un sentiero, su un giaciglio di sassi,

una carogna infame,

a gambe all’aria, simile a una donna impudica,

bruciando, sudando veleni,

spalancava con cinica indolenza

il ventre gonfio di miasmi.

Su tanto putrefarsi s’accaniva il sole

come per completare la cottura

e rendere a cento doppi alla grande Natura

ciò che con cura aveva unito;

e il cielo contemplava la carcassa gloriosa

schiudersi come un fiore.

Cosí atroce il fetore, che sull’erba

per poco non sei svenuta.

Su quel putrido ventre ronzavano le mosche

e ne uscivano neri battaglioni

di larve che colavano, liquido vischioso,

lungo i brandelli brulicanti.

Il tutto come un’onda s’alzava, s’abbassava,

o si slanciava spumeggiando

quasi che un vago soffio, il corpo dilatando,

moltiplicasse la sua vita.

E dava, quella folla, una musica strana,

come vento o corrente,

o il grano che in cadenza agita il vagliatore

per separarlo dalla pula.

Sbiadivano le forme, diventavano sogno,

abbozzo che tarda a venire

sulla tela obliata e ormai l’artista

compirà solo col ricordo.

Da dietro i sassi, inquieta, l’occhio irato,

ci spiava una cagna,

aspettando il momento di strappare allo scheletro

il pezzo abbandonato.

– E tu sarai come quel mucchio immondo,

quell’orrenda infezione,

tu stella dei miei occhi, sole della natura,

angelo mio, mia passione!

Sarai cosí, regina delle grazie,

dopo l’estrema unzione,

discesa sotto l’erba, sotto i grassi cespugli,

a muffir fra le ossa.

E allora ai vermi che ti mangeranno

di baci, o mia bellezza,

di’ che in me sono salve la forma, l’essenza divina

dei miei marciti amori!

XXX. De profundis clamavi

Io t’imploro – Te, l’unica che amo! –

dal buco senza luce dove giace il mio cuore,

triste, plumbeo universo dove aggalla

nel buio la bestemmia con l’orrore.

Per sei mesi si libra un sole senza vita,

gli altri sei mesi è notte.

Piú nuda del polo è questa terra:

né animali né boschi, né verde né ruscelli!

E nulla al mondo supera in orrore

la fredda crudeltà di quel sole di ghiaccio

e questa notte immensa che al vecchio Caos somiglia;

mi viene da invidiare gli animali piú vili

che possono, ebeti, sprofondare nel sonno,

cosí lenta la matassa del tempo si dipana!

XXXI. Il vampiro

Come una coltellata tu che a me

entrasti nel pavido cuore;

che forte come una mandra

di diavoli, folle e agghindata,

del mio spirito umiliato

hai fatto il tuo letto e il tuo regno;

– infame che a te mi leghi

come il forzato alla catena,

al gioco il giocatore incarognito,

l’ubriaco alla bottiglia,

la carogna ai suoi vermi

– maledizione a te, maledizione!

La rapida spada ho pregato

di darmi la libertà,

al perfido veleno ho domandato

soccorso per la mia viltà.

Ahimè! che spada e veleno

mi hanno risposto con sdegno:

«Non meriti d’esser tolto

alla tua maledetta schiavitú;

se anche del suo potere

ti liberassimo, idiota!

il cadavere del tuo vampiro

resusciterebbe ai tuoi baci».

XXXII.

Una notte che accanto a una tremenda Ebrea

come lungo un cadavere ero steso,

su quel corpo venduto mi sorpresi a pensare

alla triste bellezza che sfugge alla mia brama.

Mi figurai com’era un tempo, maestoso,

il suo sguardo tagliente di grazia e di vigore,

i suoi capelli che le fanno un casco odoroso

il cui ricordo mi ridà forza per l’amore.

Ah sí, con fervore il tuo nobile corpo avrei baciato,

e dai piedi fragranti fino alle trecce nere

avrei sparso un tesoro di carezze profonde

se solo, qualche sera, con un pianto sincero

tu spegnessi, o grandissima crudele

il freddo faro delle tue pupille.

XXXIII. Rimorso postumo

Quando, mia bella tenebrosa, dormirai

in fondo a un monumento di marmo nero, e avrai

per alcova e dimora niente piú

d’una cripta piovosa, d’una profonda fossa;

e la pietra, gravando l’atterrito tuo seno

e la grazia indolente dei tuoi fianchi,

impedirà lo slancio del tuo cuore

e l’agile avventura dei tuoi passi,

la tomba, confidente del mio sogno infinito

(sempre la tomba è amica dei poeti),

in sterminate notti senza sonno

ti dirà: «Che ti serve, cortigiana fallita,

ignorare cosa piangono i morti?» – e la tua pelle

il verme roderà come un rimorso.

XXXIV. Il gatto

Mio gatto, gatto bello, vieni qui sul mio cuore

d’amante – gli artigli trattieni

e lascia ch’io m’immerga dentro le tue pupille

dove il metallo all’agata si mischia.

Quando a te senza fretta lisciano le mie dita

la testa e l’elastica schiena

e la mano s’inebria di piacere palpando

il tuo elettrico corpo

con la mente rivedo la mia donna. Il suo sguardo

come il tuo, bestia amabile, profondo

e freddo, è un dardo che ferisce e affonda,

e dai piedi alla testa un’aria fine,

un rischioso profumo

ondeggiano sulle sue membra brune.

XXXV. Duellum

Guerriero su guerriero si scaglia; con le armi

iniettano l’aria di bagliori, di sangue.

Scherza stridulo il ferro: cosí strepita

la giovinezza, preda d’un balbettante amore.

Come la giovinezza, mia cara, anche le lame

s’infrangono. Ma denti, unghie affilate apprestano

la vendetta della spada, della daga fallace.

– Cuori furiosi, maturità spaccata dall’amore!

Lonze e ghepardi infestano la forra

dove, in perfidia avvinti, i nostri eroi

rotolano, e con la pelle aridi rovi infiorano.

– È l’inferno. Anime amate lo gremiscono. Lí

rotoliamoci, o amazzone inumana,

senza rimorsi: e l’Odio arda in eterno!

XXXVI. Il balcone

Tu madre dei ricordi, regina delle amanti,

somma d’ogni dovere e d’ogni incanto,

non scorderai la gioia degli abbracci,

la dolcezza del fuoco e della sera,

madre dei ricordi, regina delle amanti!

Quelle sere arrossate dalla vampa del carbone,

quelle sere al balcone, fra vapori rosati...

Che morbido il tuo seno! che soave il tuo cuore!

Ci siamo detti cose che non posson morire,

quelle sere arrossate dal carbone!

Come son belli i soli nelle tiepide sere

e profondo lo spazio e l’anima potente!

Chino su te, adorata, mi sembrava

di fiutare il profumo del tuo sangue.

Come son belli i soli nelle sere!

Il buio s’ispessiva come un muro,

captavo nella notte le tue chiare pupille

e succhiavo, rosolio o veleno, il tuo respiro,

e ti cullavo i piedi con le mani fraterne.

