Il Cairo, estate 1923
Una decina di donne vestite di nero scrutano febbrilmente il treno appena entrato in stazione. La folla è fitta, i giornalisti sgomitano. I primi passeggeri si riversano sulle banchine. Una figura di donna dal volto coperto appare allo sportello di un vagone. Resta immobile un momento, si toglie il velo, lo getta a terra e grida con forza:
«Mai più!»
Si chiama Hoda Sha‘rawi.
Si alzano grida di entusiasmo. Risuonano applausi, mentre una seconda donna scende i gradini e compie lo stesso gesto
È Saiza Nabarawi.
Tutti si fanno intorno alle due donne, per congratularsi con loro. Qualche altra osa imitarle e scopre il volto.
Sono sulla quarantina. Entrambe rientrano da Roma, dove hanno partecipato a un congresso femminista. Ma perché quest’accoglienza trionfale? Cosa ha mai fatto Hoda Sha‘rawi per sollevare un tale entusiasmo? Semplicemente, ha appena infranto un tabù secolare. Quel velo gettato a terra è una vera sfida lanciata agli “anni dell’harem”, come l’egiziana li chiama nelle sue memorie.
Harem… Due sillabe che suonano come un soffio delicato e che a lungo hanno abitato l’immaginario di viaggiatori occidentali, poeti e scrittori. Innumerevoli pagine e versi hanno descritto quei magnifici palazzi di cristallo sulle rive del Bosforo, quelle donne lascive che, distese su divani ricamati di fiori, attendono di soddisfare le fantasie del loro signore e padrone. Infinite volte sono stati evocati quei profumi inebrianti, quelle odalische poi elevate al rango di favorite, colmate di doni, le più fortunate delle quali possono accedere al rango supremo di sultana validé1.
Ma dietro quei luoghi comuni si nascondeva un’altra forma di harem, quella che riguardava una parte della società, la più agiata, e paradossalmente la meglio educata, molto lontana dall’immagine che si erano fatti i poeti.
Qui non c’erano odalische, ma una o due padrone di casa, cui spettava il duro compito di gestire una miriade di servi e di schiavi. La gerarchia era sottomessa a un rigido protocollo. Come si può immaginare, l’idea stessa di felicità personale e di amore non sfiorava nemmeno le menti. Quel che contava era solo mantenere il patrimonio all’interno delle famiglie. Mentre gestivano il personale, le madri dovevano anche badare all’educazione dei figli, alle cucine, alla manutenzione domestica, per cui alla fine l’amministrazione di certe abitazioni veniva a somigliare a quella di un grand hotel più che a quella di una semplice casa. Naturalmente, se a queste donne capitava di dover uscire di casa, erano obbligate a velarsi il volto.
Come abbiamo accennato, questa vita di costrizioni e sottomissione non riguardava la popolazione più modesta, ma l’alta borghesia. Chi, infatti, avrebbe potuto mantenere grandi appartamenti esclusivamente riservati alle donne? Chi avrebbe avuto i mezzi per permettersi uno o più eunuchi, precettori o precettrici per i bambini, se non le famiglie più agiate? Le contadine erano più libere di muoversi e spesso portavano solo un foulard, qualche volta ornato di monetine dorate, per coprire i capelli: mai il volto.
Osserviamo che in quei primi anni del XX secolo l’uso del velo non era assolutamente prescritto da obblighi religiosi: si trattava piuttosto di un costume, una tradizione sociale. Prova ne sia che allora in Egitto non era difficile incontrare donne ebree o cristiane che pure portavano il velo. Nelle sue Lettere dall’Egitto, pubblicate nel 1863, Lucie Duff-Gordon, una celebre viaggiatrice inglese, racconta che le donne copte dell’Alto Egitto si mostravano, in questo campo, molto più pignole delle loro sorelle mussulmane.
Naturalmente le cantanti, le danzatrici e le venditrici porta a porta godevano di grande libertà. Anche Hoda Sha‘rawi ricorda nelle sue Memorie una poetessa girovaga che di tanto in tanto si fermava nella sua casa, e che non era assolutamente sottomessa agli stessi obblighi delle consorelle.
Khadija mi impressionava, perché aveva l’abitudine di sedere assieme agli uomini e di discutere con loro di argomenti culturali e letterari. Allo stesso tempo mi capitava di osservare quanto le donne incolte tremassero di imbarazzo e di paura quando, nascoste dietro una tenda, dovevano scambiare qualche parola con un uomo. Osservando Khadija ho acquisito la convinzione che solo formandosi una cultura le donne possano diventare uguali agli uomini, e magari anche superarli.
A partire dal 1890, le donne egiziane cominciarono a mettere in discussione i soprusi a cui erano sottoposte. Anche molti uomini, soprattutto scrittori e intellettuali, per la prima volta espressero apertamente le loro critiche di fronte a una situazione che giudicavano disonorevole per il genere femminile. Nel 1894 un giovane autore copto, Morcos Fahmi, pubblicò un testo teatrale che fece molto rumore, La donna in Oriente, nel quale attribuiva il ritardo culturale del paese al settarismo di cui le donne erano vittime. Uno stato di cose sorprendente, se confrontato con la condizione privilegiata che la donna aveva conosciuto nell’antico Egitto.
