Teodora

Costantinopoli, verso il 512 d.C.

La città brilla in tutto il suo splendore. Le tegole rosa e brune delle mille cupole delle sue chiese e delle sue terme hanno una sfumatura dorata che contrasta con il biancore scintillante dei marmi dei monumenti pubblici.

Verso l’estremità orientale della città, su quel promontorio che come una punta di lancia fende le acque del Bosforo, del Corno d’Oro e della Propontide, il palazzo sacro in cui risiede l’imperatore Anastasio dispiega la magnificenza dei suoi padiglioni.

In questo momento, Teodora – in greco theu doron, che significa dono di Dio – è ancora una bambina. Ha una sorella maggiore, Comito, e una minore, Anastasia. Sono orfane. Il loro padre, Acacius, è morto nove anni prima, lasciandole nella miseria più assoluta. Quanto alla madre, di lei ignoriamo completamente le origini e il nome.

Prima di morire, Acacius era “guardiano di orsi” – colui che dava da mangiare agli orsi, spiega lo storico Procopio1 – una funzione che trovava tutta la sua utilità durante le venationes, le cacce agli animali2 che si svolgevano all’Ippodromo tra una corsa di carri e l’altra. L’Ippodromo, il santissimo, cuore pulsante della città dove curiosi e appassionati dei giochi si incontravano regolarmente per sostenere i due gruppi rivali del momento: gli Azzurri, provenienti dall’aristocrazia, e i Verdi, usciti dagli ambienti popolari. In origine le due fazioni erano là solo per incoraggiare le diverse squadre che si affrontavano, ma ben presto il tifo si estese ad altri campi: gli Azzurri si schierarono in difesa del monofisismo3, mentre i Verdi si posero come difensori dell’ortodossia religiosa definita dai diversi concili. Su questo si innestarono naturalmente contrasti di natura politica. Acacius era al servizio della fazione dei Verdi.

In questo universo di giochi e di potere, solo i figli dei patrizi avevano un’educazione ed erano in grado di salire i gradini della società. Va da sé che né Teodora né le sue sorelle godettero di un’istruzione qualsiasi, data la miseria nella quale vivevano: al massimo può darsi che abbiano seguito qualche insegnamento collettivo in un istituto caritatevole della città.

La loro infanzia ebbe dunque per scuola la strada e per distrazioni i giochi infantili che avevano come sfondo le piazze e i giardini della città. Dopo la morte del marito, la loro madre, la “vedova senza nome” prese un nuovo compagno, che svolgeva la stessa funzione del defunto Acacius, “guardiano di orsi”, sempre per i Verdi. In quel modo la famiglia poteva bene o male tirare avanti. Poi all’improvviso, nel 504, il responsabile dei Verdi, un certo Asterios, sicuramente corrotto da qualcuno, lo licenziò, sostituendolo con un altro e privando così la vedova di Acacius e la sua famiglia della loro unica fonte di sostentamento.

Bruscamente depredata di tutto e senza via di scampo, la “vedova senza nome”, che non era donna da rinunciare o da subire, decise di giocarsi il tutto per tutto. Chiamò le tre figlie e le addestrò a recitare una pantomima degna dei più grandi melodrammi della storia. Fece loro ripetere più volte gesti di supplica e di disperazione e fece sì che assimilassero le più piccole sfumature della mortificazione affinché si impregnassero di tutta la grammatica del dolore, poi colse il giorno dedicato alla celebrazione di Flora, uno dei primi nomi della città, per dar seguito al suo astuto disegno.

Coprì le tre bambine di ghirlande e le inviò, vestite di abiti bianchi, all’anfiteatro del Kynegion.

Senza saperlo, Teodora stava calcando la scena per la prima volta.

Le tre fanciulle si arrestarono all’altezza dei Verdi a lanciare fiori sulle gradinate. Scese il silenzio. Quando vide quelle tre figure inginocchiarsi in segno di sottomissione, il pubblico comprese. I codici di comunicazione dell’epoca prevedevano la negoziazione pubblica di questioni private, l’invocazione teatralizzata.

Il pubblico si girò allora verso Asterios, ma nel suo sguardo si leggeva solo disprezzo. Il contrasto tra le supplici in ginocchio e il potente suscitò la compassione degli Azzurri, dal cui settore si alzarono i primi clamori.