Il buio s’ispessiva come un muro!

So evocare la gloria radiosa degli istanti,

rivivere il passato che nel tuo grembo dorme.

Dove dovrei cercare le tue bellezze di languore

se non nel tuo corpo che amo, nel tuo tenero cuore?

So evocare la gloria degli istanti!

Le promesse, i profumi, le carezze infinite

torneranno dal buco senza fondo

come s’alza dal mare piú profondo

lavato e piú giovane il sole?

– O promesse! o profumi! o carezze infinite!

XXXVII. L’ossesso

Si copre a lutto il sole. Come lui,

Luna della mia vita! incappúcciati d’ombra.

Quanto vuoi fuma, dormi, sii cupa e silenziosa,

túffati tutta intera nella Noia:

è cosí che ti amo! Ma se oggi

vuoi, astro che si libera dal buio,

pavoneggiarti là dove chi è folle

s’affretta, cosí sia. Dalla guaina zampilla,

seducente pugnale! Ai candelabri accendi

la pupilla, degli zotici attizza il desiderio!

Morbosa o provocante, tutto in te m’è piacere;

puoi essere, a tua scelta, notte nera,

alba scarlatta; io tremo, e non c’è fibra

che in me non gridi: Belzebú, ti adoro!

XXXVIII. Un fantasma

I. Le tenebre

Nelle fonde segrete di tristezza

dove il Destino ormai mi ha relegato

e mai penetra un raggio rosa e lieto

e io solo con la Notte, ospite ostile,

vivo come un pittore che un sardonico Iddio

ha dannato a dipingere su tenebre

e, cuoco di funebri voglie,

metto a bollire e mastico il mio cuore,

s’accende a tratti, e s’allunga, e s’espande

uno spettro di grazia e di splendore.

Dal suo orientale muoversi sognante

ravviso, come giunge alla misura

di se stesso, la mia Visitatrice

soave – nera, eppure luminosa.

II. Il profumo

Hai tu a volte, lettore, respirato

con ebbrezza, con lenta voluttà

il granello d’incenso che una chiesa pervade

o d’un borsiglio il muschio inveterato?

Profondo, magico incanto, onde ci inebria

nel presente il passato che risorge!

Cosí su un corpo adorato l’amante

coglie il fiore squisito del ricordo.

Dai suoi capelli elastici e pesanti,

vivo portaprofumi, turibolo d’alcova,

esalava un profumo acre e selvaggio

e il vestito di mussola e velluto

impregnato della sua pura giovinezza

del manto d’una belva aveva odore.

III. La cornice

D’una bella cornice s’avvantaggia

anche il quadro piú illustre, non so quale

combinazione di stranezza e incanto

dall’immensa natura isolandolo – cosí

mobili e gioielli, placcature e fermagli

alla sua rara bellezza s’adattavano;

niente turbava la sua intatta luce

e tutto la chiudeva come dentro uno stemma.

Quasi sembrava a volte che a lei stessa

tutto sembrasse amarla: allora ai baci

del raso e della seta abbandonava

il suo esser nuda voluttuosamente

e, sia lenta sia brusca muovendosi, spiegava

la grazia fanciullesca d’una scimmia.

IV. Il ritratto

Di quanto fuoco per noi fiammeggiò

la Malattia e la Morte fanno mucchi di cenere.

Di quei grandi occhi teneri e ferventi,

della bocca dove annaspò il mio cuore,

dei baci come il dittamo potenti,

degli slanci piú vivi della luce,

che resta? È spaventoso, anima mia!

Nient’altro che un pastello quasi spento

che, come me, muore da solo, e il Tempo,

ingiurioso vegliardo, un po’ ogni giorno

con la sua ala ruvida cancella...

Mai, mai, nero assassino dell’Arte e della Vita,

ucciderai dentro la mia memoria

lei che fu il mio piacere e la mia gloria!

XXXIX.

A te questi versi perché in sere lontane,

se la fortuna aiuterà il mio nome,

vascello spinto avanti da un gran vento,

a far nascere sogni in menti umane,

antica, incerta favola il ricordo di te

sferzi come un salterio il mio lettore

e da una fraterna e mistica catena

alle mie rime altere resti appeso;

creatura maledetta cui dal profondo abisso

al piú alto cielo solo io rispondo

e che simile a un’ombra dall’effimera traccia

calpesti, lieve e serena, gli stupidi mortali

che ti credono amara, statua dagli occhi di giaietto,

angelo immenso dalla bronzea fronte!

XL. Semper eadem

«Perché mai» dicevate «questa tristezza strana

in voi, simile al mare su un’aspra roccia nera?»

– Quando già il nostro cuore un tempo ha vendemmiato,

vivere è male. E un segreto che nessuno ignora,

un dolore molto semplice, senza mistero,

e che a tutti s’impone come la vostra gioia.

Smettete dunque di cercare, bella curiosa,

e anche se è cosí dolce la vostra voce, non parlate!

Voi anima ignorante sempre in estasi, bocca

ridente, non parlate! Ancor piú della Vita,

spesso è la Morte a avvincerci coi suoi lacci sottili.

Lascia che d’un inganno il mio cuore s’inebri

e nei tuoi occhi affondi come in un sogno, e all’ombra

delle tue ciglia lungamente dorma!

XLI. Lei, intera

Quassú nella mia stanza, stamattina,

il Diavolo è salito

e cercando di prendermi in castagna

sussurrava: «Vorrei proprio sapere

fra tutte le delizie

da cui viene il suo incanto,

fra tutti quegli oggetti neri e rosa

che formano il suo corpo seducente,

quale sia la piú dolce». – E tu, mia anima,

cosí hai risposto all’Aborrito: «In lei

è dittamo ogni cosa,

dunque nessuna può esser preferita.

Se il tutto mi rapisce, non so dire

se una singola cosa mi seduce.

Come l’Aurora abbaglia, ma consola

come la Notte;

e cosí raffinata è l’armonia

delle sue belle membra

che a coglierne gli accordi numerosi

l’analisi è impotente.

O mistica fusione

di tutti i sensi in uno!

Se è musica il suo fiato,

la sua voce è profumo!»

XLII.

Anima sola, povera, cosa dirai stasera,

cosa dirai, mio cuore, cuore prima appassito,

a lei che è la piú bella, a lei che è la piú cara,

il cui sguardo divino ti ha a un tratto rifiorito?

– Mettiamo il nostro orgoglio nel cantarne le lodi:

niente vale in dolcezza il suo rigore;

la sua carne tutta spirito ha il profumo degli Angeli,

il suo sguardo ci veste di chiarore.

Sia nella notte solitaria o sia

nella strada affollata, il suo fantasma

danza, torcia, nell’aria. E a volte parla

e dice: «Io sono bella, e solo il Bello

per amore di me dovete amare.

Sono per voi Madonna, Angelo e Musa».

XLIII. La fiaccola viva

Vanno pieni di luce davanti a me quegli Occhi,

fatti calamite da un Angelo sapiente;

divini fratelli a me fratelli, vanno,

battendo i miei occhi con fuochi di diamante.

