II. Lesbo

Madre di ludi latini e greche voluttà,

dove i baci di gioia e i baci di languore,

freschi come le angurie e caldi come il sole,

delle notti e dei giorni sono il fregio e la gloria

– Lesbo, madre di ludi e voluttà,

dove i baci somigliano a cascate

che si gettano impavide, singhiozzando e chiocciando,

di balza in balza in gorghi senza fondo,

tempestosi e segreti, frenetici e profondi

– Lesbo, dove cascate sono i baci

e l’una con l’altra s’attirano le Frini

e mai senz’eco sospirò un sospiro,

te come Pafo ammirano le stelle,

e Venere di Saffo può ben esser gelosa

– Lesbo, dove s’attirano le Frini,

terra di notti calde e languorose

dove innanzi agli specchi, sterile voluttà!,

fanciulle dai fondi occhi, di sé amanti, accarezzano

i frutti trionfanti della nubilità

– Lesbo di notti languide e roventi,

lascia che il vecchio Platone aggrotti l’occhio austero;

all’eccesso dei baci tu affidi il tuo perdono,

nobile terra, amabile regina di dolcezze,

e al raffinarsi eterno delle cose d’amore.

Platone aggrotti pure l’occhio austero!

Tu affidi il tuo perdono al martirio infinito

che sui cuori ambiziosi s’abbatte senza posa

e allontana da noi il sorriso radioso

vagamente intravisto sull’orlo d’altri cieli!

Al martirio tu affidi il tuo perdono!

Chi oserà giudicarti, o Lesbo, fra gli Dei,

condannare la tua fronte pallida di fatiche,

se non avrà pesato sulle bilance d’oro

il diluvio di lacrime che hai versato nel mare?

Chi oserà giudicarti fra gli Dei?

Che c’importa delle leggi del giusto e dell’ingiusto?

Vergini impareggiabili, vanto dell’arcipelago,

la vostra religione quanto un’altra è sublime,

e riderà l’amore dell’Inferno e del Cielo!

Che c’importa del giusto e dell’ingiusto?

Giacché Lesbo fra tutti m’ha scelto per cantare

delle sue dolci vergini il segreto

e fui da sempre a parte del suo nero mistero

fatto di folli risa e dei piú scuri pianti.

Giacché Lesbo m’ha scelto per cantare!

E da quel giorno io veglio sulla cima di Léucade,

vedetta dallo sguardo penetrante e sicuro

che non perde mai d’occhio le lontane

rabbrividenti sagome di fregate e tartane.

Di Léucade io veglio sulla cima

per scoprire se il mare è giusto e buono

e se una sera (di singhiozzi risuonerà la roccia)

a Lesbo, che perdona, renderà

l’adorato cadavere di Saffo, che è partita

per scoprire se è giusto e buono il mare!

Della virile Saffo, lei poeta, lei amante,

piú bella di Venere coi suoi tristi pallori!

– Sí, l’occhio azzurro cede al nero occhio segnato

da un tenebroso cerchio di dolori

della virile Saffo, poeta e amante!

– Piú bella di Venere che sorge sulla terra

e diffonde i tesori della serenità

e i raggi della bionda giovinezza

sul vecchio Oceano, incantato della sua creatura!

Piú di Venere, alta sulla terra!

– Saffo morta nel giorno della sua blasfemia,

quando, il rito insultando e l’inventato culto,

fece del suo bel corpo la suprema pastura

d’un orgoglioso bruto che puní l’empietà

di lei che è morta bestemmiando il rito.

E da quel tempo Lesbo si lamenta,

e malgrado gli onori che le tributa il mondo

ogni notte s’inebria se s’alza verso il cielo

dalle rive deserte l’urlo della tormenta.

È da allora che Lesbo si lamenta!

III. Donne dannate

Delphine e Hippolyte

Al pallido chiarore di lampade languenti,

su profondi cuscini impregnati d’odore,

stava Hippolyte sognante alle carezze

che possenti svegliavano il suo fresco candore.

Cercava, gli occhi torvi di tempesta,

il cielo ormai lontano della sua ingenuità,

simile al viaggiatore che si volge

ai celesti orizzonti varcati nel mattino.

Dei pesti occhi le lacrime indolenti,

l’aria spezzata e attonita, la cupa voluttà,

le braccia vinte, inermi, abbandonate,

ogni cosa al suo incanto dava forza e risalto.

Calma, gioiosa ai suoi piedi Delphine era distesa

e con occhi brucianti la covava,

come un forte animale sorveglia la sua preda

già segnata col marchio dei suoi denti.

Bellezza forte prostrata davanti alla bellezza

tenue, fiutava voluttuosamente

il vino del trionfo, e su lei si tendeva

come a cogliere un premio di dolcezza.