La «vedova senza nome» ordinò allora alle figlie di sistemarsi gli abiti e le corone di fiori e andò di fretta verso le gradinate opposte, dove si inginocchiarono di nuovo. Allora, tra gli Azzurri si alzò un direttore dei giochi pari ad Asterios. Certamente la sua fazione aveva bisogno di un guardiano di orsi. Tese le braccia per imporre silenzio. Fece osservare che le richiedenti erano tre, tre come nella Trinità tanto cara agli Azzurri ortodossi, e che il bianco delle loro vesti esprimeva una graditissima purezza di cuore, quindi concluse che gli Azzurri accoglievano favorevolmente la loro invocazione.

La supplica del Kynegion è uno dei momenti fondamentali dell’infanzia di Teodora e spiega i rapporti che essa intratterrà con gli Azzurri prima e dopo la sua salita al potere, come pure l’avversione che manifesterà nei confronti dei Verdi quando sarà imperatrice, espressione di un ostinato desiderio di vendetta per l’umiliazione che la madre e le sorelle avevano subito quel giorno nell’anfiteatro.

Possiamo anche ipotizzare che sia stato in quell’occasione che Teodora imparò a volgere a proprio favore una situazione apparentemente perduta in partenza.

Quando le orfane raggiunsero l’adolescenza, o, come scrive Procopio, «quando furono nubili, la loro madre, per esibirne la bellezza, le fece salire sulla scena, non tutte insieme, bensì mano a mano che l’età le rendeva adatte a quell’ufficio». Ciò fa comprendere come la vedova rispettasse certi criteri di maturità in una società in cui la norma era che una donna si sposasse e partorisse a partire dai quindici o sedici anni. L’inizio di una carriera nello spettacolo doveva accompagnarsi a un’età compatibile. Fu dunque Comito, la maggiore, ad aprire la strada alle due sorelle. Probabilmente ciò accadde verso il 512, quando Teodora aveva circa dodici anni. Questo comunque non le impediva di accompagnare la sorella «vestita con una tunica corta con le maniche, simile a quella che portavano le giovani schiave».

Non sappiamo se accordar fede a Procopio quando aggiunge: «Per quanto allora Teodora non fosse abbastanza formata per avere alcun commercio con un uomo né per essere guardata come una donna, ella accordava una serie di eccessive familiarità a uomini corrotti, e anche agli schiavi che accompagnavano i padroni a teatro, dove trovavano modo di darsi a queste infamie. Passava anche molto tempo nel lupanare, abusando così del proprio corpo per piaceri contro natura».

Sicuramente lo storico esagera, soprattutto se pensiamo al rancore, per esprimersi eufemisticamente, che nutriva nei confronti di colei che sarebbe divenuta imperatrice e sposa di Giustiniano. Del resto, non si comprende bene come abbia potuto raccogliere tali testimonianze, dato che proprio dopo che Teodora salì al trono vennero emanate leggi molto severe che condannavano la sodomia e l’omosessualità, quei famosi atti «contro natura» da lui nominati.

Quanto agli spettacoli teatrali proposti dalle orfane, possiamo supporre che non si trattasse di testi seri, piuttosto di intermezzi con pochi dialoghi e molta gestualità e fisicità. «Non appena giunse alla pubertà, Teodora salì sulle scene in qualità di attrice, come dicevano gli antichi, e venne accettata come socio della compagnia. Non era né cantante né danzatrice, e non si mischiava con i giochi che avvenivano nell’anfiteatro, ma riservava il suo fascino a tutti coloro che avevano l’abitudine di frequentarla, e lavorava con tutto il suo corpo».

Ben presto, da seconda attrice al seguito della sorella maggiore, Teodora divenne attrice a pieno titolo, ed è possibile che, influenzata dalla madre, abbia aderito a una qualche organizzazione professionale femminile simile alle scuole maschili di mimi. Inoltre, cosa che sembra accordare una qualche veridicità alle insinuazioni di Procopio, rimane incinta, e verso il 516 partorisce una bambina, di cui ignoriamo il nome.

