LXXXVI. Paesaggio
Per comporre i miei versi in castità
voglio, come gli astrologhi, stare attaccato al cielo,
vicino alle campane, e ascoltare sognando
i loro inni solenni portati via dal vento.
Da lassú, con le mani sotto il mento,
guarderò l’officina pettegola e canora,
camini e campanili, pennoni di città,
e attingerò dai cieli sogni d’eternità.
È dolce, tra le brume, veder nascere
la stella nell’azzurro, la luce alla finestra,
i fiumi di carbone andar su verso il cielo
e il suo smorto incantesimo effondere la luna.
Guarderò primavere, estati, autunni, e quando
arriverà l’inverno, monotono di nevi,
chiuderò tende e imposte, tapperò ogni fessura,
e alzerò nella notte fantastiche dimore.
Là sognerò orizzonti cilestrini,
e parchi, e su alabastri zampilli di fontane,
e uccelli che cinguettano sera e mattina, e baci,
e tutto quello che di piú infantile
c’è nell’Idillio. Tempestando ai vetri
non potrà dal mio tavolo distrarmi la Sommossa,
giacché sarò sepolto nel piacere
di fare Primavera con la mia volontà,
di tirar fuori un sole dal mio cuore,
di intiepidire l’aria col fuoco dei pensieri.
LXXXVII. Il sole
Lungo i vecchi sobborghi, che a lussurie segrete
dietro imposte cadenti dànno asilo,
quando raddoppia il sole i suoi dardi crudeli
sulla città e sui campi, sui tetti e sulle spighe,
alla mia scherma fantastica m’esercito, fiutando
a ogni angolo gli azzardi della rima,
e come in sassi incespico in parole
per imbattermi, a volte, in un verso sognato.
Ostile a ogni clorosi, l’almo padre
sveglia nei campi i vermi come sveglia le rose;
fa che tutti gli affanni svaporino nel cielo
e cervelli e alveari trabocchino di miele.
È lui che agli storpi toglie il peso degli anni
e li fa dolci e gai come fanciulle,
e ordina alle messi d’esser grandi e mature
nell’anima immortale che vuol sempre fiorire!
Quando, come il poeta, discende nelle strade,
fa nobile la sorte delle cose piú vili,
e da re, senza seguito o clamore,
visita ogni ospedale e ogni dimora.
LXXXVIII. La mendicante rossa
Bianca di carne, rossa di capelli,
ragazza che dai buchi della veste
mostri la tua bellezza
e la tua povertà,
per il gramo poeta che io sono
il tuo gracile corpo di bambina
lentigginosa ha
la sua dolcezza.
Hai piú grazia a portare,
tu, i pesanti tuoi zoccoli
che una regina da romanzo
i suoi coturni di velluto.
E se al posto di questo
straccio che non ti copre,
giú giú fino ai talloni ti scendesse
un vestito superbo in pieghe fragorose;
e invece di quei buchi nelle calze
lucesse ancora agli occhi dei compagni
di gozzoviglia dei potenti
un bel pugnale d’oro:
e nodi mezzo sfatti
per i nostri peccati
svelassero i tuoi seni luminosi
come pupille;
e prima di spogliarti
le tue braccia sapessero negarti
e scacciassero a colpi maliziosi
le dita impertinenti,
perle di luce pura,
sonetti ben rimati
da spasimanti messi alla tortura
offerti senza posa,
poeti da strapazzo
dedicanti primizie,
contemplanti dal basso delle scale
i tuoi calzari,
ah quanti paggi arditi,
Ronsard e gran signori,
farebbero la posta per diletto
alla tua fresca alcova!
Avresti piú copiosi
baci che gigli fra le tue lenzuola,
e faresti marciare ai tuoi comandi
piú d’un Valois!
– Invece ti trascini nei quadrivi
a mendicare avanzi
buttati sulla soglia
d’un’osteria;
e appena osi sbirciare
gioie da un soldo
che non posso (oh, perdono!)
offrirti in dono.
Va’ dunque senza orpelli,
perle, pietre, profumi
altri che la tua magra nudità,
o mia beltà!
LXXXIX. Il cigno
A Victor Hugo
I.