Qasim Amin, uno dei più celebri nazionalisti egiziani, scrisse nel 1899 un’opera intitolata La liberazione della donna, che pure provocò molte discussioni, con la quale chiamava esplicitamente il suo paese ad allinearsi al modello occidentale. Trattare le donne come uguali e concedere loro il diritto di studiare e di insegnare poteva solo essere di vantaggio per tutti. «Non credo sia esagerato affermare» scriveva «che le donne rappresentano le fondamenta di una solida edificazione della civilizzazione moderna».
Quando Hoda Sha‘rawi vede la luce – il 23 giugno 1879, a Minya, nell’Alto Egitto – il paese è da poco governato dal khedivè2 Tawfiq, ma in realtà alla testa dell’amministrazione egiziana c’è l’Inghilterra. Acquistando le azioni del padre di Tawfiq, il khedivè Ismail, rovinato dalla propria prodigalità, l’Inghilterra si è assicurata il controllo del canale di Suez. L’Egitto ribolle, vibra, e sogna l’indipendenza. Tre anni dopo la nascita di Hoda, il 13 settembre 1882, in prossimità della città di Tell el-Kebir, a circa centodieci chilometri dal Cairo, le truppe britanniche del maresciallo Garnet Wolseley avevano sconfitto quelle del nazionalista egiziano Ahmed Orabi. Una battaglia perduta, che però preludeva a molte altre.
Il padre di Hoda, Mohammad Sultan pascià3, proveniente da una grande famiglia cairota, era presidente della Camera dei deputati. Aveva sposato in prime nozze Hasiba, da cui aveva avuto un figlio, Ismail. Due anni dopo avrebbe sposato Iqbal, che gli avrebbe dato una bambina, Hoda, e un maschio, Omar. A differenza di Hasiba, Iqbal non era egiziana, ma circassa e, a detta di tutti, una donna di straordinaria bellezza. Per pudore o per discrezione, Hoda non osò mai interrogarla sul suo passato. Secondo le poche informazioni confidatele da uno zio, nel 1860, quando le truppe russe si stavano riversando sul Caucaso, i genitori di Iqbal erano stati costretti a fuggire verso l’Impero ottomano. Durante i combattimenti il nonno di Hoda era stato ucciso e la nonna Sharaluqa, stanca e ammalata, non aveva avuto altra scelta che lasciare la figlia Iqbal presso un uomo di fiducia, incaricandolo di condurre la bambina di dieci anni al Cairo e di consegnarla a uno zio, un certo Yussef Sabri pascià, militare di carriera. Purtroppo quest’ultimo era di stanza fuori dalla capitale e la moglie si era categoricamente rifiutata di accogliere la piccola, negando oltretutto che Yussef avesse con lei un qualsiasi legame di parentela. Come ultima risorsa, Iqbal era stata condotta da una famiglia imparentata con la madre, presso la quale doveva rimanere fino al suo matrimonio con Mohammad Sultan pascià.
Proprietario terriero e grande coltivatore, Sultan giocò un ruolo molto importante nella politica egiziana. Dopo aver ricoperto diversi incarichi onorifici in seno allo stato, era stato nominato commissario del distretto di Qulusna, nella provincia di Minya, e successivamente governatore delle città di Beni Sueif, di Assiut e infine di Ruda el-Bahrain. La sua ascesa fu proporzionale all’aumento delle sue ricchezze. Al termine della vita possedeva circa 4500 feddan4: una quantità di terra smisurata. Purtroppo, la tragica morte di Ismail, il figlio maggiore sul quale aveva riposto tutte le sue speranze, stroncò l’uomo tanto moralmente quanto fisicamente. Poco dopo infatti il padre lo seguì nella tomba, il 14 agosto 1884.
Da quel momento Hoda, che aveva cinque anni, e Omar, di due più giovane, vennero allevati esclusivamente da donne: Iqbal, la madre, e Hasiba, chiamata Om kabira, la Nonna, in quanto la più vecchia delle due mogli. A Hoda venne anche assegnato un tutore legale: Ali Sha‘rawi, suo cugino di primo grado. Questi era un uomo per il quale lei non aveva mai provato grande simpatia, ma allora non poteva immaginare il ruolo che avrebbe giocato nella sua vita.
La ragazzina prese coscienza abbastanza in fretta della differenza di trattamento fra lei e il fratello. Lui godeva di ogni attenzione, mentre lei si sentiva trascurata. Il giorno in cui se ne lamentò stupita presso Hasiba, questa le rispose: «È semplice: tu sei una bambina, e lui è un bambino. È il solo erede maschio della famiglia. È su di lui che riposeranno tutte le responsabilità, poi un giorno si sposerà e perpetuerà la nostra discendenza».
Poco convinta, la ragazzina ammise più avanti di aver provato una certa gelosia nei confronti del fratello. Un giorno, chissà, qualcuno avrebbe messo in discussione quello stato di cose. Perché un uomo doveva avere più diritti di una donna?