Salvandomi da trappole e peccati,

sulla strada del Bello conducono i miei passi;

loro sono i miei servi, io il loro schiavo;

a loro, viva fiaccola, obbedisce il mio cuore.

Occhi d’incanto, mistico chiarore

come di ceri che nel giorno il sole

sfuoca ma non cancella! Ma con fiamma fantastica

celebrano, quelli, la Morte: voi cantate il Risveglio,

l’anima mia cantate che si risveglia, o fuoco

d’astri che nessun sole potrà spegnere mai!

XLIV. Reversibilità

Angelo di gaiezza, cosa sai dell’angoscia,

della vergogna, dei rimorsi, degli affanni, del pianto,

di quei vaghi terrori che nelle notti orrende

ci accartocciano il cuore?

Angelo di gaiezza, cosa sai dell’angoscia?

Angelo di bontà, cosa sai del rancore,

dei pugni stretti nell’ombra, delle lacrime di fiele,

quando Vendetta suona la sua atroce fanfara

e regna nei pensieri?

Angelo di bontà, cosa sai del rancore?

Angelo di salute, cosa sai delle Febbri,

di chi come in esilio si trascina

lungo i lividi muri degli ospizi

muovendo muto le labbra, cercando il poco sole?

Angelo di salute, cosa sai delle Febbri?

Angelo di bellezza, cosa sai delle rughe,

della paura d’invecchiare, dell’osceno tormento

di leggere l’orribile, segreta compassione

in occhi dove i nostri bevvero avidi un tempo?

Angelo di bellezza, cosa sai delle rughe?

Angelo della gioia, dei giochi e della luce,

ai flussi del tuo corpo prodigioso

Davide morente avrebbe chiesto aiuto,

ma io da te non imploro, Angelo, che preghiere,

Angelo della gioia, dei giochi e della luce.

XLV. Confessione

Una volta, una sola, donna dolce e gentile,

il bel braccio posasti sul mio braccio

(nel buio del mio cuore quel ricordo

non è affatto svanito);

era tardi: fiammante medaglia, si stagliava

la luna piena;

frusciava solenne su Parigi addormentata,

vasto fiume, la notte.

E rasente alle case, nei portoni, furtivi

gatti, le orecchie tese,

guizzavano o, fantasmi amati, lenti

ci venivano dietro.

Nella raccolta libertà dischiusa

in quel mite chiarore,

da te, ricco strumento che risuona

di gaiezza soltanto,

da te, radiosa come una fanfara

che squilla nel mattino,

tutt’a un tratto è sfuggita una bizzarra,

una querula nota,

malferma, incerta come una bambina

grama, deforme, ripugnante, immonda

che la famiglia, per vergogna, ha nascosto in cantina,

via dagli occhi del mondo.

Diceva, povero angelo, quella stridula nota:

«Niente, quaggiú, è sicuro:

per quanto si imbelletti l’egoismo umano

prima o poi si rivela.

E che duro mestiere essere bella,

che squallido lavoro

per la gelida, folle ballerina

struggersi in un meccanico sorriso...

È sciocco costruire sopra i cuori;

nulla regge, né amore né beltà,

finché ogni cosa raccoglie l’Oblio

per ributtarla nell’Eternità!»

Spesso di quella luna rimemoro l’incanto,

ricordo quel silenzio, quel languore,

e quel segreto orrendo, in confessione

bisbigliato al mio cuore.

XLVI. L’alba spirituale

Quando per i viziosi l’alba bianca e vermiglia

coi morsi dell’Ideale si confonde,

nel letargo del bruto, vendetta misteriosa!

un angelo si desta.

Quell’uomo prostrato ancora sogna e soffre,

e a lui s’apre, remoto e tentatore,

dei Cieli dello Spirito l’azzurro precipizio.

Cosí di te, puro, lucido Essere, mia Dea,

sulle macerie delle orge insipide

il ricordo piú chiaro, piú bello, piú rosato

nei miei occhi si libra senza fine.

Al sole che annerisce le candele,

all’immortale sole, o risplendente

anima, trionfale, il tuo spettro somiglia!

XLVII. Armonia della sera

È il tempo che ogni fiore sul suo stelo

esala, vibrante turibolo, il suo incenso;

suoni e odori volteggiano nell’aria della sera,

valzer malinconico e scosceso languore!

Esala ogni fiore, turibolo, il suo incenso;

freme un violino come un cuore affranto;

valzer malinconico e scosceso languore!

Il cielo è triste e bello come un immenso altare.

Freme un violino come un cuore affranto

che tenero odia il nulla vasto e nero!

Il cielo è triste e bello come un immenso altare;

coagula il sangue che ha annegato il sole.

Un cuore che odia il nulla vasto e nero

compone le spoglie del passato di luce!

Coagula il sangue che ha annegato il sole...

Come un ostensorio splende in me il tuo ricordo!

XLVIII. La boccetta

Per certi profumi, violenti, ogni materia

è porosa. Filtrano, si direbbe,

traverso il vetro. Aprendo un cofanetto

che viene d’Oriente (stride, resiste la cerniera)

o, in case abbandonate, un nero armadio

che odora acre di tempo, puoi trovare

una vecchia boccetta che rammemora, e a un’anima

ben viva dà via libera. Pensieri

che dormivano a mille, crisalidi luttuose,

nelle pesanti tenebre fremendo dolcemente,

spiegano l’ali e volano, colorate d’azzurro,

luccicanti di rosa, a scaglie d’oro.

E il ricordo, ecco, smuove inebriante

l’aria, gli occhi si chiudono; Vertigine

l’anima afferra e vince, la trascina

a un abisso che miasmi umani oscurano,

l’atterra dove s’apre un secolare abisso;

giú, Lazzaro odorante che lacera il sudario,

s’agita, torna vivo lo spettrale cadavere

d’un vecchio amore rancido, seducente e tombale.

Quando, a memoria d’uomini perduto, in qualche fondo

d’un armadio sinistro m’avrai gettato via,

decrepita boccetta derelitta e vischiosa,

sporca e abietta, spaccata e polverosa,

sarò, peste adorabile, la tua bara! sarò

della tua forza e furia il testimone,

caro veleno preparato dagli angeli, liquore

che m’ardi, vita e morte del mio cuore!

XLIX. Il veleno

La bettola piú cupa sa rivestire il vino

d’un lusso da miracolo, e nell’oro

del suo rosso vapore

fa sorgere una fiaba di colonne,

come un tramonto acceso nella bruma.

L’oppio ingrandisce ciò che non ha fine,

l’illimitato estende,

il tempo fa piú cavo, piú profondo il piacere,

e di nere, di cupe voluttà

l’anima sa colmare a dismisura.

Ma piú veleno stillano i tuoi occhi,

i tuoi verdi occhi,

laghi dove si specchia e capovolto

trema il mio cuore, amari abissi dove

a frotte si dissetano i miei sogni.

Piú tremendo prodigio è la saliva

con cui m’intacchi l’anima e l’affondi

senza rimorsi nell’oblio, e languente

a filo di vertigine la spingi

alle rive dei morti!