È a te che penso, Andromaca! Quello stento fiume,
misero, opaco specchio dove un tempo
rifulse, immensa, la maestà del tuo dolore,
Simoenta bugiardo gonfiato dal tuo pianto,
nel traversare il nuovo Carosello, d’un tratto
fecondò la mia fertile memoria. Parigi,
la vecchia Parigi è sparita (piú veloce d’un cuore,
ahimè, cambia la forma d’una città); soltanto
la mente adesso vede la distesa
delle baracche, i mucchi di fusti e capitelli
sbozzati, l’erba, i massi che le pozze inverdiscono,
il bric-à-brac confuso che dai vetri riluce.
Là sorgeva un serraglio; là un mattino,
all’ora che sotto un alto, algido cielo
il Lavoro si sveglia e dalle strade
s’alza un cupo uragano nell’aria silenziosa,
vidi un cigno, fuggito dalla sua gabbia, l’arido
selciato raspando con i piedi palmati,
le bianche piume strascinare al suolo.
Aprendo a un secco rigagnolo il becco, l’animale
bagnava convulso le ali nella polvere
e con il cuore colmo del suo lago natale,
quando, pioggia, cadrai? quando, diceva,
tuonerai, folgore? Mito strano e fatale,
lo vedo, l’infelice, come l’uomo d’Ovidio,
al cielo crudelmente azzurro e ironico
sul frenetico collo tender l’avida testa,
a tratti, come a rimbrottare Dio!
II
Parigi cambia! ma niente, nella mia melanconia,
s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature,
case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria;
pesano come rocce i ricordi che amo.
Cosí, davanti al Louvre, m’opprime una figura:
penso al mio grande cigno, ai gesti folli
che faceva, esule comico e sublime
che un desiderio morde senza fine – e a te,
Andromaca! dall’abbraccio d’un grande sposo rotolata,
deprezzato agnello, nelle mani orgogliose
di Pirro, e china in estasi su una tomba deserta;
vedova d’Ettore, ahimè! e d’Eleno consorte!
Penso alla negra tisica e smagrita
che pestando nel fango s’affanna, stralunata,
dietro l’immenso muro della nebbia a vedere
gli assenti alberi di cocco dell’Africa superba;
a chi ha perduto ciò che non si trova
mai piú, mai piú! e s’abbevera di pianto
e succhia latte al Dolore come a una buona lupa!
ai magri orfani, secchi come fiori!
Nel bosco, dove il mio cuore va esule, cosí
risuona alto il richiamo di un antico Ricordo!
Penso ai marinai obliati su un’isola,
ai prigionieri, ai vinti... ad altri, ad altri ancora!
XC. I sette vecchioni
A Victor Hugo
Città brulicante, piena di sogni, dove
in pieno giorno gli spettri adescano i passanti!
Nel colosso possente, per le vene
come umori vischiosi colano i misteri.
Un mattino che nella triste strada
sembravano le case, per la bruma, piú alte
e d’un fiume in piena fingevano le sponde
e, scenario che al cuore dell’attore somiglia,
di sporca, gialla nebbia lo spazio era gremito,
lungo il corso agitato da pesanti carrette
scendevo, tesi i nervi eroicamente,
discutendo con l’anima già stanca.
Di colpo, un vecchio, che per gialli stracci
faceva a gara col cielo piovoso,
tale che di elemosine l’avrebbero coperto
se cattiveria nei suoi occhi non avesse brillato,
mi comparve davanti. L’occhio sembrava immerso
nel fiele; aguzzavano il gelo le sue occhiate;
di lunghi peli, rigida spada, la sua barba
come quella di Giuda era sporgente.
Non curvo, ma spezzato: la sua schiena
formava con le gambe angolo retto
tanto che, ultimo tocco, il suo bastone
gli procurava l’aria e la goffa andatura
d’un quadrupede infermo o d’un ebreo a tre zampe.
Nella neve, nel fango, incespicando
e come, con gli zoccoli, calpestando dei morti,
andava, al mondo, piú che estraneo, ostile.
Un altro lo seguiva: barba, schiena, bastone, stracci, sguardo,
niente lo distingueva dal primo, scaturito,
gemello centenario, da un solo inferno; andavano,
spettri barocchi, in coppia verso una meta ignota.