Non appena fu abbastanza grande per imparare a leggere e a scrivere, cominciò a studiare sotto l’occhio attento di Said Agha, il suo precettore. Le venne insegnato a suonare il pianoforte, a parlare il turco, l’italiano e, come a tutte le “fanciulle di buona famiglia”, il francese. Ben presto, curiosa di tutto, non resistette al piacere di rubare la chiave che apriva la biblioteca del padre. Ogni volta che ne aveva l’occasione vi si rifugiava per nutrirsi di poesia e di letteratura. Non sapremo mai se, in mezzo a tutti quei libri, non sia capitata anche su qualcuno di quelli “proibiti”.
Sorprendente paradosso, questa donna, che fu non solo la prima femminista ma anche la figura più importante del nazionalismo egiziano, non padroneggiava la lingua araba a sufficienza da essere in grado di usarla per scrivere le sue Memorie, perciò dovette fare appello a un segretario. Nonostante avesse imparato il Corano a memoria, non venne mai autorizzata a seguire dei corsi di lingua araba. A questo proposito, proprio lei racconta come reagì Said Agha, l’eunuco incaricato di sovrintendere ai suoi studi, il giorno in cui la sua istitutrice si era presentata con un volume di grammatica araba in mano:
«Cos’è questo?» Aveva chiesto aggrottando la fronte.
«La mia giovane allieva mi ha pregato di insegnarle la grammatica».
«Riprendete il vostro libro, signora. La signorina non ha nessun bisogno di grammatica: non deve certo diventare una giurista!»
A parte questo paradosso, esisteva all’interno della società egiziana una reale contraddizione legata alla complessità morale e politica dei paesi che vivevano allora sotto il giogo della colonizzazione. Se, sotto certi aspetti, la rivendicazione nazionalista si era sviluppata in tutti gli ambienti sociali più europeizzati, con tutto ciò che quella “occidentalizzazione” implicava in termini di progresso e di evoluzione dei costumi, sotto altri aspetti le donne continuavano ad accettare la loro reclusione e l’obbligo del velo. Ai loro occhi, questi due elementi erano un modo di affermare le loro differenze, anzi addirittura di esprimere la loro resistenza di fronte all’occupante occidentale.
Il giorno dopo il suo dodicesimo compleanno, Hoda Sha‘rawi iniziò a notare attorno a sé un’attenzione febbrile, bisbigli e occhiate complici, fino a quando una sera riuscì a cogliere dei brandelli di conversazione.
La madre e la zia di lei, Gazbeyya Hanem, discutevano animatamente:
«Ma se ti dico che la famiglia del khedivè vorrebbe sposarla a uno dei suoi figli!»
«Sarebbe terribile!»
Poi Gazbeyya Hanem aggiunse:
«La soluzione migliore è che sposi suo cugino».
«Ali? Ali Sha‘rawi? Che orrore! Un uomo che potrebbe essere suo padre».
«È vero, ma sempre meglio di uno sconosciuto, oltretutto membro della famiglia del khedivè: non la rivedresti più!»
E la zia concluse: «È il solo modo per garantire che i beni che ha ereditato dal padre non escano dalla famiglia».
Sposata? A dodici anni? E oltretutto con uno che non le era mai piaciuto?
Hoda non poteva credere alle sue orecchie, era impossibile. Eppure, era proprio ciò che sua madre stava per imporle.
Accolse la notizia piangendo e precipitò in un profondo abbattimento, divisa tra abnegazione e ribellione. Venne accusata di voler disonorare il nome del defunto padre e di voler “uccidere” sua madre, che non sarebbe sopravvissuta a quel rifiuto. Quel che più turbava la fanciulla riguardo quelle nozze forzate, era che non solo il cugino e tutore fosse già sposato, ma che fosse anche padre di tre femmine, tutte maggiori di lei.
Iqbal dovette in qualche modo rendersi conto della disperazione della figlia, perché qualche giorno prima della fatidica data tentò di trovare una soluzione onorevole. Fece stendere un documento secondo il quale il futuro marito doveva essere monogamo. Ciò significava che doveva separarsi dalla prima moglie e interrompere ogni rapporto con lei. Inoltre, se avesse preso un’altra moglie dopo il matrimonio con Hoda, la loro unione si sarebbe automaticamente interrotta. Probabilmente Iqbal aveva davvero creduto che Ali Sha‘rawi avrebbe firmato, ma non lo fece. Gli inviti per le nozze erano già stati spediti: era fuori discussione annullare la cerimonia, così il matrimonio venne celebrato. Hoda aveva solo tredici anni, Sha‘rawi venti di più. Non sappiamo se le nozze siano state consumate quella notte e in quali condizioni. Tutto ciò che riguarda la sessualità, argomento che rimane tabù, non è presente né nel racconto di Hoda della sua giovinezza e neppure nelle rivendicazioni del movimento cui lei darà vita. Vi si può invece trovare la maggior parte dei temi che alimenteranno la sua lotta in difesa delle donne: l’uguaglianza dei due sessi, il diritto all’educazione, la condanna dei matrimoni precoci e la condanna della poligamia.