L. Cielo coperto

Sembra quasi, il tuo sguardo, schermato da un vapore;

il mistero dei tuoi occhi (azzurri, verdi, grigi?)

a volta a volta tenero, o spietato, o sognante,

rispecchia l’indolenza e il pallore del cielo.

Bianchi, velati, tiepidi giorni ricordi, quando

il cuore, stregato, si scioglie in pianto, e i nervi

flagellati da un male ignoto che li attorce

si fan beffe dell’anima assopita.

A volte fai pensare ai sontuosi orizzonti

che il sole d’autunno rischiara... a un paesaggio

fradicio che risplende, infiammato dai raggi

che spiovono da un cielo tempestoso!

O donna-trabocchetto, o climi seducenti!

Anche i tuoi geli, anche la vostra neve

saprò amare, e dal duro inverno trarre

piaceri piú taglienti dell’acciaio e del ghiaccio?

LI. Il gatto

I.

Avanti e indietro va nel mio cervello,

come se passeggiasse dentro casa,

un gatto forte, dolce, da innamorarsi bello.

Quando miagola, lo si sente appena,

tanto il suo timbro è tenero e discreto;

ma sia d’ira o di calma la sua voce,

sempre è ricca e profonda.

Ed è questo il suo incanto, il suo segreto.

La sua voce che stilla, che s’insinua

del mio essere nel fondo tenebroso,

mi colma come un verso numeroso

e come un filtro mi dà gioia.

Mette a dormire i mali piú crudeli,

ogni estasi contiene;

per dire la piú lunga delle frasi

non le servon parole.

Non c’è archetto che morda

il perfetto strumento del mio cuore

né cosí regalmente

faccia vibrare la sua corda estrema

come fa la tua voce, gatto misterioso,

gatto strano e serafico

e tutto, come un angelo,

altrettanto sottile che armonioso!

II.

La sua pelliccia bionda e bruna

manda un profumo cosí dolce

che ne fui, una sera, per averla

carezzata una volta, tutto intriso.

Del luogo è il genio: è lui

che giudica, presiede, ispira,

nel suo impero, ogni cosa;

che sia una fata, o un dio?

Quando i miei occhi a questo gatto amato

cosí docili vanno

come a una calamita

ed in me stesso guardo

vedo con meraviglia

il fuoco tenue delle sue pupille,

chiari fanali, opali vive,

scrutarmi fissamente.

LII. La bella nave

Morbida incantatrice, ti dirò le bellezze

che alla tua giovinezza fan corona;

la tua bellezza ti dipingerò,

mista d’infanzia e di maturità.

Quando l’aria sommuovi con la tua larga veste

sembri una bella nave che salpa, numerosa

e leggiadra di vele, e dolcemente

rulla, calma, indolente.

Sul collo largo e tondo, sopra le grasse spalle,

la tua testa si muove con vezzi da pavone,

e in un’aura di placido trionfo,

maestosa fanciulla, procedi indifferente.

Morbida incantatrice, ti dirò le bellezze

che alla tua giovinezza fan corona;

la tua bellezza ti dipingerò,

mista d’infanzia e di maturità.

Il tuo seno che preme trionfante

sulla seta cangiante

è un vasto e vago scrigno le cui nitide curve

mandano lampi come fan gli scudi;

sí, scudi provocanti dalle punte rosate!

scrigno dai segreti soavi, ricolmo di delizie,

di profumi, di vini, di liquori

che dan la febbre all’anima e al cervello!

Quando l’aria sommuovi con la tua larga veste

sembri una bella nave che salpa, numerosa

e leggiadra di vele, e dolcemente

rulla, calma, indolente.

Le tue nobili gambe, guizzando fra le gale,

a oscuri desideri dànno l’esca e il tormento,

come streghe gemelle che rimestano

un filtro tenebroso in un vaso profondo.

Le braccia, che un precoce ercole umilierebbero,

di due boa luccicanti son gli emuli robusti,

fatti per abbracciare cosí forte il tuo amante

da stamparne l’impronta nel tuo cuore.

Sul collo largo e tondo, sopra le grasse spalle,

la tua testa si muove con vezzi da pavone,

e in un’aura di placido trionfo,

maestosa fanciulla, procedi indifferente.

LIII. L’invito al viaggio

Sorella mia, mio bene,

che dolce noi due insieme,

pensa, vivere là!

Amare a sazietà,

amare e morire

nel paese che tanto ti somiglia!

I soli infradiciati

di quei cieli imbronciati

hanno per il mio cuore

il misterioso incanto

dei tuoi occhi insidiosi

che brillano nel pianto.

Là non c’è nulla che non sia beltà,

ordine e lusso, calma e voluttà.

Mobili luccicanti

che gli anni han levigato

orneranno la stanza;

i piú rari tra i fiori

che ai sentori dell’ambra

mischiano i loro odori,

i soffitti sontuosi,

le profonde specchiere, l’orientale

splendore, tutto quanto

con segreta dolcezza

al cuore parlerà

la sua lingua natale.

Là non c’è nulla che non sia beltà,

ordine e lusso, calma e voluttà.

Vedi su quei canali

dormire bastimenti

d’animo vagabondo,

qui a soddisfare i minimi

tuoi desideri accorsi

dai confini del mondo.

– Nel giacinto e nell’oro

avvolgono i calanti

soli canali e campi

e l’intera città;

il mondo trova pace

in una calda luce.

Là non c’è nulla che non sia beltà,

ordine e lusso, calma e voluttà.

LIV. L’Irreparabile

Vecchio, lungo Rimorso... Potremo soffocarlo,

lui che s’agita, vive, si contorce,

e si nutre di noi come il verme dei morti,

come dei gelsi il bruco?

Potremo soffocare il Rimorso implacabile?

In che filtro, in che vino, in che pozione

annegheremo l’avversario antico,

rovinoso e vorace come una cortigiana,

paziente come una formica?

In che filtro? – in che vino? – in che pozione?

Dillo, strega incantevole, oh! dillo se lo sai,

a questo cuore che l’angoscia opprime:

cosí i feriti in fuga calpestano il morente,

cosí il cavallo lo sovrasta!

Dillo, strega incantevole, oh! dillo se lo sai,

al moribondo che già il lupo fiuta

e il corvo tiene d’occhio,

al soldato in brandelli! se deve disperare

d’aver mai la sua croce, la sua tomba,

povero moribondo che già il lupo fiuta!

A un cielo pece e fango come si può dar luce?

Come si fa a strappare

tenebre cosí dense, senz’alba, senza sera,

senza stelle né funebri bagliori?

A un cielo pece e fango come si può dar luce?

La Speranza che ai vetri della Locanda brilla

è spenta ormai, non ha piú vita!

Senza luna né raggi, scoprire dove i martiri

d’un perfido sentiero hanno riposo!

Nella Locanda il Diavolo ha spento ormai le luci!

Adorabile strega, ti piace chi è dannato?