Verso i diciott’anni Teodora ottiene dei ruoli che le permettono di distinguersi nei teatri della periferia di Costantinopoli. Il suo talento di mimo viene riconosciuto anche dai suoi peggiori detrattori: «Prendeva parte a tutte le scene di mimo che venivano rappresentate in teatro: le preparava, e partecipava alle buffonate che inducevano al riso, perché era notevolmente spiritosa e graziosa e, appena in scena, attirava lo sguardo di tutti. Nessuno la vide mai tirarsi indietro per pudore, né perdere il controllo davanti a un uomo: anzi, assisteva senza farsi scrupoli agli incontri più equivoci. Eccelleva soprattutto, quando qualcuno la fustigava con una bacchetta o la colpiva sulle guance, nelle smancerie e nel provocare grandi scoppi di risa. Si scopriva davanti e dietro in modo così indecente che mostrava agli spettatori ciò che deve sempre essere nascosto e rimanere invisibile».

Da notare che, in genere, il gran finale di questi spettacoli era la nudatio mimarum, con la sfilata delle attrici completamente nude.

Man mano che si perfezionava nella sua arte, sembra che Teodora progredisse anche nella sfera amorosa, moltiplicando le conquiste.

«Eccitava gli amanti con facezie erotiche e, abile a inventare senza posa nuovi piaceri, riusciva a legare a sé in modo indissolubile anche i più libertini. Non si limitava infatti a servirsi dei mezzi più volgari, ma cercava, anche con le sue buffonate, di eccitare i sensi, e ci provava con tutti quelli che incontrava, anche con gli impuberi. Nessuna più di lei fu avida di ogni sorta di piaceri. Spesso, infatti, partecipava a quei banchetti in cui ognuno paga la propria quota, con una decina e anche più di giovani vigorosi, abituati alla dissolutezza. Dopo che per tutta la notte aveva giaciuto con loro e che questi si erano ritirati soddisfatti, andava a cercare anche i loro domestici, che magari erano circa una trentina, e si concedeva a ciascuno di loro, senza provare alcun disgusto di tale prostituzione. Accadeva che venisse invitata nella casa di qualche potente. Dopo aver bevuto, i convitati l’esaminavano a loro piacere; si dice che montasse sul bordo del letto, e che senza alcuno scrupolo mostrasse loro tutta la sua lubricità. Dopo aver operato con le tre aperture create dalla natura, le rimproverava di non avergliene fornita un’altra sui seni, dove trovare una nuova fonte di piacere».

Tuttavia, basandosi su questi aneddoti, è troppo semplicistico assimilare tali esperienze giovanili di Teodora alla prostituzione in senso stretto. Se offriva il suo corpo, lo faceva certo in cambio di doni: abiti, gioielli, servi e appartamenti, procurandosi così l’appoggio di protettori influenti.

Poiché la sua fama si diffondeva, le si cominciò a chiedere di esibirsi nelle dimore dei dignitari, le grandi domus della città, dove poteva osservare a suo agio il fasto e la vita vera di coloro che comandavano. Ma qual era il suo aspetto? Se si eccettua il celebre mosaico di Ravenna che la rappresenta, se ne sa poco, se non dalla penna di Procopio, che sembra costretto, tanto doveva essere affascinante, a gratificarla di una descrizione che possiamo ritenere imparziale: «Aveva un bel volto ed era aggraziata, esile. Il suo occhio era sempre attento e le sopracciglia aggrottate».

Dal mosaico, in ogni caso, si può cogliere uno sguardo acuto che pare scrutare attorno a sé per prevedere i pericoli e cogliere le opportunità.

Dopo il compimento dei vent’anni, nella massa indistinta dei suoi amanti e ammiratori si staglia una figura precisa. L’indistinto cede il passo allo specifico, così che appare il primo, e in realtà unico, amante di Teodora del quale si abbia qualche documentazione. Si chiamava Ecebolo, era originario di Tiro, l’antica città fenicia, e aveva ottenuto il governo della Pentapoli della Libia settentrionale. Ignoriamo in quale occasione si siano conosciuti, ma una cosa è certa: Teodora lo accompagnò a Tiro e svolse al suo fianco diverse funzioni: quella di concubina ma anche forse di accompagnatrice, nonostante Procopio ci assicuri che la donna aveva seguito il fenicio «alle più vergognose condizioni», lasciando intendere che fosse la sua serva. Non sappiamo nemmeno quanto sia durato il loro rapporto: sappiamo solo che questo ebbe termine quando lei viveva assieme a Ecebolo ad Apollonia, la capitale della Pentapoli. Il deserto della Cirenaica non assomigliava molto a Bisanzio e, malgrado l’attaccamento che provava per il fenicio, Teodora trovò pesante quell’esilio. Rimpiangeva Costantinopoli e doveva trovare il modo di rompere, così si rese talmente sgradevole che il suo amante, esasperato, non ebbe altra scelta che cacciarla.