L’Egitto del XIX secolo esercitava un fascino notevole. Dopo che Bonaparte vi era sbarcato nel 1798 e che il mistero dei geroglifici era stato svelato da Champollion, l’egittomania aveva invaso la Francia. Un viaggio in Egitto veniva ritenuto imprescindibile da celebrità come Flaubert, Lamartine, Chateaubriand, Gérard de Nerval e molti altri, ma anche da anonimi amanti dell’avventura, uomini e donne. Queste ultime erano particolarmente ben accolte nell’alta società cairota, sia che fossero mogli di autorità locali – come Eugénie Le Brun, autrice del libro La Répudiée, il cui marito, Hussein Rushdi, fu primo ministro in Egitto – o conferenziere femministe, come Marguerite Clément o Mlle A. Couvreur5, una delle primissime donne in Francia ad aver ottenuto l’abilitazione all’insegnamento nella scuola superiore.
Come c’era da aspettarsi, nella sua nuova condizione di sposa la fanciulla cominciò a deperire. La differenza di età, le imposizioni nelle quali era stata imprigionata, la paura di comportarsi nel modo sbagliato, la proibizione di suonare il piano e di uscire, anche solo per far visita a un’amica, l’interrogatorio quasi militare che il marito le faceva subire se la sorprendeva a parlare con un membro maschile della servitù, il panico che si impadroniva di lei a ogni minimo rumore di passi e che la induceva a nascondersi per paura di veder apparire un altro uomo che non fosse il marito: erano tutti elementi che rendevano la sua esistenza un incubo.
Poi una mattina Iqbal entrò in camera sua richiedendole una busta che le aveva affidato pochi giorni dopo le nozze.
«Una busta?» chiese stupita Hoda.
«Esatto. Ti avevo raccomandato di conservarla con cura: spero che tu non l’abbia persa!»
Evidentemente quella storia della busta le era del tutto sfuggita di mente, tuttavia riuscì a ritrovarla e la consegnò alla madre.
«Sai che cos’è?»
Hoda scosse il capo.
«È il documento che ho voluto far firmare a tuo marito prima del matrimonio, quello che diceva che lui avrebbe dovuto rimanere monogamo e che non avrebbe più intrattenuto rapporti con la prima moglie».
«Me lo ricordo: ma non aveva rifiutato di firmare?»
Iqbal confermò.
«È vero, ma io ho talmente insistito che qualche giorno dopo la cerimonia ha finito per cedere».
Poi aggiunse seccamente: «Lui non ha più alcun diritto su di te!»
E siccome Hoda non fiatava, la madre continuò: «Ha ricominciato a vedere la sua schiava! Ho scoperto che corre da lei ogni volta che gli è possibile e, cosa ancor più ignobile, lei aspetta un bambino da lui».
Hoda non poté fare a meno di gettare un grido di gioia. Poteva tornare a casa sua, finalmente libera!
Erano trascorsi appena quindici mesi dal matrimonio.
Forte del contratto che sua madre era riuscita a imporre al marito, poté separarsi da lui (fisicamente, non giuridicamente) e acquisire un minimo di autonomia. Ricominciò le lezioni di francese con una certa Mme Richard, vedova di un ingegnere francese, donna molto colta, che trasmise a Hoda la sua passione per quella letteratura.
Si dedicò nuovamente al piano e cominciò a frequentare l’Opera, naturalmente sempre ben nascosta nei palchi riservati alle donne, da dove poteva assistere allo spettacolo senza essere vista. Fece delle escursioni in battello sul Nilo e si legò di stretta amicizia con Eugénie Le Brun, che aveva l’abitudine di organizzare tutte le domeniche un salon nel quale si riunivano i migliori intellettuali del Cairo, e dove gli argomenti più diversi venivano discussi in totale libertà. Hoda ne divenne rapidamente una delle visitatrici più assidue.
Purtroppo, dopo sette anni le porte della prigione dovevano richiudersi di nuovo su di lei: alcuni amici del marito cominciarono a far pressioni su Hoda affinché tornasse al domicilio coniugale. Tra questi Zubair pascià, un parente della coppia, il quale volle farle capire che il suo comportamento «non era degno di una figlia di Sultan pascià».
«Lo sai che secondo la legge tuo marito potrebbe obbligarti a vivere con lui?»
«Per quale ragione?» insorse Hoda. «Non vive nella solitudine, che io sappia! Non ha forse una donna al suo fianco, una sposa docile che gli fa un figlio all’anno?»
Anche un altro amico, Sheikh el-Laithi, cercò a sua volta di convincerla, ma la pressione maggiore venne, indirettamente, proprio da suo fratello Omar. Era fidanzato da due anni, e la data delle nozze non era ancora stata fissata. Un giorno in cui Hoda stupita gliene aveva chiesto la ragione, lui le spiegò: «Finché tu non sarai tornata da tuo marito, il matrimonio per me è impossibile. Sai bene che così vuole la tradizione: il maschio della famiglia non ha il diritto di sposarsi se prima tutte le sue sorelle – e tu sei l’unica – non si sono maritate».
Eravamo nel 1900 e Hoda aveva ventun anni. Cedette: aveva forse alternative? Da allora rientrò nei ranghi, ridivenne una sposa docile e rispettosa delle regole, diede anche alla luce una bambina, Bassna, e un maschio, Mohammad. Si dedicò completamente alla loro educazione e solo quando ebbero circa dieci anni cominciò a viaggiare, dapprima in compagnia della madre, con cui andò a passare le vacanze estive in Turchia, e poi con il marito, che la condusse a Parigi per distrarla dal dolore in cui l’aveva precipitata la morte repentina di Eugénie Le Brun.
