CXXI. La Morte degli amanti

Avremo letti pieni di profumi leggeri

e divani profondi come tombe

e, sopra dei ripiani, strani fiori,

nati per noi sotto piú ameni cieli.

Coi loro ultimi ardori, a gara, bruceranno

il tuo e il mio cuore come grandi torce

la cui duplice luce imiteranno,

specchi gemelli, i nostri due intelletti.

In una sera rosa e azzurro mistico

ci scambieremo un unico bagliore,

lungo come il singulto degli addii;

e un Angelo, piú tardi, dalle dischiuse porte

ravviverà con fedeltà radiosa

le specchiere ossidate, il fuoco morto.

CXXII. La Morte dei poveri

La Morte consola, la Morte, ahimè, fa vivere:

lei scopo della vita, lei unica speranza,

elisir che tonifica, che inebria,

che dà la forza d’arrivare a sera;

lei che attraverso il gelo, la neve, la tempesta,

il nero orizzonte fa vibrare di luce;

lei locanda famosa di cui parlano i libri,

promessa di un sedile, di un letto, di una cena;

lei Angelo che regge con le dita magnetiche

il regalo del sonno e l’estasi dei sogni,

e rassetta il giaciglio a chi è povero e nudo;

lei la gloria divina, il mistico granaio,

la ricchezza del povero e la sua patria antica,

lei portico che s’apre sul mistero dei Cieli!

CXXIII. La Morte degli artisti

Quante volte dovrò agitare i miei sonagli

e baciare la tua fronte bassa, triste caricatura?

Per azzeccare il mistico bersaglio

quante frecce dovrò sprecare, o mia faretra?

Consumeremo il cuore in complotti sottili

e sfasceremo piú d’una salda armatura

prima di contemplare la grande Creatura

la cui brama infernale nel pianto ci sprofonda!

Ce n’è cui il loro Idolo resta per sempre ignoto,

scultori maledetti, segnati da un oltraggio,

che in petto e sulla fronte si daranno il martello,

con la sola speranza, oscuro e strano alloro!,

che la Morte, levandosi come un sole novello,

faccia sbocciare in loro i fiori del cervello!

CXXIV. Fine della giornata

Sotto una luce livida

corre, si sfrena, si contorce

insensata la Vita

con stridula impudenza. Cosí, appena

dilaga, voluttuosa, la notte

ogni cosa placando, anche la fame,

d’ogni cosa guarendo, anche della vergogna,

dice fra sé il Poeta: «Finalmente!

Al pari delle vertebre,

anela la mente al riposo.

Col cuore pieno di funebri sogni

mi sdraierò sulla schiena

per avvolgermi, tenebre, nei drappi

della vostra freschezza!»

CXXV. Il sogno di un curioso

A F. N.

Piace anche a te l’aroma del dolore,

dicono anche di te: «Che uomo singolare!»

– Ero sul punto di morire. Nel cuore appassionato

c’era, desiderio piú orrore, un male strano:

era angoscia, era viva speranza; né volevo sottrarmi.

Piú la fatale clessidra si vuotava e piú acre,

piú deliziosa era la mia tortura;

si scollava dal mondo la mia anima.

Avido come un fanciullo ero in attesa

dello spettacolo, odiando del sipario la remora...

Gelida, tutt’a un tratto, la verità m’appare:

senza scosse ero morto, e la tremenda aurora

m’avvolgeva. – Nient’altro? è mai possibile?

S’era alzato il sipario, e io aspettavo ancora.

CXXVI. Il viaggio

A Maxime Du Camp

I.

Al ragazzo di mappe, di stampe appassionato,

è vasto l’universo quanto è vasta la brama.

Ah, come è grande il mondo al lume di una lampada!

agli occhi del ricordo come è piccolo il mondo!

Un mattino partiamo col fuoco nel cervello,

col cuore traboccante di rabbia e voglie amare,

e ci affidiamo al ritmo dell’onda che addormenta

il nostro infinito sul finito del mare.

C’è chi fugge felice una patria obbrobriosa

e chi l’orrore della propria culla;

altri, astrologhi a picco negli occhi di una donna,

la tirannica Circe dai rischiosi profumi.

Per non mutarsi in bestie s’inebriano di spazio

e di luce e di cieli fiammeggianti;

il gelo che li morde, il sole che li cuoce

cancellano adagio il marchio di quei baci.

Ma i veri viaggiatori partono per partire

e basta: cuori lievi, simili a palloncini

che solo il caso muove eternamente,

dicono sempre «Andiamo», e non sanno perché.

I loro desideri somigliano alle nubi;

e come il coscritto sogna il cannone, loro

sognano vaste, ignote, cangianti voluttà

di cui nessuno al mondo ha mai saputo il nome!

II.

Imitiamo, che orrore! la trottola e la palla,

danziamo, rimbalziamo come loro; anche in sogno,

Curiosità ci volge e ci assilla, crudele

Angelo che a frustate fa vorticare il sole.

Sempre, in questo destino singolare,

cambia posto la meta: è ovunque, e non c’è mai!

E l’Uomo – mai si stanca la speranza –

corre come un matto per trovare il riposo!

È l’anima un veliero che cerca la sua Icaria:

«Occhio!» s’ode sul ponte; e dalla coffa

un’altra voce ardente e dissennata:

«Amore... gloria... gioia!» – Dannazione, è uno scoglio!

Ogni banco sperduto che la vedetta avvista

è un Eldorado offerto dal Destino;

la Fantasia, che subito si scatena, non trova

che un frangente alla luce del mattino.