Fu follia o incoscienza, da parte della donna? Non appena messa alla porta, Teodora si ritrovò da sola in una terra che non era la sua e di cui non sapeva nulla. Gli Anedocta ci dicono che Ecebolo la lasciò «priva del minimo vitale», di modo che ella dovette affrontare quella sventura contando solo sulle proprie forze e su quei pochi beni che aveva portato con sé: gli abiti e i gioielli che non aveva venduto per assicurare l’esistenza della figlia lasciata nella capitale.

Dove trovò l’energia per compiere l’incredibile viaggio di ritorno, attraversando la Palestina, la Siria e l’Anatolia? Un’avventura che ha del miracoloso.

Con la sua solita abitudine alla denigrazione, Procopio fornisce una spiegazione: «Si recò dapprima ad Alessandria, e tornò a Costantinopoli dopo aver percorso tutto l’Oriente ed esercitato, in ogni città, un mestiere che nessun uomo che voglia conservare la protezione della divinità può nominare, di modo che, grazie all’intervento dei demonio, non vi fu luogo che non fosse stato insozzato dal libertinaggio di Teodora».

Di ritorno a Costantinopoli, un’idea la ossessiona: riconquistare la città. Non possiede più nulla, se non la giovinezza e le briciole delle sue ricchezze. Chiede allora l’aiuto non di una persona, ma di un’istituzione: la Chiesa. Si rivolge ai sacerdoti, invocando il diritto d’asilo. La supplica non può non essere presa in considerazione, ma provoca tuttavia un grande imbarazzo.

Le classi dirigenti del potere ecclesiastico erano legate a quelle del potere civile che, nella persona di Ecebolo, avevano cacciato Teodora. Inoltre, i suoi precedenti non corrispondevano affatto al modello della cristiana ideale. Le venne dunque chiesto di fornire prove concrete del suo pentimento, e si pretese che si recasse ad Alessandria, distante tre settimane di viaggio, fornendole aiuto e protezione. Giunta nella grande metropoli egiziana, avrebbe dovuto mettersi in contatto con i rappresentanti locali degli Azzurri, appoggiandosi a una rete di solidarietà che copriva tutte le città.

Si acconsentì che la supplice viaggiasse, debitamente coperta da un abito e una cuffia nera, assieme a un gruppo di prelati che si recavano a un sinodo ad Alessandria. I suoi abiti mondani e i suoi gioielli vennero impacchettati e allegati a una lettera di presentazione per un convento femminile della città che si offriva di darle ospitalità. Quel soggiorno alessandrino, di cui ignoriamo la durata, ebbe certamente qualche effetto sulla personalità della futura imperatrice.

Teodora approfittò della sua permanenza in territorio egiziano per incontrare, tramite reti religiose ed ecclesiastiche, due figure salienti del monofisismo che vivevano allora ad Alessandria. Il primo era un teologo di nome Severo, originario della Turchia, uomo di grande cultura, l’altro il patriarca Timoteo III, vero papa locale. Bisogna ricordare che a quell’epoca la scuola di Alessandria era senza alcun dubbio la più stimata tra le istituzioni di studi teologici dell’antichità cristiana.

Ad Alessandria, inoltre, Teodora poté svolgere un altro degli aspetti della sua missione: riprendere i contatti con la fazione degli Azzurri del Levante. Come l’avevano salvata vent’anni prima, quando lei e le sorelle si erano inginocchiate nell’anfiteatro del Kynegion, anche questa volta le vennero in aiuto, e grazie a loro nel 521 fu in grado di ripartire per Costantinopoli.

Durante una tappa del viaggio di ritorno fece amicizia con una danzatrice di nome Macedonia, molto stimata tra gli Azzurri, a cui confidò di aver sognato che non doveva assolutamente preoccuparsi del denaro e che, una volta giunta a Costantinopoli, avrebbe giaciuto con il principe dei demoni, avrebbe vissuto con lui come moglie e sarebbe stata padrona di ogni ricchezza.