Della sua smorta vittima cercava dentro gli occhi

il silenzioso canto del piacere

e quella gratitudine infinita e sublime

che filtra dalle palpebre come un lungo sospiro.

– «Cosa ne dici, Hippolyte, cuore mio?

Ti sei convinta, adesso, che non bisogna offrire

il sacro olocausto delle tue prime rose

a una brezza violenta che può farle appassire?

I miei baci son lievi, ricordano le effimere

che sfiorano a sera i laghi trasparenti;

i baci del tuo amante scaveranno dei solchi

come di carri o vomeri taglienti,

ti passeranno sopra con zoccoli spietati

come un pesante tiro di bovi o di cavalli...

Hippolyte, mia sorella, mio cuore, anima mia,

mio tutto e mia metà! volgi dunque il tuo viso,

a me volgi i tuoi occhi pieni di cielo e stelle!

Per uno dei tuoi sguardi dall’incanto divino

son pronta a alzare il velo dei piaceri piú oscuri

e a farti addormentare dentro un sogno infinito!»

Ma ecco Hippolyte, levando la sua giovane testa:

– «Non sono certo ingrata e non mi pento,

mia Delphine: io sto male, non ho pace,

come di notte dopo un pasto atroce.

Mi sembra che m’assalgano i piú grevi spaventi,

e che neri fantasmi a battaglioni

mi portino per mano su malcerti cammini

sbarrati da ogni parte da orizzonti di sangue.

È dunque strano ciò che abbiamo fatto?

Spiegami, se puoi farlo, questo mio turbamento,

questo terrore... Io tremo se mi dici «Dolcezza»,

eppure la mia bocca vuol venire da te.

Non guardarmi in quel modo, mio pensiero!

Io t’amerei per sempre, sorella d’elezione,

se anche fossi una trappola di morte

e l’inizio sicuro della mia perdizione!»

La tragica criniera squassando, il piede come

sul tripode di ferro battendo, replicava

con dispotica voce Delphine: – «Chi ha il coraggio

di parlare d’inferno nel luogo dell’amore?

Maledizione eterna al sognatore vano

che primo, nella sua stupidità,

d’un problema insolubile cadendo nella pania,

volle ai fatti d’amore mischiare l’onestà!

Chi in un mistico accordo vuole unire

la notte e il giorno, l’ombra col calore,

mai scalderà il suo corpo rattrappito

a questo rosso sole che chiamiamo l’amore!

Va’ dunque, va’ a cercarti un fidanzato idiota;

offri il tuo cuore vergine ai suoi baci crudeli;

e poi livida, gonfia di rimorsi e d’orrore,

torna da me a mostrarmi le stigmate sui seni!

Non si può, a questo mondo, aver piú d’un padrone...»

Ma a un immenso dolore dando voce

grida d’un tratto la fanciulla: – «Sento

che s’apre in me un abisso; questo abisso è il mio cuore!

Profondo come il vuoto! come un vulcano ardente!

Nulla mai sazierà quel mostro gemebondo,

né placherà la sete dell’Eumenide

che con la torcia in mano lo brucia fino al sangue.

Ah, che un chiuso tendaggio ci separi dal mondo,

e ci induca al riposo la stanchezza!

Io mi voglio annientare nel tuo seno profondo

e in te trovare il fresco dei sepolcri!»

– Scendete, scendete, vittime lamentevoli,

scendete per la strada dell’inferno infinito!

Giú nel piú fondo abisso tuffatevi: lí, insieme,

flagellati da un vento che non viene dal cielo,

ribollono i delitti come un sordo uragano!

Ombre folli, alla meta dei vostri desideri

correte; non c’è pace per il vostro furore,

per voi da ogni piacere zampillerà il castigo.

Mai le vostre caverne rischiarò un fresco raggio;

vapori di febbre s’insinuano dai muri,

come torce s’infiammano, e nei corpi

filtrano con profumi spaventosi.

L’aspra sterilità di questa vostra gioia

secca la vostra pelle, fa piú sete la sete;

al vento furibondo della concupiscenza

la vostra carne schiocca come un vecchio stendardo.

Condannate a vagare lontano da chi vive

come il lupo che corre nei deserti,

fate il vostro destino, fuggite l’infinito

che portate nel caos dei vostri cuori!

IV. Il Lete

Vieni qui sul mio cuore, sorda anima crudele,

tigre adorata, mostro che t’atteggi indolente;

lascia ch’io immerga a lungo le mie dita tremanti

nella spessa, pesante tua criniera

e nella gonna che di te profuma

seppellisca la testa dolorosa,

come un fiore appassito respirando

la corrotta dolcezza del mio defunto amore.

Voglio dormire! pur di non vivere, dormire!

In un sonno dolce come la morte, spargerò

baci senza rimorsi sul tuo corpo leggiadro

levigato e splendente come il rame.