Conosci ciò che è senza remissione,

e il Rimorso dai dardi avvelenati

cui per bersaglio serve il nostro cuore?

Adorabile strega, ti piace chi è dannato?

Con la sua zanna odiosa rode l’Irreparabile,

monumento pietoso, il nostro cuore,

e spesso attacca, come fan le termiti,

dal fondo l’edificio.

Con la sua zanna odiosa rode l’Irreparabile!

A volte, in un teatro dozzinale

scaldato da un’orchestra fragorosa,

vidi una fata accendere in un cielo infernale

un’alba prodigiosa;

a volte, in un teatro dozzinale,

da un essere nient’altro che d’oro, luce e velo

vidi sconfitto Satana possente...

Ma il mio cuore è un teatro che l’estasi diserta,

dove sempre s’attende, e sempre invano,

l’Essere che di velo ha fatte l’ali!

LV. Conversazione

Sei un bel cielo d’autunno, chiaro e rosa!

Ma in me, simile al mare, si gonfia la tristezza

e lascia, rifluendo, sul mio labbro imbronciato

in cocente ricordo un limo amaro.

– Sul mio petto che langue la tua mano

scivola invano; cerca, amica, un luogo

che con le unghie, coi denti le donne han saccheggiato.

Non cercatelo piú; le belve l’han mangiato.

È, il mio cuore, un palazzo devastato

dalla folla che beve, s’ammazza, s’accapiglia!

– Un profumo galleggia sopra il tuo seno nudo...

Beltà, duro flagello dei cuori, tu lo vuoi!

Coi tuoi occhi di fuoco, risplendenti

come feste, calcina gli avanzi delle belve!

LVI. Canto d’autunno

I.

Presto affondiamo in tenebre di gelo:

luce viva di troppo corte estati, addio!

Già nei cortili sento risuonare

con lugubri tonfi la legna sul selciato.

Dentro di me rovinerà l’inverno

con brividi, odio, orrore, ira, fatica.

Un rosso, gelido blocco diventerà il mio cuore,

come un piccolo sole nel suo inferno polare.

Ascolto con un fremito ogni ciocco che cade,

sorda eco del martello sul patibolo.

Come una torre la mia mente si sgretola

ai grevi, implacabili colpi dell’ariete.

Mi culla, quel battere monotono: è come se qualcuno

da qualche parte, in fretta, inchiodasse una bara.

Per chi? – Ieri era estate; oggi è l’autunno!

Misterioso rumore, segnale del distacco...

II.

Amo dei tuoi lunghi occhi il chiarore verdastro,

dolce beltà, ma tutto oggi mi è amaro,

e niente, amore, alcova o focolare,

vale per me la fiamma del meriggio sul mare.

Ma tu, tenero cuore, amami! a questo perfido

sii madre, a questo ingrato;

sii, amante o sorella, l’effimera dolcezza

d’un autunno glorioso o d’un morente sole.

Breve fatica! Avida, già è in attesa la tomba.

Ah, posare la fronte sul tuo grembo, e la bianca,

la torrida estate piangendo, assaporare

della mezza stagione la luce gialla e mite!

LVII. A una Madonna

ex-voto secondo il gusto spagnolo

Mia signora, Madonna, a te voglio nel fondo

del mio sconforto erigere un altare

e in un buio recesso dell’anima, lontano

dagli affetti mondani, dagli sguardi di scherno,

d’oro e d’azzurro scavare una nicchia

dove meravigliata sorgerà la tua Statua.

Con il terso metallo dei miei Versi

che rime di cristallo tempestano, farò

intorno alla tua testa un’immensa Corona;

e, mortale Madonna, della mia Gelosia

un Manto greve e rigido di barbarica foggia

ti farò, foderato di sospetto,

che come una garitta rinserri le tue grazie;

non di Perle trapunto, ma di Pianto!

Ti darò per Vestito la mia Brama

che monta e scema, e freme come un’onda,

sulle punte vacilla, nei declivi riposa,

e d’un bacio ti avvolge le membra bianche e rosa.

Col mio Rispetto ti farò bei Calzari

di raso, ma umiliati dai tuoi piedi divini,

che, in un morbido abbraccio imprigionandoli,

ne prendano e ne serbino un’impronta fedele.

Se con tutto il mio zelo d’artista non potrò

intagliarti per Sgabello l’argento della Luna,

il Serpente che da dentro mi morde metterò

sotto i tuoi piedi, gonfio di sputi e di livore,

perché tu lo calpesti e lo derida,

o regina vittoriosa, o madre di riscatti!

I miei Pensieri, in fila come Ceri

all’altare fiorito della Vergine Regina,

spruzzeranno di stelle l’azzurro del soffitto

guardando a te con fissi occhi di fiamma.

E poiché tutto in me ti vezzeggia e t’adora,

tutto si farà Mirra e Incenso e Benzoino

e Olíbano, e in Vapori a te, vetta nevosa,

salirà senza posa la Mente tempestosa.

Poi, perché fino in fondo tu faccia la tua parte

di Maria, e la barbarie s’intrecci con l’amore,

trarrò, triste carnefice, dai sette

Peccati capitali, voluttà tenebrosa!,

sette acuti coltelli, e del tuo amore,

giocoliere insensibile, facendomi un bersaglio,

li pianterò profondi nel tuo Cuore che piange,

nel tuo Cuore che gronda, nel tuo Cuore che trema!

LVIII. Canzone pomeridiana

Ti dànno le crudeli

tue sopracciglia un’aria

strana che non è d’angelo, o mia strega

dagli occhi che invischiano... Eppure

ti adoro, creatura

frivola, mia passione tremenda! col fervore

che per l’idolo suo

ha il sacerdote.

Odorano di bosco e di deserto

le trecce grossolane,

s’atteggia la tua testa

ai segreti piú arcani.

Plana sulle tue membra,

come intorno a un turibolo, un profumo,

e, ninfa calda e tenebrosa, incanti

come incanta la sera.

La tua pigrizia vale piú dei filtri

piú portentosi,

fan rivivere i morti

le tue carezze.

S’innamora il tuo fianco del tuo seno,

della tua schiena. Sai

sedurre anche i cuscini

dove languida posi.

A volte, per sfogare

una tua rabbia misteriosa,

assieme, intenta,

prodighi morsi e baci.

E mi strazi, mia bruna,

col tuo riso di scherno – e poi nel cuore

mi discende il tuo sguardo

dolce come la luna.

Davanti ai tuoi bei piedi,

seta che il raso calza,

depongo la mia gioia

che trabocca, il mio genio, il mio destino,

l’anima che hai guarita,

luce, colore,

vampata di calore

nella nera Siberia del mio cuore!

LIX. Sisina

Pensate Diana in compagnia cortese

battere la foresta o la boscaglia,

capelli e seno al vento, ebbra di quel clamore,

con cavalieri eccelsi gareggiando superba;

o Théroigne, amante dei massacri,

lacere folle spingere all’assalto

e, occhi e gote di fuoco, personaggio di sé,

salire, spada in pugno, scalinate regali...

