3. La privazione precede l’esistenza

1. Dio come totalità nel giudaismo antico
e nella testimonianza di Ya‘aqov ben Re’uven

In una serie di testi, più volte presi in esame dalla ricerca contemporanea, il tema di Dio inteso come totalità appare come un teologema ebraico dall’antichità al Medioevo.449 Si tratta di un motivo molto complesso che, nonostante la sua ampiezza, solo in parte illustra la varietà di concezioni teologiche ebraiche fiorite in tale arco di tempo. Dal punto di vista concettuale, la natura universale di Dio, che implica l’inclusione della totalità, considera la presenza del male nella divinità e per questo sarà spesso da me analizzata, ma solo per quanto attiene a testi medioevali e della prima età moderna (i testi pertinenti al tema redatti nell’antichità e nel periodo tardo-antico non prendono in esame la questione del male). È una visione che comporta una spersonalizzazione del concetto di deità, benché in alcuni casi essa ricorra associata a interpretazioni più personalistiche e antropomorfiche.

Data la presenza di alcuni dei motivi che prenderemo qui in esame, contemporanea ma a mio parere indipendente, sia nella Qabbalah delle origini sia nel hassidismo ashkenazita nel XII e XIII secolo, la mia congettura è che i primi cabbalisti ereditarono una tradizione ebraica molto più antica, condivisa anche dagli autori ashkenaziti. È un tema importante di per sé, che merita una discussione dettagliata sulle fonti della Qabbalah, da affrontare in una sede separata; per il momento ci limiteremo a trattare in maniera concisa la tradizione condivisa dalle due scuole.

Un’interpretazione teologica che potrebbe assumere un significato rilevante per quanto esporremo più avanti ci deriva, ancora una volta, da una fonte cristiana, anche se in questo caso possediamo una testimonianza conservataci da un’opera ebraica che non ha attirato l’attenzione dovuta da parte degli studiosi. L’autore di uno scritto polemico ebraico ampiamente diffuso, Ya‘aqov ben Re’uven, vissuto in Spagna e/o in Guascogna nel XII secolo (probabilmente fiorito verso il 1170), attribuisce a un certo Paolo la seguente descrizione della teologia ebraica, in cui si dichiara l’esistenza di una specifica concezione del male:

 

Dovresti sapere, invero, che gli ebrei credono effettivamente a Dio e credono che Egli sia il Dio che esiste e crea tutto, anteriore senza anteriorità, nella categoria dell’esistenza e del possibile. Così esistono in Lui due princìpi, il bene e il male, che sono l’esistente e il possibile. Dicono inoltre che, dato che Egli esiste e crea tutto, così come crea le cose buone, crea quelle cattive. Dice inoltre che, dato che non ha né inizio né fine, tutto ciò che ha inizio e fine è in Lui e in Lui esiste il male, così come il bene ... e, sempre secondo le loro450 parole, credono che all’interno di Dio ci siano due princìpi, il bene e il male, e che chi fa il male ha il male in sé.451

 

Il passo sarebbe la traduzione delle parole di un autore finora non identificato, chiamato Paolo, e farebbe parte di una polemica orale.452 Lo stesso Paolo è ricordato all’inizio dell’opera.453 Il polemista cristiano attribuisce agli ebrei due serie di concezioni che descrivono una duplice esistenza all’interno del divino, una basata sui princìpi di bene e male e l’altra sull’esistenza e la possibilità. La seconda coppia di opposti pare riflettere la ben nota idea avicenniana delle entità necessarie e contingenti.454 Tuttavia, a differenza del passo citato, gli stessi concetti nel sistema del filosofo islamico non sono riferiti alla sfera divina, dato che Dio è inteso come essere necessario e pertanto tutti gli altri mondi esistenti sarebbero contingenti. Invece qui all’interno del regno divino coesisterebbero sia la necessità ontologica sia la contingenza e tale concezione non riflette un’idea ortodossa avicenniana. Rilevante per quanto vedremo tra poco è la teoria della totalità di Dio, descritto come essere infinito che contiene sia il bene che il male. Questo nesso tra infinitezza, universalità e presenza del male in Dio mi pare riflettere abbastanza esplicitamente una concezione la cui datazione è significativa per comprendere in maniera nuova un aspetto specifico della storia della Qabbalah.