Che Macedonia avesse creduto o meno a quella confidenza, le offrì tutti i suoi incoraggiamenti e le predisse a sua volta che presto la sorte l’avrebbe fornita di grandi ricchezze. La danzatrice aveva una fitta rete di conoscenze influenti, tra le quali quella di un personaggio che avrebbe giocato un ruolo determinante e definitivo nella vita di Teodora: nient’altri che Giustiniano, nipote dell’imperatore regnante.

Nato nel 482 in un villaggio presso l’attuale Skopje da famiglia assai modesta di Illirici romanizzati, aveva avuto la grande fortuna di essere nipote di Giustino I, di essere adottato da questi e di essere stato nominato patrizio4 dopo aver beneficiato di un’eccellente educazione.

Si dice che il potere di Macedonia fosse così grande che bastava una sua lettera a Giustiniano per ostracizzare questo o quel notabile d’Oriente e far confiscare i suoi beni. È dunque molto probabile che, presa da simpatia per Teodora, le abbia fornito una lettera di presentazione presso il futuro imperatore, che aprì alla giovane donna le porte del palazzo.

Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano era un uomo di cui si diceva che non avesse nemmeno il tempo di dormire tanto era sommerso dalle responsabilità affidategli dallo zio. Sulla quarantina, era ancora celibe, cosa che ovviamente suscitava ardenti speranze matrimoniali nelle migliori famiglie aristocratiche dell’Impero, particolarmente orgogliose di presentargli le attrattive delle loro figlie sedicenni fornite di favolose doti.

Teodora accelerò il ritorno, limitando al minimo gli ingaggi teatrali che gli Azzurri le procurarono lungo le strade che portavano da Antiochia a Costantinopoli. In attesa di essere ricevuta da Giustiniano, condusse una vita ritirata, riallacciando i rapporti con le sorelle e con gli Azzurri, la fazione dei suoi protettori. Nello stesso tempo manteneva relazioni epistolari con i suoi maestri spirituali di Alessandria. Aveva allora circa ventun anni.

L’incontro tra Giustiniano e Teodora ebbe luogo certamente tra il 521 e il 522. Venne invitata a palazzo e ammessa alla presenza del console. Questi la esaminò minutamente e ne rimase profondamente turbato. Avrebbe potuto essere sua figlia: li dividevano vent’anni. Aveva sentito parlare di lei? Delle sue scappatelle? Della sua conversione al partito degli Azzurri nelle circostanze che conosciamo, una decina d’anni prima? Senza dubbio, ma non se ne curò assolutamente. Colei che gli stava davanti rispondeva in tutto e per tutto al suo ideale di donna: «Giustiniano se ne innamorò perdutamente e il suo amore fu violento» scrive Procopio. Quanto a lei, subì totalmente il suo fascino, sedotta dalla sua maturità e soggiogata dall’uomo di potere. Tra i due non poteva che prodursi una sintonia: «Ella acquistò un credito straordinario e i mezzi per procurarsi ricchezze. Rivestì agli occhi di quell’uomo la più dolce attrattiva e, come accade a coloro che amano senza misura, egli volle accordare a quell’amante tutti i favori e i benefici di cui poteva disporre. Accrescere quell’opulenza fu l’alimento della sua passione».

Procopio dice il vero. Un anno dopo il colpo di fulmine, Teodora venne promossa a patrizia, occupando dunque lo stesso rango di Giustiniano. Se gli occhi dell’attrice ammessa a palazzo si mostravano attenti e concentrati è perché essi esaminavano coloro che le si trovavano intorno: cortigiani, funzionari, prelati e militari, le cui riserve, qualora avessero il coraggio di farne, venivano espresse a mezza voce. La donna invece era molto acuta e coglieva ogni minimo gesto, ogni minima parola, incidendole definitivamente nella memoria. Poi ne informava Giustiniano o gliene chiedeva ragione.