In che infame complotto ero dunque caduto,
o che perfido caso mi umiliava? Di minuto in minuto
la moltiplicazione di quel vecchio sinistro
fino a sette m’accadde di contare!
Pensi chi si fa beffe del mio scompiglio, chi
non è scosso da un brivido fraterno,
pensi che avevano, quei sette orridi mostri, l’aria
d’essere, in tanto decomporsi, eterni!
Avrei, senza morire, potuto contemplare
l’ottavo, implacabile sosia, ironico e fatale,
di se stesso, ripugnante Fenice, padre e figlio?
– Ma al corteggio infernale do le spalle.
Sconvolto come un ubriaco che vede doppio, vado
a casa, mi tiro dietro l’uscio, morto di spavento,
malato e pieno di freddo, torbido di febbre,
piagato dall’assurdo e dal mistero!
Invano cercava, la mia mente, di prendere il timone:
soffiava via i suoi sforzi la tempesta, e il mio cuore
ballava e ballava, vecchia chiatta in balía
di un oceano mostruoso e senza fine!
XCI. Le piccole vecchie
A Victor Hugo
I.
Nelle pieghe sinuose delle vecchie capitali
dove tutto t’incanta, anche l’orrore,
tengo d’occhio, da miei fatali umori astretto,
creature decrepite, curiose, affascinanti.
Quei mostri sconquassati erano donne
un tempo: Laide, Epònina! – Contorti,
piegati, gobbi... Amiamoli: sono anime ancora.
Sotto vesti bucate e freddi scialli,
da iniqui venti flagellati, arrancano,
sussultano al fragore degli omnibus, si stringono,
ricamata reliquia, contro il petto
una borsetta a indovinelli o a fiori;
trotterellano, simili a marionette; si trascinano
come animali moribondi; oppure
senza volerlo ballano, ballano, poveri batacchi
che uno spietato diavolo scampana! Cosí
come sono ridotte, a pezzi, hanno occhi-succhielli,
lucenti cavità dove l’acqua a notte si riposa,
divini occhi di bambina che si stupisce e ride
di ogni cosa che brilla. – Molte bare
di vecchie, l’avete mai notato? sono piccole
quasi come le bare dei bambini.
La Morte, che la sa lunga, deve metterci un segno
d’un gusto buffo, accattivante... e io
quando le vedo, vacillanti fantasmi, attraversare
la tela brulicante di Parigi,
penso sempre che vadano, fragili creature,
un passettino dopo l’altro verso una nuova culla;
a meno che, per geometria, non mi metta a contare,
considerando quelle membra astruse, quante volte
al falegname toccherà variare
la forma della cassa che prima o poi le accoglie.
– O pozzi da un milione di lacrime formati,
crogiuoli che un metallo, raffreddando, ha screziati...
Occhi, occhi dal fascino misterioso, fatale
per chi ha succhiato il latte dell’austera Sventura!
II.
Di Frascati defunto Vestale innamorata;
sacerdotessa di Talia che, ahimè! solo un sepolto
suggeritore sa chi sia; svampita
famosa, all’ombra di Tivoli fiorita,
sí, di tutte m’inebrio! ma fra loro, fragili creature,
ce n’è che in miele mutando il dolore
a Devozione, che offriva le sue ali, han gridato:
portami, Ippogrifo possente, con te in cielo!
Una, dalla patria allenata a sventure,
l’altra, dal marito sfiancata di dolori,
l’altra, dal figlio trapassata Madonna,
potrebbero, di pianto, fare un fiume!
III.
Di queste vecchie, ah, quante ne ho seguite!
Una, fra le altre: all’ora che il tramonto
di un sangue di ferite arrossa il cielo,
appartata, pensosa su una panchina era seduta
a sentire uno di quei concerti, fragorosi d’ottoni,
di cui a volte i soldati inondano i giardini,
e che in sere dorate, quando l’anima rinasce,
versano un po’ d’eroismo in cuore ai cittadini.
Diritta, ancora, e fiera, e al ritmo attenta,
quel vivo canto di guerra fiutava avidamente;
a guizzi, come a una vecchia aquila, le si aprivano gli occhi;
la sua fronte di marmo sembrava per l’alloro!