Guai a chi s’innamora di terre di chimera!

Dovranno metterti ai ferri o rotolarti in mare,

marinaio ubriaco, scopritore d’Americhe

il cui miraggio i gorghi fa piú amari?

Cosí il vecchio barbone si trascina nel fango

sognando, naso all’aria, paradisi di luce;

e là dove un tugurio rischiara una candela

al suo sguardo stregato una Capua si svela.

III.

Che nobili storie, viaggiatori incredibili,

nei vostri occhi profondi come il mare!

Su, dei vostri ricordi mostrateci gli scrigni

gli splendidi gioielli fatti d’etere e d’astri!

Senza vele o vapore vogliamo navigare!

Per alleviare il tedio delle nostre prigioni,

sui nostri spiriti, tesi come tele, esponete

gli squarci d’orizzonte della vostra memoria!

Che avete visto, diteci?

IV.

«Abbiamo visto astri,

onde, sabbie di rive e di deserti; e ad onta

di sorprese e disastri, molte volte

ci siamo anche annoiati, come qui.

Il sole risplendente sopra il viola del mare,

le città risplendenti nei raggi del tramonto

l’ardente cuore inquieto spingevano a tuffarsi

nel mutevole fascino del cielo.

Nelle città piú ricche, nei piú vasti paesaggi

non c’era mai l’incanto misterioso

di quelli che per caso nascono dalle nubi;

e mai ci dava tregua il desiderio!

– Piú si gode e piú ha forza il desiderio;

all’albero del desiderio il piacere è concime,

e mentre la sua scorza si fa piú spessa e dura

si sforzano i suoi rami d’avvicinarsi al sole!

Crescerai senza fine, albero che hai piú vita

del cipresso? – Comunque, scrupolosi,

abbiamo colto schizzi per l’album insaziabile

di chi trova che è bello tutto ciò che è lontano!

Abbiamo visto idoli dal naso d’elefante,

troni ornati di gemme luminose,

palazzi cesellati che d’un vostro banchiere

formerebbero il sogno e la rovina,

costumi che allo sguardo dan l’ebbrezza,

donne che si colorano le unghie e i denti, fachiri

avvezzi alle carezze dei serpenti...»

V.

E dopo? e dopo ancora?

VI.

«O cervelli infantili!

Abbiamo visto (e questo è il punto capitale)

senza bisogno di cercarlo, ovunque,

dall’alto fino al basso della scala fatale,

il tedioso spettacolo del peccato immortale:

schiava stupida e vile e superba la donna

amarsi senza schifo, senza ironia adorarsi;

l’uomo, tiranno cupido, lascivo, ingordo e duro,

farsi schiavo alla schiava, sgocciolio nella fogna;

rallegrarsi il carnefice, il martire soffrire;

il sangue ad ogni festa dar sapore e profumo;

innamorarsi il popolo della sferza brutale

e il despota ammalarsi del suo stesso potere;

piú d’una religione somigliante alla nostra

dar la scalata al cielo; cercar la Santità,

come un gaudente su un letto di piume,

in mezzo ai chiodi e al crine la propria voluttà;

ebbra di genio, straparlante, pazza

adesso come un tempo, gridar l’Umanità

dentro la furia della sua agonia:

“Mio signore e mio simile, ti maledico, Dio!”;

e i meno stolti, d’Insania intrepidi seguaci,

via dall’immenso gregge che il Destino rinserra

rifugiarsi nell’oppio sconfinato!

– Questa del globo intero la cronaca immutabile».

VII.

Che amara conoscenza si ricava dai viaggi!

Oggi e ieri e domani e sempre il mondo

monotono e meschino ci mostra quel che siamo:

un’isola d’orrore in un mare di noia.

È il caso di partire? di restare? Rimani

se puoi, parti se devi. Chi corre, chi s’appiatta

per ingannare il Tempo, belva attenta e funesta...

C’è qualcuno che, ahimè, non ha riposo,

apostolo o Ebreo errante, e per sfuggire

all’infame reziario non gli basta

né treno né veliero, e chi invece lo ammazza

senza nemmeno uscire dal suo buco.

Quando infine col piede ci calcherà la schiena

noi spereremo ancora, e grideremo «Avanti!»;

e cosí come un tempo partimmo per la Cina,

lo sguardo fisso al largo, il vento nei capelli,

sul mare delle Tenebre ci sapremo imbarcare

col cuore di chi è giovane e lieto di viaggiare.

Sentite queste voci funebri e affascinanti

cantare: «Svelti, entrate da questa parte, voi

che il Loto profumato volete assaporare!

Qui i frutti si vendemmiano che brama il vostro cuore

e sanno di miracolo; qui si coglie l’ebbrezza

di questo strano, dolce pomeriggio infinito!»

Ravvisiamo lo spettro al tono familiare;

là ciascuno ha il suo Pilade che gli tende le braccia.

«Nuota fin qui da Elettra per rinfrescarti il cuore!»

dice quella cui un tempo baciammo le ginocchia.

VIII.

Su, andiamo, Morte, vecchio capitano!

Salpiamo, è tempo, via da questa noia!

Son neri come inchiostro terra e mare,

ma i nostri cuori, vedi, sono colmi di luce.

Versaci per conforto il tuo veleno!

Quel fuoco arde il cervello: giú nel gorgo profondo,

giú nell’Ignoto, sia l’Inferno o il Cielo,

scendiamo alla ricerca di qualcosa di nuovo!