Tra il 523 e il 524 morì Eufemia, moglie dell’imperatore Giustino, la quale, come possiamo immaginare, non amava affatto Teodora. Per l’ex attrice si apriva una nuova porta: «Finché l’imperatrice era viva, Giustiniano non poteva in alcun modo fare di Teodora una sposa legittima: per quanto ella non gli si opponesse su alcun punto, su questo rimaneva irremovibile». Del resto la legge proibiva ai senatori il matrimonio con una donna nata in condizione servile o che fosse salita sulla scena, e mai l’imperatrice avrebbe tollerato che una donna perduta entrasse nella sua famiglia.

Nulla di più naturale che, dopo la morte della moglie, Giustino abbia emanato una legge per venire incontro ai due amanti. Si tratta della Constitutio de nuptiis, scritta per un’attrice pentita che conduca vita onorevole. Le si concede di fare appello all’imperatore per sposare un uomo di rango superiore: il matrimonio viene autorizzato senza appello a un’attrice che sia pentita e che prima sia stata insignita di un titolo onorifico. Infine i figli, maschi o femmine, nati dall’attrice prima del pentimento possono sposarsi liberamente, tutto ciò affinché la via del pentimento sia aperta per quelle che si fossero prostituite sulla scena.

Teodora poteva dunque essere sposata da Giustiniano senza che l’imperatore potesse interporre appello. Eccola dunque finalmente accettata, riconosciuta, legittimata: ora gode della completa libertà di muoversi sulla scena non più del teatro, ma del potere.

Verso il 524 Giustiniano si ammala di orchite, un’infiammazione ai testicoli che lo renderà sterile. Malgrado ciò, il loro matrimonio viene celebrato un anno dopo, con gran dispetto di Procopio: «Giustiniano non si vergognò di unire a sé una donna che la comunità degli uomini guarda come riprovevole e, senza preoccuparsi affatto di ciò che abbiamo riferito, accoglie nel suo letto quest’essere insozzato dalle più grandi laidezze, che si era reso colpevole di numerosi infanticidi tramite aborto. Nulla, secondo me, può essere più adatto a descrivere la corruzione dei costumi di quest’uomo. Tutti i vizi della sua anima si rivelano per il solo fatto di un’unione così indegna».

Tre anni dopo, il 1° agosto del 527, l’imperatore Giustino muore a ottant’anni, divorato dalla cancrena. Giustiniano gli succede sul trono imperiale: ha quarantacinque anni. Teodora, ora imperatrice, si installa nell’appartamento imperiale, nel palazzo sacro sul Bosforo. È il suo trionfo, è allo zenith. Ben presto viene messa in atto una severissima politica contro gli eretici o gli scismatici cristiani, particolarmente presi di mira: manichei, pagani, ebrei e samaritani. Quando nel 529 questi ultimi si ribellano in Palestina, la repressione è spietata. Secondo Procopio «centomila uomini perirono in circostanze drammatiche. Il paese più fertile di tutta la terra rimase da allora deserto e privo di braccia che lo coltivassero».

Gradualmente Teodora giunge a esercitare una considerevole influenza sull’imperatore e, nonostante non sia mai stata associata in modo diretto al potere, la sua intelligenza e la sua abile gestione degli affari politici hanno indotto molti storici a pensare che fosse lei, e non Giustiniano I, a regnare sull’Impero bizantino, tanto più che riceve personalmente gli emissari stranieri e corrisponde con gli altri regnanti, due funzioni generalmente riservate all’imperatore. Inoltre, il suo nome viene menzionato in quasi tutte le leggi promulgate in quel periodo.

Nello stesso anno la sorella maggiore, Comito, sposa uno dei più vicini collaboratori di Giustiniano, il generale Sittas, il che pone quest’ultimo tra i militari amici del potere. Teodora poteva contare anche sull’eunuco Narsete: prima tesoriere imperiale, egli verrà posto a capo dell’esercito in Italia e si rivelerà il migliore stratega del suo tempo.

Gli stessi potenti che un tempo evitavano di sfiorare la mano dell’ex attrice giudicandola impura devono ora esprimere con i gesti e le parole la loro devozione. Si prostrano, non solo davanti al sovrano, ma anche davanti a lei, Teodora, e non è permesso loro di rialzarsi se prima non hanno sfiorato con le labbra i piedi dei due augusti. Naturalmente la novità desta scandalo.