IV.
E cosí ve ne andate, stoiche e senza lamenti,
attraverso l’inferno della città che vive,
madri dal cuore piagato, cortigiane o sante
il cui nome correva un tempo su ogni bocca.
Voi che foste la grazia, voi che foste la gloria,
nessuno vi ravvisa! uno sbronzo incivile
vi insulta, passando, col suo amore per burla,
vi tallona a saltelli un ragazzaccio vile.
Vergognose d’esistere, ombre paurose,
aggricciate, sfiorate a spalle chine i muri;
nessuno vi saluta, strani destini, avanzi
d’umanità maturi per l’eterno!
Ma io, io che con tenerezza da lontano
vi sorveglio, inquieto ai vostri incerti passi,
quasi vi fossi padre, o meraviglia!
assaporo furtivo piaceri clandestini:
vedo schiudersi in voi primizie di passioni;
vivo, cupi o abbaglianti, i vostri giorni antichi;
gode ogni vostro vizio il mio multiplo cuore,
risplende la mia anima di ogni vostra virtú!
Ruderi, mia famiglia, cervelli del mio stampo!
vi do ogni sera il mio solenne addio!
Dove sarete domani, Eve ottuagenarie
su cui pesa l’artiglio terribile di Dio?
XCII. I ciechi
Guardali bene, cuore: fanno proprio spavento!
Simili ai manichini; vagamente ridicoli;
come i sonnambuli strani, tremendi come loro;
e chissà dove dardeggianti quelle palle di buio.
Disertati dalla fiamma divina, i loro occhi
s’alzano, come fissi a una distanza, al cielo:
mai, mai verso il selciato li si vede
abbassare pensosi la testa appesantita.
È cosí che camminano nel nero illimitato,
che del silenzio eterno è fratello. O città!
mentre a noi tutt’intorno tu canti, sbraiti e ridi
atrocemente presa dal piacere,
anch’io, vedi, mi trascino! ma, piú ebete di loro,
dico: cosa mai cercano, tutti quei ciechi, in Cielo?
XCIII. A una passante
Ero per strada, in mezzo al suo clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.
Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d’una scultura antica. Ossesso, istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.
Un lampo... e poi il buio! – Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò piú dunque che al di là della vita,
che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t’avrei amata, e so che tu lo sai!
XCIV. Lo scheletro contadino
I.
Nelle tavole d’anatomia
sparse sui lungosenna polverosi
fra tutti quei libri-cadaveri
come mummie assopiti,
disegni dove il sapere
grave d’un vecchio artista
ha messo del Bello a dispetto
del lugubre soggetto,
si vedono, a completare
quei misteriosi orrori,
Scheletri e Scorticati
usar la vanga come contadini.
II.
Da quella terra che scavate,
o rassegnati, funebri villani,
con tanto sforzo di vertebre
o muscoli scuoiati,
dite, che strana messe,
forzati tolti all’ossario,
tirate fuori, e a che fittavolo
dovete riempire il granaio?
Volete (d’un duro destino
atroce, limpido emblema!)
dirci che neanche sotterra
il sonno promesso è sicuro,
che il Nulla tradisce, che tutto
ci inganna, persino la Morte,
e forse, ahimè, senza fine
in qualche ignoto paese
ci toccherà scorticare
questa intrattabile terra
e spingere greve una vanga
col sanguinante piede nudo?
XCV. Il crepuscolo della sera
L’incantevole sera, amica del delitto, ecco venire
a complici passi di lupo. L’orizzonte
si chiude lentamente come un’immensa alcova,
l’uomo impaziente si trasforma in belva.
Sera, amabile sera, vagheggiata
da chi, senza mentire, può dire alle sue braccia:
Quanto lavoro avete fatto! – sollievo per i cuori
che un dolore selvaggio azzanna, per le fronti
che un testardo sapere fa piú grevi,
per l’operaio che torna, curvo, verso il suo letto!
Nell’aria, intanto, demoni malsani
si svegliano come gente d’affari, pesantemente, e in volo
sbattono contro imposte e pensiline.