Cosí è Sisina! Ma in lei, dolce guerriera,

stanno insieme ferocia e carità;

il suo coraggio, sferzato da polvere e tamburi,

s’arrende a chi la supplica, e nel cuore

devastato dal fuoco resta sempre

una scorta di lacrime per chi ne sembri degno.

LX. Franciscae meae laudes

Ti canterò su nuove

corde, o giovane brolo

che scherzi nel mio cuore.

A te ghirlande, donna

di delizia che mondi

noi dei nostri peccati!

Da te, benefico Lete,

da te, soffusa calamita,

attingo acqua di baci.

Nella tempesta dei vizi

si confondeva ogni cammino: allora

tu sei comparsa, o Dea,

stella della salvezza

in un naufragio amaro... Poserò

sul tuo altare il mio cuore!

Piscina colma di virtú, fontana

d’eterna giovinezza,

dà nuova voce alle mie labbra mute!

Tu che hai arso lo sporco,

spianato l’ineguale,

rafforzato il precario,

tu mensa alla mia fame,

lampada alla mia notte,

guidami sempre alla piú giusta meta!

Aggiungi forza a forza,

o vaso di dolcezza, ricettacolo

di profumi soavi!

Intorno ai fianchi splendimi,

di castità lorica,

tinta d’acqua serafica;

coppa di gemme scintillante, sapido

pane, tenera esca,

divino vino, Francesca!

LXI. A una signora creola

Nella terra odorosa carezzata dal sole,

sotto alberi purpurei e palme d’oro

che spiovono pigrizia sugli occhi, ho conosciuto

una signora creola dalle grazie ignorate.

Caldo pallore è il viso; s’atteggia nobilmente

il collo della bruna incantatrice;

alta e svelta cammina come una cacciatrice,

e il sorriso è tranquillo e gli occhi arditi.

Se, o Signora, venissi nella culla di gloria

dove son Senna e Loira, diverresti

degli antichi castelli il piú degno ornamento,

e in ombrosi recessi dal cuore dei poeti,

resi dai tuoi grandi occhi piú schiavi dei tuoi neri,

mille e mille sonetti faresti germogliare.

LXII. Moesta et errabunda

Dimmi, Agathe, qualche volta non ti vola via il cuore,

via dall’oceano nero dell’immonda città,

verso un diverso oceano acceso di splendore,

piú chiaro, azzurro e fondo della verginità?

Dimmi, Agathe, qualche volta non ti vola via il cuore?

Il mare, il vasto mare consola i nostri affanni!

Da qual demone ha avuto l’incarico sublime

di cullarci, arrochito cantante che accompagna

dei burberi venti l’organo smisurato?

Il mare, il vasto mare consola i nostri affanni!

Treno, portami via! rapiscimi, vascello!

Va’ lontano! qui il fango dei nostri pianti è intriso.

– Non è vero che a volte il triste cuore

d’Agathe dice: Ai rimorsi, ai crimini, ai dolori,

treno, portami via, rapiscimi, vascello?

Ah! come sei lontano, paradiso d’odori

dove sotto l’azzurro non c’è che amore e gioia,

dove è degna d’amore ogni cosa che s’ama

e nel puro piacere annega il cuore!

Ah! come sei lontano, paradiso d’odori!

Ma il verde paradiso degli amori infantili,

le corse, i baci, i fiori raccolti, le canzoni,

i violini che vibrano di là dalla collina

e a sera, sotto gli alberi, il vino nei boccali

– ma il verde paradiso degli amori infantili,

cosí innocente e colmo di piaceri furtivi,

già è piú lontano dunque dell’India e della Cina?

Possiamo richiamarlo con i nostri lamenti,

può dargli nuova vita una voce argentina,

paradiso innocente di piaceri furtivi?

LXIII. Il fantasma

Tornerò, come gli angeli dall’occhio

di belva, nel tuo letto,

ti sguiscerò senza rumore accanto

con le ombre della sera,

o mia bruna! e i miei baci ti saranno

freddi come la luna

e le carezze come d’un serpente

che striscia su una fossa.

Alla livida luce del mattino

vedrai vuoto il mio posto

che fino a sera resterà di gelo.

Altri con la dolcezza, io col terrore

voglio regnare

sulla tua giovinezza e la tua vita!

LXIV. Sonetto d’autunno

Mi dicono i tuoi occhi, chiari come il cristallo:

«Cosa apprezzi di me, mio strano amante?»

– Sii bella e taci! Il cuore, di tutto insofferente

tranne che dell’antica innocenza animale,

di sé non vuol mostrarti il segreto infernale,

o tu, tu la cui mano mi culla lungamente!

né la nera leggenda scritta col fuoco. Aborro

la passione, lo spirito m’affligge! Dolcemente

amiamoci. L’Amore, sentinella in agguato

nella buia garitta, tende l’arco fatale.

Li conosco gli arnesi del suo vecchio arsenale:

pazzia, orrore, delitto! – Pallida margherita,

anche tu, come me, sei un sole autunnale,

o mia bianca, mia fredda Margherita?

LXV. Tristezze della luna

Piú pigra, questa sera, sta sognando la luna:

bellezza che su un mucchio di cuscini,

lieve e distratta, prima di dormire

accarezza il contorno dei suoi seni,

sulla serica schiena delle molli valanghe,

morente, s’abbandona a deliqui infiniti,

e volge gli occhi là dove bianche visioni

salgono nell’azzurro come fiori.

Quando su questa terra, nel suo pigro languore,

lascia che giú furtiva una lacrima fili,

un poeta adorante e al sonno ostile

nella mano raccoglie quell’umido pallore

dai riflessi iridati d’opale, e lo nasconde

lontano dagli occhi del sole, nel suo cuore.

LXVI. I gatti

L’ardente innamorato, il dotto austero

amano entrambi, nell’età matura,

i gatti dolci e possenti, orgoglio della casa,

freddolosi e imboscati come loro.

Amici della scienza e del piacere,

cercano il silenzio e l’orrore del buio,

galoppini ideali dell’Erebo se, fieri

come sono, a servire potessero adattarsi.

S’atteggiano, pensosi, nobilmente,

come le grandi sfingi solitarie

immerse, sembra, in sogni senza fine;

feconde le reni, e piene di magiche scintille;

e, come sabbia fine, minime parti d’oro

vagamente costellano le mistiche pupille.

LXVII. I gufi

Sotto gli scuri tassi, loro asilo,

i gufi stanno in fila, dardeggiando

rosse pupille,

simili a iddii stranieri. Meditando.

Rimarranno cosí, senza spostarsi,

fin quando, melanconiche

spingendo via l’obliquo sole,

scenderanno le tenebre.

Da loro impara il saggio

che deve a questo mondo aver paura

del tumulto e del moto;

d’un’ombra che passa ebbro, poi per sempre

sconta l’uomo il castigo

d’aver voluto muoversi.

LXVIII. La pipa

Sono una pipa, sono

d’uno scrittore. Guarda la mia faccia

cafra o abissina,

capirai quanto fuma il mio padrone.