Lì abita in un bell’albergo vicino agli Champs-Élysées, l’hotel Princesse, e può ammirare l’eleganza delle donne, che non tardò a imitare, come testimoniano le foto dell’epoca. Vi si vede una donna giovane e bella, con un cappello appuntato sopra lo chignon, appoggiata a un parasole. S’innamorò letteralmente della Ville Lumière, dei monumenti delle strade, di ogni quartiere. Si sentiva in stretta intimità con quella cultura, che aveva conosciuto così spesso durante i suoi studi e che ora poteva finalmente “vedere” e “sentire”. Invece, quel che l’indispose – scrive nelle sue Memorie – fu la mancanza di cortesia dei parigini e degli autisti di taxi, e in particolare la freddezza delle commesse. Il contrasto tra la dolcezza egiziana e la rudezza della vita parigina la stupì e la disturbò.
Di ritorno nella sua casa del Cairo, non esitò a farsi fotografare nei begli abiti parigini, scollati e pieni di nastri, ma, quando usciva in pubblico, naturalmente si velava di nuovo.
Nel suo intimo si agitava sempre più forte la volontà di trasformare la condizione delle donne e, insieme, un’insistente idea nazionalista. Quell’idea le era germogliata in testa una mattina del 1908, quand’era stata invitata a palazzo dalla principessa Ain el-Hayat, figlia del sultano Hussein Kamel. Il ricevimento era in onore di Lady Cromer la quale, avendo fondato un dispensario, voleva ringraziare le donne che grazie ai loro contributi ne avevano permesso la realizzazione.
Hoda declinò l’invito. Incuriosita dal rifiuto, Ain el-Hayat la chiamò qualche giorno dopo per chiedergliene la ragione. Hoda le spiegò allora che non poteva assolutamente sostenere le iniziative di quella donna, per quanto generosa fosse, perché era la moglie di Lord Cromer, l’alto commissario britannico, un uomo che da venticinque anni governava l’Egitto con pugno di ferro.
Poi aggiunse: «Spetterebbe a noi donne egiziane dar vita a progetti come questo: non lasciarlo fare a degli stranieri, e occupanti, oltretutto».
Evidentemente la reazione di Hoda dovette colpire molto la principessa, che non solo l’approvò, ma la incoraggiò a creare con il suo aiuto quell’istituzione che lei avesse giudicato utile. Venne dunque fondato un dispensario con annessa una scuola di puericultura e di pronto soccorso aperta alle donne di condizioni modeste e senza distinzioni di carattere religioso.
L’istituzione, sostenuta da un’associazione filantropica (il Mabarrat Mohammad Ali6), venne finanziata con donazioni, ma anche con collette organizzate nei principali palazzi. Il piccolo dispensario divenne presto un grande ospedale, a partire dal quale si sviluppò tutta una rete di istituti di cura dello stesso tipo.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, nel luglio del 1914, la nipote di Hoda morì all’improvviso. Terribilmente scioccato dal lutto, Mohammad, il figlio di quattordici anni di Hoda, cadde in depressione. Chiamati al suo capezzale, i medici egiziani consigliarono di condurre il ragazzo in montagna, così Hoda e il marito scelsero la Francia e su indicazione di un medico parigino optarono per Vittel. Prima di recarsi nella stazione termale, l’egiziana trovò il tempo di assistere a un incontro di donne pacifiste che reclamavano il diritto di voto. Là non solo ritrovò la sua fedele amica Marguerite Clément, ma fece anche la conoscenza di nuove personalità femministe, come Avril de Sainte-Croix7.
Dopo che suo figlio ebbe ritrovato la salute, rientrò in Egitto. Un ritorno che lo scoppio della guerra avrebbe trasformato in un’epopea: Basilea, Zurigo, Milano. Il 10 agosto 1914 lei e Mohammad si imbarcano a Genova a bordo della nave Oriente, ma quando otto giorni dopo arrivano ad Alessandria vengono informati della morte di Iqbal, la madre di Hoda. Nuovo terribile colpo.
Terminato il periodo del lutto, Hoda riprende la lotta per i diritti delle donne, e nel novembre del 1914 crea l’Associazione intellettuale delle donne egiziane.
Forte del suo successo, si impegnò nella battaglia per lo sviluppo intellettuale delle donne delle classi superiori. Paradossalmente, l’accesso alla cultura e all’educazione era più difficile per loro che per le donne delle classi medie, le quali, meno sottoposte agli obblighi di reclusione tradizionali, cominciavano a frequentare le prime scuole femminili, diventavano insegnanti e aspiravano a entrare all’università.