Fra luci incerte, frastagliate dal vento, nelle strade
riprende vita la Prostituzione:
spalanca, formicaio, mille uscite;
scava ovunque, nemico che tenta una sortita,
misteriosi sentieri;
s’agita nelle vene della città di fango
come un avido verme dentro il corpo dell’Uomo.
Senti, qua e là, soffiare le cucine,
abbaiare teatri, ronfare le orchestrine;
nelle pensioni, allietate dal gioco, si raduna
copia di prostitute e di ruffiani,
e anche i ladri, che non si danno pace,
avranno presto il solito da fare
a forzare pian piano cassette e serrature
per campare qualche giorno, per vestire le amanti.
Raccogliti, mio cuore, in questo grave istante,
non dare ascolto a quel ruggito. È l’ora
che i malati peggiorano! la Notte
li prende, cupa, alla gola: per ciascuno
il destino si compie nell’abisso comune,
nella corsia gremita di sospiri. – Piú d’uno
non potrà piú cercare la minestra odorosa,
la cena accanto al fuoco, a un cuore che ama.
E piú ancora son quelli che non han mai saputo
come è dolce una casa, che non han mai vissuto!
XCVI. Il gioco
Su logori sedili cortigiane appassite,
di gesso, occhi truccati, sguardi pigri e fatali,
civettando fan sí che si propaghi
di pietra e di metallo da magre orecchie un suono;
tappeti verdi, volti senza labbra,
labbra senza colore, mascelle senza denti,
dita che da una febbre infernale distorte
frugan la borsa vuota o il seno palpitante;
soffitti polverosi, lumi smorti,
enormi lampadari che gettano riflessi
sulle fronti abbuiate di poeti famosi
discesi a dissipare un sudore che è sangue:
questo quadro di tenebre in un sogno
a me desto una notte s’è svelato
– e nell’antro silente, in un angolo, io stesso,
il mento su una mano, freddo, muto, invidioso.
Di chi? Di quella gente, di quel fuoco ostinato,
di quelle vecchie e gaie e funebri puttane,
capaci, tutti, di gettarmi in faccia
chi un decrepito onore, chi una bellezza antica!
E di invidiarli il cuore ebbe spavento,
poveracci che all’abisso corrono con fervore
e, ebbri del proprio sangue, preferiscono infine
al nulla anche l’inferno, alla morte il dolore!
XCVII. Danza macabra
A Ernest Christophe
I.
Fiera, come chi è vivo, del suo bel portamento,
con tanti fiori, i guanti, il fazzoletto,
ha l’indolenza e la disinvoltura
di una magra civetta stravagante.
S’è mai vista piú smilza ballerina?
Troppo grande, il vestito le ricade
maestoso sui piedi rinsecchiti,
costretti in scarpe a fiocchi come fiori.
La gala, che intorno alle clavicole spumeggia
come un ruscello che si sfrega lascivo alla sua roccia,
agli scherzi crudeli nasconde con pudore
le funebri grazie che lei tiene a celare.
I fondi occhi di vuoto, di tenebre son fatti
e, con arte acconciato di fiori, mollemente
oscilla sulle fragili vertebre il cranio, oh incanto
di un nulla agghindato follemente!
Sei, per qualcuno, una caricatura
– per chi, ebbro di carne, non capisce
l’eleganza indicibile dell’umana armatura.
Rispondi, o grande scheletro, ai miei gusti piú cari!
Sei venuta a turbare col tuo ghigno possente
la festa della Vita? o un vecchio desiderio
che pungola ancora la tua viva carcassa
ti ha trascinata, credula, nel sabba del Piacere?
A un canto di violini, a un fuoco di candele,
speri di liberarti del tuo incubo folletto?
In un torrente d’orge vorresti rinfrescare
l’inferno che brucia nel tuo cuore?
O pozzo senza fondo di sciocchezze e d’errore!
O alambicco eterno dell’antico dolore!
Attraverso le tue costole, curvo traliccio, vedo
che insaziabile l’aspide erra ancora.
Ma ho paura che a tanto civettare
non toccherà la giusta ricompensa.
Tra voi, cuori mortali, chi capisce lo scherzo?
La grazia dell’orrore non seduce che i forti!