Se il dolore l’opprime,

io fumo come fuma una capanna

dove cuoce la cena

per chi torna dai campi.

Gli cinge e culla l’anima la rete

mobile e cilestrina che si leva

dalla mia bocca in fiamme

e incantano il suo spirito le spire

d’un dittamo potente, e d’ogni affanno

fanno lieve il suo cuore.

LXIX. La musica

Quante volte la musica m’afferra come un mare!

Alla pallida stella

sotto un arco di bruma o nell’etere immenso

volgo la vela;

proteso il petto in avanti, come tela

gonfi i polmoni,

scalo dei flutti l’ispida catena

che la notte mi vela.

Ogni passione sento in me vibrare

d’una nave che soffre;

il vento propizio, la convulsa tempesta

sul precipizio enorme

mi cullano. Altre volte bonaccia, vasto specchio

del mio tormento...

LXX. Sepoltura

Se in una greve notte oscura

per carità ti sotterrasse, corpo

magnificato,

dietro un po’ di macerie un buon cristiano,

quando le caste stelle

abbassano le ciglia sonnolente

il ragno ci farebbe la sua tela,

la vipera il suo nido,

e sulla testa condannata

per tutto l’anno sentiresti i lupi

ululare pietosi

con le streghe fameliche,

e lubrici vecchiacci darsi alla pazza gioia

e neri ladri complottare.

LXXI. Incisione fantastica

Strano fantasma, altro non lo riveste

che un diadema, grottesco, orrido segno

di carnevale sulla fronte di scheletro.

Non ha speroni né frusta, eppure sfianca

un cavallo, spettro anche lui, ronzino

d’apocalisse con bava da epilettico!

E sprofondano insieme nello spazio,

percuotendo l’infinito con zoccoli rischiosi;

sulla folla senza nome che il cavallo calpesta

mulina il cavaliere la sua spada di fuoco

mentre passa in rassegna, come un re la sua reggia,

l’immenso cimitero dove dorme

la gente dell’antica, della moderna storia

sotto i raggi d’un sole bianco e smorto.

LXXII. Il morto allegro

In una terra grassa e piena di lumache

mi scaverò da solo una fossa profonda

dove comodamente distenderò le vecchie ossa

e dormirò come uno squalo nell’onda dell’oblio.

Odio i testamenti come odio i sepolcri;

pur di non mendicare dalla gente una lacrima

inviterei da vivo tutti i corvi

sulla mia immonda carcassa a un banchetto cruento.

E a voi, neri compagni senz’occhi e senza orecchie,

vermi! il piú allegro e libero dei morti si presenta;

figli della putrefazione, saggi libertini,

andate, andate pure nel mio sfacelo e ditemi

se questo vecchio corpo senza anima, morto

fra i morti, può patire altre torture!

LXXIII. Il vaglio delle Danaidi

Odio, sei come il vaglio delle smorte Danaidi:

la folle Vendetta dal braccio rosso e forte

inutilmente butta nelle tue cave tenebre

secchi e secchi di sangue, di lacrime dei morti.

Il Diavolo sul fondo fa dei buchi segreti;

da lí passano millenni di fatiche e sudori,

e a nulla servirà che tu ravvivi le tue vittime,

resuscitando i loro corpi per tormentarli ancora.

Sei come l’ubriaco, che in fondo a una taverna

sente da ciò che beve rinascere la sete

e moltiplicarsi come l’idra di Lerna.

– Ma chi beve, felice, conosce chi lo vince;

a te, misero Odio, nemmeno la speranza

di crollare addormentato sotto il tavolo, mai!

LXXIV. La campana crepata

Com’è amaro, e dolce, nelle notti d’inverno,

vicino al fuoco che fuma e palpita, ascoltare

i ricordi remoti alzarsi piano al canto

delle campane sparse nella bruma!

Invidio la campana dalla gola possente

che, a dispetto degli anni, con alacre vigore

è capace di lanciare il suo grido di fede,

come un vecchio soldato insonne fra le tende.

Io no: s’è crepata la mia anima, e quando

vuole, nelle sue ambasce, popolare di canti

il freddo della notte, la sua voce infiacchita

è come il sordo rantolo del soldato ferito

che in un lago di sangue, sotto un monte di morti,

dimenticato e immobile si sforza di morire.

LXXV. Spleen

Piovoso, a tutti i cittadini ostile,

versa a fiotti dall’urna un freddo tenebroso

sui diafani abitanti del vicino cimitero

e moría sulla nebbia dei sobborghi.

Magro, rognoso s’agita il mio gatto

cercando inquieto un giaciglio sui mattoni;

scorre nella grondaia l’anima d’un poeta,

vecchio, triste fantasma freddoloso.

Geme il bordone, il ceppo affumicato

accompagna in falsetto la pendola arrochita,

e in un mazzo di carte dall’atroce profumo,

eredità fatale d’un’idropica morta,

il bel fante di cuori e la dama di picche

discorrono sinistri di defunte passioni.

LXXVI. Spleen

Ho dentro piú ricordi che se avessi mill’anni.

Un gran mobile ingombro di verbali e romanze,

letterine d’amore, bilanci, poesie

e grevi ciocche avvolte in ricevute,

non nasconde i segreti che nasconde

il mio triste cervello. È una cripta, una piramide

immensa, con piú morti della fossa comune...

– Io sono un cimitero che la luna aborrisce

e dove lunghi vermi vanno, come rimorsi,

all’assalto dei morti che ho piú cari;

un salotto decrepito, gremito

d’oggetti fuori moda fra le rose appassite,

i pastelli lagnosi, i pallidi Boucher

che profumano, soli, come boccette aperte.

Niente uguaglia in lunghezza quei giorni zoppicanti

che sotto i fiocchi grevi delle annate di neve

la noia, triste frutto dell’incuriosità,

prende misura d’immortalità.

– E tu ormai non sei altro, materia della vita!

che un granito assediato da un labile terrore,

immerso nella bruma d’un Sahara profondo;

vecchia sfinge obliata dal mondo indifferente

e che le mappe ignorano e soltanto

ai raggi del tramonto ferocemente canta!

LXXVII. Spleen

Sono un principe che regna su un paese di piogge.

Ricco e impotente, giovane e vecchissimo,

disprezzo dei precettori le moine servili

e m’annoio dei cani come delle altre bestie.

Né selvaggina né falco mi rallieta,

né il popolo che muore sotto le mie finestre.

Non distrae la mia fronte di malato crudele

la grottesca ballata del mio buffone preferito;

il mio letto di fiordalisi si muta in una tomba,

e le dame, per le quali ogni principe è bello,

non trovano vestiti abbastanza impudichi

per strappare un sorriso a questo scheletro precoce.

Il savio che è riuscito a fabbricarmi l’oro

non è capace di estirpare la corruzione dal mio corpo,

né di scaldare in quei bagni di sangue

che imparammo dai Romani, e che i potenti invocano

da vecchi, questa salma inebetita

dove non scorre sangue, ma verde acqua del Lete.