Hoda invitò l’amica Marguerite Clément a tornare in Egitto per tenere una nuova serie di conferenze. In risposta a coloro che giustificavano l’assenza di autonomia delle donne invocando la legge islamica, la francese, incoraggiata da Hoda, si sforzò di spiegare che era proprio dentro l’Islam che si trovava la fonte dei diritti delle donne: un dibattito che ancor oggi è bel lontano dall’essere concluso. La stessa idea sarà ripresa da personalità come Fatima Mernissi, sociologa, scrittrice e femminista marocchina. Ricordiamo che a quell’epoca vivevano in Egitto donne cristiane, copte e di origine siriana, e che le più avvantaggiate tra loro avevano la possibilità di godere dell’insegnamento delle scuole religiose e di accedere più liberamente ai luoghi pubblici. Hoda riteneva dunque che le donne mussulmane dovessero godere degli stessi diritti. Del resto, le donne che appartenevano alle élites cristiane aderirono ampiamente alle sue iniziative. La storica americana Margot Badran avanza la fondata ipotesi che Marguerite Clément non fosse altro che la portavoce di Hoda Sha‘rawi che, a causa della sua condizione, non poteva parlare in pubblico. Quando trasgredirà questa regola, saprà farlo con fermezza e determinazione, ma vi si sentirà autorizzata solo dopo la morte del marito…
Nel 1917, una nuova tragedia sconvolge l’esistenza della femminista egiziana: la morte del fratello Omar.
«Quando mio fratello morì» scriverà «il mio interesse per la vita scomparve con lui. Avevamo condiviso una grande intimità. Era stato la gioia della mia vita, qualcuno con cui potevo comunicare e su cui contavo. Perdendo lui, perdevo un legame tra me e il mondo. Se non avessi avuto i miei figli, non sarei mai sopravvissuta alla morte di mio fratello».
È riconoscibile in Hoda Sha‘rawi una struttura delle relazioni familiari tipica di molte famiglie della cultura mediterranea. Il legame con la famiglia d’origine sopravanzava quello coniugale, il quale in quell’epoca era molto più di tipo economico e sociale che amoroso. Lo possiamo vedere anche nell’atteggiamento di suo marito. Nonostante l’abisso affettivo che separava i due coniugi, Ali Sha‘rawi ebbe il merito di coinvolgere la moglie nella sua battaglia politica personale ed entrambi si schierarono a fianco del grande leader nazionalista Saad Zaghlul. Hoda era tanto più coinvolta in quella battaglia in quanto Zaghlul difendeva numerosi temi ispirati alla modernità europea: organizzazione di partiti politici con lo sviluppo di un sistema elettorale, richiesta di dibattiti pubblici, volontà di costruire un paese laico in cui non esistesse una religione di stato. Secondo questa visione, le donne occupavano un posto particolare, quello di compagne che non venivano più nascoste dietro i muri dell’harem ma mostrate in pubblico, come fece del resto Zaghlul con la moglie, che riceverà il soprannome di “Madre della nazione”.
Fu l’impegno nazionalista del marito a convincere Hoda a non separarsi da lui quando i loro rapporti divennero molto difficili. Infatti, sotto le sue apparenze di uomo “moderno”, Ali Sha‘rawi rimaneva muto di fronte alle aspirazioni della moglie. Arrivò al punto da imporle di far sposare sua nipote Naila (figlia allora solo quattordicenne del fratello morto) a suo figlio di vent’anni Hassan che ancora studiava in Inghilterra. La tensione fra Hoda, il marito e il figlio di quest’ultimo, che le era particolarmente ostile, fu estrema. Lei scriverà: «Se la nostra coppia non fosse stata coinvolta nel movimento nazionalista, mi sarei separata da mio marito a causa di Hassan. Avevo messo in secondo piano la mia vita personale, e l’unica cosa che m’importava era la causa del mio paese».
Lo scoppio della Prima guerra mondiale aveva in effetti posto la questione dello statuto dell’Egitto. Alla fine della guerra gli egiziani, irritati dalle promesse di indipendenza fatte agli arabi e reclamando che anche al loro paese venga applicato il principio dei popoli a disporre di se stessi enunciato dal presidente Wilson, volevano ottenere dagli inglesi l’indipendenza. Saad Zaghlul costituì una delegazione (in arabo Wafd ) assieme ad Abdul Aziz Fahmi e Ali Sha‘rawi, e tutti e tre si recarono dall’alto commissario britannico per chiedere la soppressione delle misure eccezionali: legge marziale e censura della stampa.
«Noi vogliamo essere amici dell’Inghilterra» dichiarò Zaghlul «ma vogliamo l’amicizia che unisce l’uomo libero all’uomo libero, non quella che lega lo schiavo all’uomo libero». A quella richiesta, il commissario britannico rispose con una formula terribile: «In un bambino, troppo cibo provoca l’indigestione».
Il fallimento di quel tentativo e la repressione britannica che ne seguì avranno molteplici conseguenze: la prima sarà il coalizzarsi dell’opposizione attorno a un partito strutturato, che si chiamerà Wafd, come la delegazione tanto disprezzata. Si appellerà a tutto il popolo e Ali Sha‘rawi ne sarà il vicepresidente. La seconda sarà lo scoppio della rivoluzione del 1919.