L’abisso dei tuoi occhi, colmo di bui pensieri,
esala la vertigine, e un cauto ballerino
non potrà senza nausea contemplare
dei trentadue tuoi denti il sorriso immortale.
Eppure, chi uno scheletro non ha abbracciato un giorno,
chi non si è sfamato con cose della tomba?
Che importanza hanno l’abito, la toletta, il profumo?
Deve credersi bello chi fa lo schizzinoso!
Baiadera senza naso, puttana irresistibile,
dillo tu ai ballerini che fan tanto gli offesi:
«Avete un bell’usare, bellini, cipria e tinte,
puzzate tutti di morte! O scheletri azzimati,
Antinoi gualciti, dandies senza pelo,
cadaveri lucenti, seduttori canuti,
la danza macabra nel suo moto universo
verso luoghi mai noti vi trascina!
Dai freddi lungosenna alle rive del Gange
la mandra degli umani salta e s’estasia, ignara
che da un buco del soffitto si spalanca sinistra
la tromba dell’Angelo, nera come una lupara.
Sotto ogni cielo o sole la Morte ti rimira,
comica Umanità, nelle tue contorsioni,
e spesso, come te, si profuma di mirra,
e alla tua demenza mischia la sua ironia!»
XCVIII. Amore di menzogna
Quando, o cara indolente, spio il tuo passo
lento e armonioso regolarsi al canto
dell’orchestra che al soffitto si frange, e del profondo
tuo sguardo intorno volgersi la noia;
quando, al gas che l’avviva, la tua pallida fronte
che una morbida grazia fa piú bella
e fuochi notturni circondano d’aurora
contemplo e, seducenti come un quadro, i tuoi occhi,
mi dico: Com’è bella! e che strana freschezza!
Il massiccio ricordo, torre greve e regale,
le corona la testa; come il corpo, il suo cuore,
pesca matura, è pronto per l’amore sapiente.
Sei tu il frutto d’autunno dal sapore sovrano
o l’anfora che pianti di morte riempiranno?
Un profumo che a remote oasi porta in sogno,
un cuscino di piume, un canestro di fiori?
So che ci sono occhi di gran melanconia
che segreti preziosi non celano, leggiadri
scrigni senza gioielli, reliquiari deserti,
piú profondi e piú vuoti anche del Cielo!
Ma perché non dovrebbe, il cuore, esser contento
che tu appaia soltanto, lui che detesta il vero?
Che importano il tuo gelo, la tua stupidità?
In te, facciata o maschera, adoro la bellezza.
XCIX.
Ricordo ancora, appena fuori porta,
la nostra bianca casa, piccola ma tranquilla:
la Pomona di gesso, la Venere vetusta
che in un boschetto stento si celavano nude,
e il sole della sera impetuoso e superbo,
immenso occhio curioso spalancato nel cielo,
intento (la finestra sparpagliava i suoi raggi)
ai riti silenziosi del nostro desinare
splendendo con dovizia come un limpido cero
sulla parca tovaglia, sulle tende di velo.
C.
La serva dal gran cuore di cui eri gelosa,
che dorme sotto un povero prato, qualche volta
potremmo anche portarle un po’ di fiori.
I morti, i poveri morti, hanno tanti dolori,
e quando Ottobre, potatore di vecchi alberi, soffia
sui loro marmi col suo triste vento,
penseranno che i vivi sono dei begli ingrati
a dormire, come fanno, sotto calde lenzuola,
mentre rosi da nere fantasie,
senza compagno di letto, senza buone parole,
vecchi scheletri di ghiaccio triturati dai vermi,
sentono, loro, sgocciolare le nevi dell’inverno,
il secolo frusciare via e nessuno, parente o amico, che rassetti
gli stracci appesi ai ferri della tomba.
Se, quando il ceppo sibila e canta, qualche sera
la vedessi seduta quietamente in poltrona,
se in un’azzurra, gelida notte di dicembre
nell’angolo della mia stanza la trovassi rannicchiata,
dal sonno eterno riemersa a covare
con lo sguardo d’una madre il ragazzo cresciuto
cos’avrei da risponderle, anima pia! vedendo
cadere delle lacrime dalle sue occhiaie vuote?
