XVII. La voce

A un’oscura, babelica libreria la mia culla

era addossata: scienza, romanzi, favolelli,

tutto, polvere greca e cenere latina,

vi si mischiava. Io ero alto come un in-folio.

Due voci mi parlavano. Una, ferma e insidiosa,

mi diceva: «La terra è un delizioso

pasticcio dolce. Posso, per tua gioia,

far piú capace la tua fame.» E l’altra:

«Vieni, su, vieni! passeggia nei sogni,

piú in là del conosciuto e del possibile!»

E risuonava, questa, come il vento dei greti,

inatteso fantasma che vagisce e l’orecchio

molce e insieme spaventa. E: «Sí, voce soave!»

io rispondevo. Allora, in quell’istante,

s’è spalancata, ahimè, nella mia vita

una piaga fatale. Oltre le quinte

dell’esistere immenso, nel cuore dell’abisso,

io vedo con chiarezza dei mondi singolari

e, vittima incantata della mia doppia vista,

trascino dei serpenti che mi mordono i piedi.

È da allora che, simile ai profeti,

ho tanta tenerezza per il deserto e il mare,

che piango nella gioia e rido nel dolore

e nel vino piú amaro ritrovo una dolcezza;

che, gli occhi al cielo, casco nelle buche

e prendo spesso i fatti per tranelli...

Ma: «Tienteli i tuoi sogni!» mi consola la voce,

«solo chi è matto ne ha di cosí belli!»

XVIII. L’imprevisto

Mentre veglia suo padre agonizzante

e già vede sbiancare le sue labbra,

«Di vecchie assi» calcola Arpagone

«dovrebbero, in solaio, essercene abbastanza».

E Célimène, tubando: «È per natura

buono il mio cuore quanto io sono bella».

Già, il suo cuore! boccone rinsecchito,

prosciutto affumicato al fuoco eterno!

Un giornalista che fa solo fumo

e si crede una fiaccola, domanda al poveraccio

che ha sospinto nel buio: «E il Salvatore

l’Artefice del Bello, dimmi, lo vedi ancora?»

E, piú buffo di tutti, un libertino

giorno e notte sbadiglia e si lamenta

e singhiozza, e va in giro gridando che fra un’ora,

l’impotente! lo sciocco! diventerà virtuoso.

Bisbiglia l’orologio: «È bell’e cotta,

la carne infetta del dannato! E io

che volevo avvertirlo... Macché: fragile, cieco,

sordo, farà la fine di un armadio tarlato!»

E poi, Uno che tutti hanno negato

viene e, fiero e beffardo, li apostrofa: «Nel mio

ciborio a lungo, vedo, vi siete sollazzati,

celebrando in letizia le vostre messe nere...

Ciascuno, nel segreto del suo cuore,

mi ha consacrato un tempio, e il culo immondo

m’ha baciato. Ravvisa dal riso vincitore

Satana, enorme e brutto come il mondo!

Pensavate davvero di potervi burlare,

ipocriti confusi, del padrone,

e di barare al gioco – e che fosse normale

aver due premi insieme, il Cielo e la ricchezza?

Un buon carniere spetta al cacciatore

ch’è diventato vecchio struggendosi alle poste.

Vi porterò attraverso lo spessore,

vi porterò, compagni della mia triste gioia,

giú giú per lo spessore della terra e del sasso

e il labile miscuglio della cenere

a un immenso palazzo che m’uguaglia,

fatto d’un solo blocco, e non con tenera

pietra, ma col Peccato universale,

per serbarvi il mio orgoglio e la mia gloria

e il mio dolore!» – Intanto, appollaiato

sull’universo, un angelo dà fiato alla vittoria

di chi in cuor suo pregava: «Benedetto il castigo

che tu ci infliggi, Padre! benedetto il dolore!

In mano tua il mio cuore non è un trastullo vano,

la tua prudenza non ha fine».

Il suono della tromba è cosí delizioso,

nelle solenni sere di vendemmie celesti,

che stilla come un’estasi in coloro

di cui canta le lodi.

XIX. Il riscatto

Per pagarsi il riscatto deve l’uomo,

usando come un ferro la ragione,

dissodare due campi dove il tufo

è fertile e profondo;

per ottenere anche una sola rosa,

per carpire una spiga,

con il pianto salato della sua fronte grigia

bisogna che li innaffi senza posa.

Uno è l’Arte, l’altro l’Amore.

– Per propiziarsi il giudice,

quando il giorno della giustizia estrema

spunterà con terrore

bisognerà mostrargli nel granaio

copia di messi, e fiori

che per forme e colori

guadagnino degli Angeli il suffragio.

XX. A una malabarese

Hai piedi e mani fini; doviziose, le anche

farebbero l’invidia delle piú belle bianche;

l’artista ama il tuo corpo, dolce nei suoi pensieri;

hai gli occhi di velluto, del corpo anche piú neri.

Nei caldi, azzurri luoghi che t’ha scelto il Creatore,

devi tenere accesa la pipa al tuo signore,

rinnovare nei vasi l’acqua e le essenze rare,

scacciare dal suo letto le vaganti zanzare,

e appena l’alba sveglia le fronde piú lontane

far provvista al mercato d’ananas e banane.

A piedi nudi, ovunque, vai in giro fino a sera,

vecchie arie senza nome canticchiando leggera;

poi, quando l’orizzonte si fa cupo e vermiglio,

dolcemente il tuo corpo distendi su un giaciglio,

dove i tuoi sogni vaghi, leggiadri e colorati

di colibrí e di fiori son sempre popolati.

Perché dunque, fanciulla felice, vuoi vedere

la Francia che trabocca di gente e di dolore

e, ai forti marinai affidando la vita,

dire addio lungamente alla foresta avita?

Troppo poco coperta d’una mussola lieve

laggiú, battendo i denti sotto grandine o neve,

come rimpiangeresti quei tuoi svaghi sereni

se, un corsetto brutale carcerandoti i seni,

fossi costretta a vendere per sfamarti ogni sera

le tue grazie aromatiche e piene di mistero,

nella sudicia nebbia cercando, gli occhi persi,

delle tue palme assenti i fantasmi dispersi!

1840.