Nei romanzi e nei racconti di Nagib Mahfuz vi sono riferimenti e allusioni a quegli avvenimenti violenti che hanno segnato profondamente la memoria collettiva egiziana, ma non si parla affatto del ruolo svolto da donne come Hoda, che pure fu determinante. Poiché gli uomini erano costantemente minacciati di arresto e deportazione, toccava alle donne prendere il loro posto. Hoda Sha‘rawi si impegnò nel movimento, mentre manifestazioni e scioperi si susseguivano. Il 14 marzo 1919, una donna, Hamidah Khalil, cadde uccisa da un proiettile inglese davanti alla moschea del sultano Hussein: fu la prima martire della causa nazionale. Quarantott’ore dopo, circa duecento donne dell’alta società egiziana si riunirono per manifestare. Giunte in macchina nel luogo della riunione, si misero in marcia, il volto ricoperto dal velo, innalzando bandiere su cui si vedevano insieme croci e mezzelune, a significare la solidarietà tra copti e mussulmani, e cartelli che chiedevano la fine dell’occupazione britannica.
Hoda Sha‘rawi naturalmente faceva parte del gruppo, a dispetto della proibizione del marito. Di fronte a quella marea di donne, il comandante britannico si trovò in una situazione di grave imbarazzo e, non potendo ovviamente far uso della forza contro quei “tesori”, si accontentò di umiliarle, obbligandole a restare in piedi per tre ore in pieno sole.
Nella manifestazione successiva che si tenne pochi giorni dopo, le fece circondare da ufficiali egiziani, spesso di origine contadina, aizzandoli a essere offensivi e volgari nei confronti di quelle donne giudicate troppo eleganti. Seguirono scambi di parole molto pesanti che turbarono alcune ragazze, racconta Hoda nelle sue Memorie, al punto da farle scoppiare in lacrime.
Le sommosse proseguirono. L’8 aprile 1919 si tenne una grande manifestazione che ebbe la particolarità di riunire uomini e donne in un’organizzazione che rifletteva perfettamente la gerarchia sociale: in testa marciavano gli uomini, seguivano i membri del governo e i deputati. Ultimi erano gli studenti delle scuole inferiori e i liceali, subito seguiti dalle donne, anche loro in ordine gerarchico: quelle delle classi elevate in macchina, le altre con i propri carretti.
Hoda non si limitò a partecipare a quei movimenti. Aiutata da altre donne, visitò le scuole femminili, incitando senza posa le studentesse alla militanza. Nel gennaio del 1920 venne fondato il Comitato centrale delle donne del Wafd, di cui Hoda Sha‘rawi venne eletta presidente. Il Comitato vide la luce nella cattedrale copta del Cairo, formato in gran parte, ma non esclusivamente, da mogli di membri del partito. La sua attività durante la lotta per l’indipendenza nazionale si sarebbe rivelata decisiva, sia tramite la raccolta di fondi che con gli inviti al boicottaggio o il sostegno agli scioperi.
La maggior parte delle donne appartenevano a famiglie di grandi proprietari, per cui non fu loro difficile svolgere un ruolo di primo piano nella creazione della Banca Misr, la nuova banca nazionale che doveva essere il simbolo della futura indipendenza. Proseguendo le loro attività filantropiche, ma conferendovi una giustificazione “wafdista”, ampliarono la base sociale del movimento, non abbastanza però per impedire, qualche anno dopo, la nascita delle opposizioni marxista e islamica. Per un certo tempo queste donne furono convinte di riuscire a svolgere un ruolo politico, ma purtroppo il futuro avrebbe dato loro torto8. Nei negoziati avviati con l’occupante britannico non verrà accordato loro nessuno spazio.
Ali Sha‘rawi morì nel febbraio del 1922. La vedovanza conferì a Hoda una condizione e una libertà che mise al servizio delle cause che le stavano a cuore, prima di tutto quella delle donne, che avrebbe strettamente legato alla causa nazionale. Prese le distanze dal Wafd, sempre meno rispettoso dei diritti delle donne, e nel 1923 creò un’associazione femminista indipendente, l’Unione Femminista Egiziana (UFE), che partecipò alle conferenze femministe internazionali. Hoda rimproverava a Saad Zaghlul sia il suo atteggiamento nei confronti delle donne, che nella nuova legge elettorale non avevano ottenuto il diritto di voto, sia le concessioni fatte agli inglesi accettando la separazione tra Sudan ed Egitto. Le sue dimissioni dal Wafd divennero inevitabili, e da quel momento Hoda proseguì la sua lotta nazionalista dall’interno del movimento femminista. Durante quel 1923, in maggio, si recò a Roma, alla testa di una delegazione dell’UFE, per partecipare a un congresso organizzato dall’Associazione delle donne romane. Al ritorno da quella manifestazione compì il gesto che ormai rimane impresso nella memoria di tutte le egiziane: il rifiuto del velo.
Da allora l’esistenza di Hoda si confonderà con le lotte che condurrà in numerosi campi: partecipazione a riunioni internazionali, conferenze, patrocinio di associazioni, creazione al Cairo di una Casa delle donne e soprattutto il lancio nel 1925, due anni dopo la fondazione dell’UFE, di una rivista esplicitamente femminista, redatta in francese e chiamata «L’Égyptienne», la cui caporedattrice sarà Saiza Nabarawi.