Niente, per inghiottire i singhiozzi languenti,

vale quanto l’abisso del tuo letto;

sulle tue labbra, possente, ha dimora l’oblio,

il Lete scorre nei tuoi baci.

Come un predestinato obbedirò

alla mia sorte, mia delizia ormai;

martire rassegnato, condannato innocente

che attizza il suo supplizio col fervore,

succhierò, per placare il mio rancore,

il nepente e l’amabile cicuta

sulle punte incantevoli di quel tuo aguzzo seno

che in nessun tempo ha imprigionato un cuore.

V. A colei che è troppo gaia

Belli i tuoi gesti, il viso, il portamento

come un bel paesaggio;

scherza il sorriso sul tuo volto

come in un cielo chiaro un fresco vento.

Con la salute che zampilla come

luce dalle tue braccia,

dalle tue spalle, abbagli se lo sfiori

l’intristito passante.

Gli squillanti colori

di cui t’orni le vesti

mettono nella testa dei poeti

una danzante immagine di fiori.

È, quel matto vestire,

del tuo screziato spirito l’emblema;

io t’odio, matta che mi fai ammattire,

tanto quanto ti amo!

In un dolce giardino, a volte, dove

mi trascinavo con la mia atonia,

mi è sembrato che come un’ironia

il sole straziasse il mio petto;

e tanto, col suo verde, primavera

ha umiliato il mio cuore

che ho punito in un fiore l’insolenza

della Natura.

Cosí, una notte, quando scocca l’ora

del piacere, vorrei

avvicinarmi silenzioso e vile

alle dovizie della tua persona

per castigarti nella tua gioiosa

carne e straziarti nel tuo calmo seno,

e nel tuo fianco stupefatto aprire

una profonda, una larga ferita

e dalle nuove labbra

piú splendenti e piú belle, o rapinosa

dolcezza!

infonderti, sorella, il mio veleno.

VI. I gioielli

Nuda, la mia diletta: conoscendo il mio cuore

non aveva tenuto che i gioielli,

ricco, sonoro apparato onde somiglia

alle schiave dei Mori nei giorni di splendore.

Quando quell’universo di pietra e di metallo

manda danzando un vivo, petulante clangore,

l’estasi mi rapisce: mi piace alla follia

tutto ciò dove il suono si mescola alla luce.

Era dunque sdraiata, e si lasciava amare;

dall’alto del divano sorrideva beata

al mio amore profondo e dolce come il mare

che intorno a lei spumeggia come intorno a uno scoglio.

Tigre addomesticata, mi fissava negli occhi;

se tentava altre pose, estatica e sognante,

un misto di lascivia e di candore

alle sue metamorfosi dava un fascino strano.

Con le braccia e le gambe, con le cosce e le reni,

lisce come dell’olio, sinuose come un cigno,

trionfava ai miei occhi attenti e illimpiditi;

e il suo ventre e i suoi seni, frutti della mia vigna,

piú vezzosi degli Angeli del male,

venivano a svegliare l’anima mia assopita,

facendola sloggiare dal trono di cristallo

dove assente e tranquilla s’era assisa.

Un disegno bizzarro al busto d’un imberbe

i fianchi dell’Antiope sembrava avesse unito,

tanto dalla sua vita risaltava il bacino.

Sul colorito fulvo il trucco era superbo!

– E poiché la tenace lampada s’era spenta

e solo dal camino la stanza aveva luce,

al minimo respiro della fiamma

l’ambra della sua pelle s’inondava di sangue!

VII. Le metamorfosi del vampiro

Dalle labbra di fragola la donna, contorcendosi,

serpente sulla brace, e modellando i seni

contro il ferro del busto, lasciava che parole

impregnate di muschio colassero: «Ho la bocca

umida, e so in un letto a perfezione

la vecchia coscienza portare a perdizione.

Sui seni trionfanti so asciugare ogni pianto,

so far ridere i vecchi del riso degli infanti.

Per chi mi vede nuda e senza veli

sono la luna e il sole, sono le stelle e il cielo!

Sia che soffochi un uomo nel mio abbraccio tremendo,

sia che ai suoi morsi il petto e le braccia abbandoni,

timida e libertina, delicata e robusta,

sono, caro sapiente, cosí dotta in piaceri

che sui miei materassi tumultuosi

si dannerebbe un angelo impotente!»

Ma quando ebbe succhiato ogni midollo

dalle mie ossa e a lei, languendo, mi volgevo

per un bacio d’amore, non m’apparve

piú che un otre viscoso e trasudante!

Chiusi, in freddo spavento, entrambi gli occhi,

e quando al vivo lume li riapersi, al mio fianco,

invece della bambola possente

che sembrava di sangue aver fatto provvista,

confusamente i resti s’agitavano

d’uno scheletro, striduli come una banderuola

o, appesa in cima a un ferro nelle notti d’inverno,

un’insegna che fa oscillare il vento.