Teodora sta entrando nella terza fase della sua vita. Ama le ricchezze e gli onori: per sé, per i suoi intimi e per i suoi sostenitori. Si inorgoglisce sentendo l’appellativo di Teodoriade, usato per indicare certe province e città in Asia.

Gode nel vedere il proprio nome associato a quello dell’augustus nelle iscrizioni dedicatorie e nei monogrammi che ornano i capitelli delle nuove chiese. Gli strumenti del suo potere – o della sua crudeltà di «distruttrice di mortali» se vogliamo credere alla critica maschile che le si oppone – sono discreti: allusioni allo stridere di chiavistelli «in certe sue celle a palazzo, cupe, segrete, inaccessibili». Ne fanno esperienza per molto tempo vari militari, cui non viene risparmiato il bavaglio. Come pure un gran numero di notabili, ai quali viene improvvisamente proibito di parlare o di protestare. È così per Prisco, un tempo segretario personale di Giustiniano, che a Teodora pare arrogante se non addirittura ostile, e che perciò viene mandato in esilio. Era stato un laico, al centro del potere: si ritrova monaco in qualche arida isola del mar Egeo.

Il 532 comincia con nuovi disordini tra Azzurri e Verdi. Giustiniano, assorbito da questioni militari in Occidente, mette in atto misure coercitive contro le frange estreme delle due fazioni rivali. Errore fatale, perché Azzurri e Verdi, con un totale rivolgimento di fronti, si alleano, pretendendo, il 13 gennaio, un’amnistia. Di fronte al rifiuto dell’imperatore, gli insorti irrompono nel quartiere imperiale e in quelli adiacenti al grido di Nika, vittoria, saccheggiando i depositi imperiali e prefetturali, incendiando le caserme e massacrando i soldati e i funzionari imperiali.

Il 14 gennaio Giustiniano cede, ma è troppo tardi: la rivolta si è ormai trasformata in una vera insurrezione. Il 15 bruciano la basilica di Santa Sofia, il senato e il palazzo imperiale, in un incendio devastante che dura tre giorni; il 18 è in fiamme gran parte della città. Riunite nell’Ippodromo, le due fazioni designano un nuovo imperatore: Ipazio, nipote del vecchio imperatore Anastasio I, ritenuto simpatizzante dei Verdi. Giustiniano, il cui coraggio non sembra essere all’altezza delle sue qualità intellettuali, comincia a pensare di fuggire per mare.

A questo punto interviene Teodora. Di fronte al Consiglio segreto dell’imperatore pronuncia il più lungo tra i suoi discorsi che ci sia stato tramandato per iscritto: lo possiamo leggere nelle Storie delle Guerre di Giustiniano, di Procopio.

Di fronte ai grandi dell’Impero l’augusta prende la parola e dice: «Ritengo privo di senso discutere ora per sapere se è opportuno che, quando gli uomini non sanno più da che parte girarsi, una donna prenda la parola o arrivi a proporre coraggiosi consigli. Chi è giunto al massimo male non ha altra scelta che rimediare con il miglior partito possibile. Io ritengo che in questo momento la fuga sia la scelta più sbagliata che noi possiamo fare, anche se con essa trovassimo la salvezza. Se è vero che nessun uomo che abbia veduto la luce del mondo può sottrarsi all’ora della morte, anche l’uomo che è stato imperatore non potrà tollerare di vivere in esilio. Quanto a me, mai vorrei spogliarmi di questa porpora, né vedere il giorno in cui qualcuno non mi chiamasse più Signora. Se tu, mio Cesare, vuoi salvarti la vita, ebbene: fallo. Ne hai ogni possibilità: abbiamo abbastanza denaro, e là c’è il mare, con le navi pronte ad accoglierti. Attento, però, perché questa salvezza per te potrebbe essere più fatale della morte stessa. Quanto a me, io rimango fedele all’antico adagio: il potere è uno splendido sudario».

Il discorso riesce miracolosamente a rovesciare la situazione. L’eunuco Narsete corrompe i capi degli Azzurri, e con il loro aiuto il generale Belisario, prestigioso comandante dell’esercito d’Oriente, riesce a respingere gli insorti nell’Ippodromo, dove vengono massacrati tutti. Il 19 gennaio viene giustiziato Ipazio. Il potere delle fazioni viene debellato e tale rimarrà fino alla fine del regno di Giustiniano.