Occorre precisare che quella non era la prima né l’unica pubblicazione femminista in Egitto, ma il suo carattere al tempo stesso intellettuale e politico la distingueva da tutte le altre. L’uso del francese e il contenuto editoriale esprimevano chiaramente che la rivista, a cui collaboravano anche degli uomini, si rivolgeva a quelle stesse donne dell’alta società che animavano le iniziative filantropiche e frequentavano le conferenze.
Dodici anni dopo l’UFE lanciò una rivista bimestrale, questa volta in lingua araba. Anche se il nome, «El-Misriyah», sembrava essere l’esatta traduzione di «L’Egyptienne», il contenuto e i destinatari non erano più gli stessi. Nel suo primo editoriale, Hoda Sha‘rawi dedicò il nuovo periodico non solo ai leader intellettuali egiziani, ma anche a quelli degli stati arabi fratelli, ai giovani, alle casalinghe, alle operaie e alle contadine. Ancora una volta si trattava di collegare le rivendicazioni femministe a un programma politico. Presto, però, questo programma sarebbe cambiato.
Nel 1936, le sommosse che dagli anni Venti agitavano la Palestina si trasformarono in un vero sollevamento popolare. Forte del suo immenso carisma, Hoda Sha‘rawi non esitò a rispondere all’appello del Comitato delle donne arabe di Gerusalemme, e a battersi per ottenere una condanna internazionale della Dichiarazione Balfour. Fu lei a essere nominata alla testa della Conferenza delle donne d’Oriente, che nel 1938 condannò la politica britannica e le attività sioniste in Palestina.
A più lungo termine, lo scopo era l’unità politica del mondo arabo. Nel dicembre del 1944, su invito de «L’Égyptienne», si tenne il primo congresso femminista arabo, che in quell’occasione mise insieme femminismo e nazionalismo panarabo, dandosi come obiettivo la costruzione di una vera condizione laica per uomini e donne negli stati arabi liberati dal giogo del colonialismo. Ciò nonostante, quando pochi mesi dopo nacque la Lega araba, questa non comprendeva nessuna donna, fatto che Hoda non mancò di deplorare: «La Lega di cui avete firmato ieri l’atto fondativo è solo mezza Lega, metà del popolo arabo».
Non è mai stato semplice per le femministe dei paesi colonizzati allearsi alle donne delle potenze colonizzatrici. La situazione creatasi alla vigilia della Seconda guerra mondiale avrebbe reso le cose ancor più difficili. L’Associazione internazionale delle donne, pur affermando le proprie convinzioni democratiche, voleva restare statutariamente neutra riguardo alle questioni strettamente nazionali, perciò rifiutò di prender posizione sulla questione palestinese.
Pur essendo totalmente impegnata per la causa arabo-palestinese, Hoda aveva piena coscienza delle sofferenze subite dagli ebrei d’Europa, e dopo la guerra non esitò a votare, in seno all’Associazione internazionale delle donne, la mozione che esprimeva il suo orrore di fronte alla Shoah. Nello stesso tempo, fedele al proprio impegno, supplicò l’ambasciatore greco alle Nazioni Unite di votare contro la spartizione della Palestina. Fu il suo ultimo atto pubblico. Nel 1945, il governo egiziano le accordava il Nishan el-Kamal, la decorazione più importante mai ottenuta da una donna.
Due anni dopo, alla fine dell’estate del 1947, un’epidemia di colera infierì sull’Egitto. Hoda fu una delle prime vittime.
Si spense la sera del 12 agosto.
Nel 1981, circa sessant’anni dopo il suo gesto alla stazione del Cairo, un’altra egiziana, Nawal Sa‘daui, venne rinchiusa in prigione per essersi opposta alla legge del partito unico voluto da Anuar el-Sadat. Una volta liberata fucostretta a fuggire dall’Egitto in seguito a una condanna a morte da parte dei fondamentalisti, comminatale per aver osato dichiarare che l’uso del velo non è un obbligo coranico, e per aver chiesto l’uguaglianza nei diritti di successione tra uomini e donne, uguaglianza non riconosciuta dal Corano…
Di lassù, Hoda Sha‘rawi starà certo sorridendo.
1. Alla lettera “madre del sultano”, può essere tradotto con “regina madre” (N.d.A.).
2. Termine di origine persiana che significava “signore, principe, sovrano, viceré” (N.d.T.).
3. Termine di origine turca: titolo onorifico attribuito dapprima ai governatori di province, passò poi a indicare funzionari di grado elevato (N.d.T.).
4. Un feddan corrisponde a 4200 metri quadrati (N.d.A.).
5. Una delle sue conferenze si intitolava Studi di psicologia e morale femminile (N.d.A.).
6. Spesso viene scritto Mehmet Ali (1769-1849): fu il fondatore dell’Egitto moderno (N.d.A.).
7. Avril de Sainte-Croix (1855-1939): «Forse la maggior femminista di Francia» scriveva tra il 1920 e il 1930 «La Presse» a proposito di questa donna quasi totalmente sparita dalla storiografia della Terza Repubblica (N.d.A.).
8. Bisognerà attendere il 1957 prima che una donna, Rawya Atiya, venga eletta in Parlamento (N.d.A.).