LXXVIII. Spleen

Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve

schiaccia l’anima che geme nel suo tedio infinito,

e in un unico cerchio stringendo l’orizzonte

fa del giorno una tristezza piú nera della notte;

quando la terra si muta in un’umida segreta

dove la Speranza, timido pipistrello,

sbatte le ali nei muri e dà la testa

nel soffitto marcito;

quando le strisce immense della pioggia

sembrano le inferriate d’una vasta prigione

e muto, ripugnante un popolo di ragni

dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,

furiose a un tratto esplodono campane

e un urlo tremendo lanciano verso il cielo

che fa pensare al gemere ostinato

d’anime senza pace né dimora.

– Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali

a lungo, lentamente nel mio cuore: Speranza

piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra,

va a piantarmi sul cranio la sua bandiera nera.

LXXIX. Ossessione

Vi temo, grandi boschi, come le cattedrali:

urlate come l’organo; e nei cuori dannati,

stanze d’eterno lutto e di rantoli antichi,

ci rispondono gli echi dei vostri De profundis.

Oceano, ti detesto! ritrovo i tuoi tumulti

dentro il mio petto, e sento di chi è vinto

l’amaro riso, pieno di singhiozzi e di insulti,

nel tuo ridere enorme.

Potrei amarti, o notte! se il lume delle stelle

non dicesse parole troppo note

a me che cerco tenebre, e vuoto, e nudità.

Ma anche il buio è un quadro dove vivono,

a migliaia sgorgando dal mio occhio, creature

scomparse dagli sguardi familiari.

LXXX. Il gusto del nulla

Spirito triste, innamorato un tempo

della lotta – Speranza, che ti dava di sprone,

non vuol piú cavalcarti... Piega senza pudore

le ginocchia, ronzino che inciampi in ogni ostacolo!

Rasségnati, mio cuore, al tuo sonno bestiale.

Spirito affranto, bolso, antico razziatore,

per te non han piú gusto né l’odio né l’amore.

Clangore degli ottoni, pianto del flauto, addio!

Non tentarlo, piacere, questo cuore ingrugnato.

La vaga Primavera ha perduto il suo odore.

E piú il Tempo m’inghiotte di minuto in minuto,

come la neve un corpo irrigidito;

non cerco piú rifugio in una tana, ormai:

vedo il mondo dall’alto, tondo, intiero!

Vuoi portarmi, valanga, con te nella rovina?

LXXXI. Alchimia del dolore

Uno t’imbianca col suo ardore,

l’altro ti dà il suo lutto, Natura!

Ciò che per uno è sepolcro

per l’altro è vita e splendore.

Ermes che ignoto m’assisti

e che mi hai sempre intimidito,

simile a Mida mi rendi,

con la sua triste alchimia;

fai sí che l’oro in ferro io muti

e in inferno il paradiso;

nel sudario delle nubi

scopro una salma adorata

e sulle rive celesti

erigo case per i morti.

LXXXII. Simpatia dell’orrore

Da questo cielo livido, strano,

confuso come il tuo destino,

che pensieri ti scendono nel cuore

deserto? parla, libertino.

– Assetato, mai sazio

dell’incerto e dell’oscuro,

non piangerò come Ovidio

scacciato dall’eden latino.

In voi, squarciati come greti,

o cieli, il mio orgoglio si mira;

le vostre lunghe nubi a lutto

sono i carri da morto dei miei sogni,

nei vostri fuochi si riflette

l’Inferno, gioia del mio cuore.

LXXXIII. Heautontimorumenos

A J.G.F.

Ti batterò senza rabbia

né odio, come un beccaio

o come Mosè la sua roccia!

E dai tuoi occhi farò,

per dissetare il mio Sahara,

scorrere flutti di pena.

Sull’acqua salsa del tuo pianto

salperà la mia nave

di desiderio e speranza,

e i tuoi singhiozzi che adoro

come un tamburo di guerra

daranno l’ebbrezza al mio cuore.

Non sono io la nota che stride

nella divina sinfonia,

per questa vorace Ironia

che mi divora e m’intride?

Lei ringhia qui, nella mia voce!

È nel mio sangue quel veleno!

Sí, sono io lo specchio osceno

dove la strega si mira!

Sono la piaga e il coltello,

la guancia e la percossa!

Sono la vittima e il boia,

lo slogatore e le ossa!

Sono il vampiro del mio cuore

– un gran derelitto che al riso

dannato è in eterno, e non ha

la grazia piú d’un sorriso!

LXXXIV. Senza scampo

I.

Pensa a una Forma, a un Essere, a un’Idea

che dall’azzurro cade in uno Stige

di piombo e fango

dove occhio celeste non filtra;

a un Angelo, imprudente viaggiatore

tentato dall’amore del difforme,

che in fondo a un incubo enorme

come uno che nuota si dibatte

e, o funebre angoscia! un risucchio

gigantesco combatte

che come un matto, nel buio,

strepita e salta;

allo stregato che invano

brancola, poveraccio, per fuggire

da un buco pieno di rettili

verso una chiave, una luce;

al dannato che scende

senza lanterna

lungo un fetido, fondo, umido abisso,

giú giú per scale senza rampe, eterne,

dove dei mostri viscidi, in agguato,

fan con occhi di fosforo la notte

ancor piú buia, e dànno

traccia di sé soltanto;

a una nave che il polo

intrappola, prigione di cristallo,

e cerca di scoprire

per che stretto fatale ci è finita:

– chiari emblemi, impeccabile

ritratto d’un destino senza scampo,

che dimostra che il Diavolo

fa sempre bene tutto quel che fa!

II.

Colloquio limpido e oscuro

d’un cuore di sé fatto specchio

Pozzo di Verità, buio chiarore

dove una livida stella

vacilla, faro ironico, infernale,

fiaccola di sataniche

grazie, sollievo e gloria senza pari,

– la coscienza nel Male!

LXXXV. L’orologio

Orologio – implacabile, sinistro

iddio che un dito alza a minaccia e dice:

«Ricorda: presto i Mali piomberanno

sul pavido bersaglio del tuo cuore;

in veloci vapori si squaglierà il Piacere,

silfide che fra le quinte si dilegua;

ogni istante corrode il capitale di delizie

che per tutta la vita spetta all’uomo.

Trentasei volte cento in un’ora i sussurri:

Ricorda! – e Adesso, breve stridio d’insetto, dice:

Sono l’Appena-stato; la mia tromba

ha prosciugato, immonda, la tua vita!

Ricorda, spendaccione! Remember! Esto memor!

(Parlo tutte le lingue con la mia gola di metallo).

O sventato mortale, un minuto è una ganga

che non devi lasciare senza cavarne l’oro.

Ricorda: giocatore avido, il Tempo

non ha bisogno di barare per vincere ogni mano.

Cresce la notte, il giorno s’assottiglia,

l’abisso ha sempre sete, la clessidra si svuota.

Suonerà presto l’ora che dal Caso divino

e dall’angusta e vergine tua sposa, la Virtú,

e fin dal Pentimento, l’ultimo asilo! udrai:

S’è fatto tardi. Muori, povero vecchio vile!»