In un’altra versione ebraica della stessa affermazione di Paolo, un celebre convertito, Avner da Burgos, che prese il nome cristiano Alfonso de Valladolid (attivo nella Spagna d’inizio Trecento), per presentare la posizione cristiana ricorre ancora una volta ai termini ebraici ha-yesh e ha-efshar, gli stessi attestati dall’opera di Ya‘aqov ben Re’uven.455 Lo scritto di quest’ultimo doveva dunque circolare in alcune cerchie castigliane del primo Trecento. Come ha dimostrato Farber, categorie avicenniane furono alla base di idee cabbalistiche del male, inteso come parte a tutti gli effetti dell’esistenza, fin dalla manifestazione della prima creatura, che include tutto quanto è stato creato.456 D’altra parte, le categorie di bene e male intese come princìpi – l’autore usa il termine ebraico ‘iqqarim – del mondo divino, sembrano riflettere una speculazione molto diversa da quella di Avicenna, assente nel neoplatonismo, fatta eccezione per le sue varianti neopitagoriche. Sia come origine del bene e del male, sia come entità illimitata che abbraccia l’universo, agli ebrei si attribuisce una visione di Dio che comprende due princìpi opposti e che implica un’esistenza primordiale del male.

Il passo è citato da Ya‘aqov ben Re’uven a nome di un cristiano che lo attribuisce agli ebrei, ma solo per confutarne il contenuto. Ricorrendo a un’argomentazione filosofica, l’autore si oppone alla correttezza teologica delle teorie discusse.457 Ci si può chiedere, come nel caso del passo di Agobardo, se tali testimonianze riflettano veramente concezioni adottate da autori ebrei. È difficile accertare l’accuratezza di tali attribuzioni ma, nella scia di alcuni studi moderni,458 parrebbe più sensato ammettere la circolazione in ambienti ebraici di idee che non trovavano consenso – a maggior ragione in questo caso, come vedremo tra breve, dato che dal XIII secolo simili concezioni si trovano espresse in vari scritti ebraici. Potremmo pensare che, essendo forse guascone, Ya‘aqov conoscesse un cristiano della zona che conservava concezioni ebraiche più antiche che continuavano la tradizione testimoniata a Lione da Agobardo, anche se è un’ipotesi che non può essere confortata sulla base delle fonti in mio possesso. Ciò nonostante, il fatto che Ya‘aqov ben Re’uven, che scrisse prima degli esordi della letteratura cabbalistica, sia vissuto in un’area prossima ai centri dove tale produzione mosse i primi passi, difficilmente può essere considerato casuale. Certamente questo conforta la nostra congettura secondo cui le teorie sul male nella sfera divina non sono di origine gnostica, né state inventate dai primi cabbalisti.

Si dovrebbe osservare che i tre testi principali citati – Agobardo, i trattati pseudoclementini e la testimonianza di Ben Re’uven – riportano concezioni ebraiche relative ad affermazioni cristiane su idee ebraiche conservate da scritti non ebraici. Dato che i tre testi sono del tutto indipendenti, non c’è motivo di ritenere che si tratti di un’unica tradizione mantenutasi nei secoli. Si dovrà piuttosto supporre che i tre passi riflettano varianti di credenze, abbracciate da ebrei diversi in paesi diversi nel corso di vari secoli, sul rapporto tra Dio e il male. Mentre le tre testimonianze qui menzionate sono state neglette dagli studiosi di mistica ebraica, i testi di cui mi occuperò in seguito sono stati pubblicati a stampa e commentati più volte, anche se in tali studi il problema del male non è stato trattato in maniera esaustiva.

Prima di affrontare l’analisi dei materiali cabbalistici, vorrei osservare che teorie del male, diverse da quelle neoplatoniche per l’interpretazione della privazione, appaiono in fonti speculative indipendenti dal giudaismo ma probabilmente accessibili agli ebrei. Nell’Andalusia del X secolo, il famoso pensatore neoplatonico Ibn Masarra descrive qualcosa di più elevato dell’intelletto, che lo governa, e scrive:

 

Dunque al di sopra di esso si trova un reggente che gli ha fissato misura, limite e confine, che gli ha concesso il bene e il male, nozioni passeggere e idee fugaci, da cui non deriva la conoscenza. Ne consegue di necessità che al di sopra di esso esiste qualcuno che lo governa e governa anche tutto ciò che si trova al di sotto di esso, perché tutto ciò che sta sotto è sotto il suo controllo.459

 

Il bene e il male sono come assegnati dall’alto all’intelletto, derivano dal reggente che è Dio460 e non sono una forma di privazione o negazione. Ciò significa che, in maniera che ricorda la testimonianza di Ben Re’uven, anche un’altra formulazione dimostra che una mentalità filosofica non impedisce necessariamente la manifestazione di una teoria esplicita del male che discende dal livello di realtà più elevato.