Non possiamo fare a meno di collegare il discorso di Teodora alla scena che si era svolta vent’anni prima, quando, nell’anfiteatro del Kynegion, la madre della futura imperatrice aveva fatto pendere in proprio favore una situazione che pareva perduta…

Durante la primavera del 533 Teodora compie un viaggio in Bitinia che diverrà leggendario. Si sposta con un seguito che viene stimato a più di quattromila persone, con innumerevoli bagagli. Non un solo gioiello è stato lasciato indietro, non un abito pregiato, non una coppa impreziosita di diamanti. Sontuose lettighe sorreggono il corpo delicato della sovrana e veli ricamati la proteggono da ogni fastidio. Anche le prodigiose giraffe e gli splendidi elefanti viaggiano con lei: il suo viaggio è un’esposizione itinerante del palazzo fuori del palazzo.

Vuole incontrare i suoi sudditi, che si prosternano davanti a lei e ai quali promette strade migliori. Vicino alle terme fa innalzare nuove costruzioni e un acquedotto. Esorta la gente ad aver fiducia e speranza nel bene dell’Impero.

Giunge ai monasteri del monte Olimpo – oggi Ulu Dag, la montagna dei monaci5 – oltre Prusa, attuale Bursa, e discute di teologia con i monaci e gli eremiti. Ma questo non è l’unico elemento religioso in questo viaggio. Teodora vuole anche agire e operare in favore di ciò che ha di più intimo e di più caro: la causa del monofisismo, che è la prima carta a essere giocata nella sua grande partita di potere con Giustiniano.

Sotto la sua influenza, Giustiniano legifera con un’attenzione particolare per la Chiesa, di cui si ritiene capo supremo. Regola nei particolari lo stato, il reclutamento e la giurisdizione del clero e organizza l’amministrazione dei beni ecclesiastici. Legalizza il controllo dei vescovi sulle autorità locali, il che ha come positiva conseguenza quella di attenuare l’eccesso di centralizzazione.

A partire dall’estate del 547 si manifestano i primi sintomi del male che divora Teodora, senza dubbio un tumore. L’imperatrice dunque non ha la possibilità di invecchiare in quel mondo che è in apparente declino, ma che in realtà si sta trasformando, in parte anche sotto la sua influenza. In un concerto di lampi e tuoni, debitamente registrati dai cronisti del tempo, cui si aggiunge il cattivo presagio della rottura di una colonna, Teodora muore il 28 giugno del 548.

Rimane nella memoria come uno dei primi sovrani ad aver stabilito diritti per le donne, avendo promulgato decreti che proibivano severamente la prostituzione e modificavano la legislazione sul divorzio, al fine di aumentare la quota riservata alle donne. Trascorse anche gran parte del suo regno tentando di attenuare le leggi contro i monofisiti, riuscendo finalmente, nel 533, a porre fine alla loro persecuzione.

La morte dell’imperatrice fu un colpo terribile per Giustiniano. Fino alla sua morte, avvenuta nel 565, ben poche delle leggi che promulgherà avranno qualche particolare importanza, il che rivela quale sia stata l’influenza di Teodora nella vita politica bizantina.

1.  Procopio scrisse un’opera, quasi certamente verso il 550, ultima della sua produzione, che venne divulgata solo dopo la sua morte, con il titolo greco di Anedocta, o anche Storia segreta. Si tratta di un autentico pamphlet, la cui storicità però non sembra poter essere messa in discussione, almeno nel suo insieme. Per le citazioni seguenti abbiamo fatto riferimento a questo testo (N.d.A.).

2.  Nell’arena era stato creato uno scenario naturale che doveva dare l’illusione di un’autentica scena di caccia. Tra gli altri animali c’erano cervi, leoni e orsi (N.d.A.).

3.  Dottrina religiosa secondo la quale nel Cristo vi sarebbe una sola natura, quella divina, e non, come decretato dal concilio di Calcedonia nel 451, la doppia natura umana e divina (N.d.A.).

4.  Titolo creato da Costantino e attribuito a personaggi potenti ma che non appartenevano alla famiglia imperiale. Nella gerarchia stava subito dopo i titoli di augusto e di cesare (N.d.A.).

5.  Montagna a ovest dell’attuale Turchia (N.d.A.).