CI. Piogge, brume
O tardo autunno, inverno, fangosa primavera,
ipnotiche stagioni che adoro! a voi sia lode
d’avvolgere cosí la mia mente e il mio cuore
in un tenero sudario, in un vago sepolcro.
Nella grande pianura dove il vento si sfrena
e in notti interminabili stride la banderuola,
meglio che nella dolce primavera
le sue ali di corvo la mia anima spalanca.
Al cuore che funebri oggetti gremiscono, che il gelo
da gran tempo flagella, niente, o stagione livida,
del nostro clima regina, è piú caro
delle tue eterne, pallide tenebre – se non
a due a due in una notte senza luna
su un letto di fortuna far dormire il dolore.
CII. Un sogno di Parigi
A Constantin Guys
I.
Di quel tremendo paesaggio
che mai mortale vide,
stamane ancora l’immagine
vaga e lontana mi rapisce.
Quanti miracoli nel sonno!
Per un capriccio singolare
avevo escluso dal quadro
l’anomalia vegetale
e, fiero del mio talento,
avevo messo in rilievo
la monotona ebbrezza
di marmi, acque e metalli.
Babele d’archi e di scale,
era un palazzo infinito,
pieno di vasche e cascate
su un oro opaco o brunito,
e cateratte pesanti
come cortine di cristallo
scendevano, abbaglianti,
lungo pareti di metallo.
Non alberi, ma colonne
cingevano stagni silenti,
con naiadi gigantesche
a specchiarsi come donne.
Distese d’acqua azzurra
fra argini verdi e rosa
per leghe a milioni correvano
verso i confini del mondo;
erano pietre inaudite,
magici flutti, immensi
specchi che di infinite
cose il riflesso abbaglia!
Taciturni e incuranti,
in abissi di diamanti
preziose urne vuotavano
Gangi nel firmamento.
Architetto dei miei sogni,
incanalavo a mio piacere
un oceano domato
sotto un tunnel di gemme.
Tutto sembrava, anche il nero,
netto, chiaro, iridescente;
nel raggio fatto cristallo
ardeva una liquida gloria.
Né stelle né vestigia
di sole, neanche all’occaso,
per dar luce a quei prodigi
splendenti d’un proprio fuoco!
E su quei mobili portenti
posava, novità tremenda!
(tutto agli occhi, niente all’udito!)
un silenzio immortale.
II.
Riaprendo gli occhi pieni di bagliori
del mio tugurio ho visto lo spavento,
ho sentito, rientrando nel mio cuore,
dei maledetti triboli il tormento.
La pendola dai funebri rintocchi
suonava mezzogiorno brutalmente
e sul lugubre mondo intorpidito
versava tenebre il cielo.
CIII. Il crepuscolo del mattino
In caserma, nei cortili, echeggiava la diana,
sui lampioni soffiava il vento del mattino.
Era l’ora che a sciami torbidi sogni torcono
sui loro letti i bruni adolescenti;
occhio che trema, che palpita sanguinante, la lampada
macchia di rosso il giorno, e l’anima, accasciata
sotto il peso del corpo greve e duro,
imita la guerriglia della lampada e del giorno.
Viso in pianto asciugato dalla brezza,
l’aria è piena del fremito di cose che svaniscono;
l’uomo è stanco di scrivere, e la donna d’amare.
Da qualche casa usciva un po’ di fumo.
Palpebre viola, bocca aperta, un sonno
d’animale dormivan le puttane,
mentre le mendicanti dal freddo e scarno seno
alitavano insieme sul fuoco e sulle dita.
Sui giacigli, a quest’ora, s’aggravano i tormenti,
fra stenti e gelo, delle partorienti;
lacerava lontano un gallo col suo canto
– singhiozzo, sangue, schiuma – la foschia.
Un mare di nebbia lambiva gli edifici;
i moribondi in fondo agli ospedali
rantolavano a rauchi soprassalti,
rincasava spossato il libertino.
Lenta battendo i denti nella sua veste verde e rosa
sulla Senna deserta avanzava l’Aurora;
stropicciandosi gli occhi tornava al suo lavoro
Parigi, cupo vegliardo laborioso.