2. La Qabbalah provenzale-catalana

In genere, più che elementi del sistema speculativo aristotelico furono dottrine platoniche e neoplatoniche le fonti principali d’ispirazione di alcuni temi elaborati dai cabbalisti teosofi-teurgi più antichi.461 Tuttavia, per il tema che ci interessa, i cabbalisti teosofi-teurgi adottarono tre concezioni specificamente aristoteliche, anche se attribuirono ai termini che le esprimevano un significato molto diverso da quello proposto dallo Stagirita. Si tratta di un tipo particolare di adattamento che trascende le varie forme di interpretazione neoaristoteliche. Secondo la fisica aristotelica, la materia, la forma e la privazione (steresi) sono astrazioni filosofiche che permettono un’analisi migliore dei processi fisici del mondo sublunare.462

La steresi indica il non essere, la privazione, e si riferisce soprattutto all’intero regno delle forme potenziali che possono essere accolte da un determinato substrato. In alcuni testi che adottarono tali concetti aristotelici è evidente anche il tema del passaggio dalla potenza all’atto.

Nelle tradizioni aristoteliche e neoaristoteliche, materia, forma e privazione non si riferiscono a entità distinte, non acquisiscono uno status di ipostasi divine, come accadde nella teosofia cabbalistica, dove subirono un deciso slittamento concettuale.463 Al contrario, l’interpretazione manichea attribuiva almeno alla hyle un ruolo decisamente ipostatico, mitico, parallelo a quello svolto da Ahriman nelle forme di dualismo zoroastriane.464 Il manicheismo persiano ricorreva esplicitamente al nome Ahriman in tale contesto.465 Anche in Plotino è evidente l’identificazione della materia con il male,466 così come in alcune fonti medioevali,467 benché sia ben lungi dall’essere un principio o una potenza primordiale, come nel manicheismo. La concezione manichea, così come quella plotiniana, prevede automaticamente una sorta di polarità durevole, a differenza di quella effimera, caratteristica di alcune delle discussioni precedentemente trattate sulla base del midrash Genesi rabbah e di alcuni passi dello Zohar. Diversa è la situazione nel neoplatonismo ebraico, soprattutto nel pensiero di Yitzḥaq Yiśra’eli e di Shelomoh ibn Gabirol (Avicebron). Secondo quest’ultimo, una forma superna o universale e la hyle universale in un primo tempo esistevano separatamente per essere poi unificate dalla volontà divina.468

Il concetto di hyle è strettamente connesso nella fisica aristotelica con la steresi o privazione. Nell’ebraico medioevale l’idea di privazione è stata resa con vari termini, he‘eder – il più comune –, efes469 o afisah470 e, più raramente, Ayin471 – la cui resa letterale dovrebbe essere «Nulla». Il vocabolo efes è stato usato in un passo interessante di Avraham bar Ḥiyya, che descrive la creazione del mondo come unione di forma e materia, dopo l’eliminazione della steresi, il tutto nel contesto del pensiero divino puro.472 A differenza dell’interpretazione teosofica dei primi cabbalisti che si servirono di questi termini per riferirsi a processi intradivini, come vedremo nelle prossime pagine, Bar Ḥiyya discute la creazione del mondo extradivino, il che ne muta radicalmente le connotazioni, come hanno correttamente osservato Scholem, Tishby, Vajda, Gottlieb, Séd-Rajna e Dauber.

Le forme diverse di Qabbalah fiorite nel secondo terzo del Duecento nel centro catalano di Gerona hanno suscitato l’attenzione puntuale degli studiosi moderni.473 L’idea basilare della maggior parte di loro era che tutti i cabbalisti attivi nella città catalana appartenessero alla stessa scuola.474 Successivamente i loro scritti sono stati analizzati e confrontati, sempre sulla base della teoria che seguissero tutti lo stesso sistema teosofico. A mio parere, invece, si dovrebbero distinguere due scuole principali, quella di Avraham ben David da Posquières, di suo figlio Yitzḥaq il Cieco e dei suoi discepoli e quella di Mosheh ben Naḥman (Nahmanide) e dei suoi seguaci.475 In questa sede parleremo solo della prima corrente, dato che la seconda tratta il male primordiale nel contesto della teoria della contrazione di Dio, che affronteremo nel capitolo seguente.476 Gli studiosi hanno già preso in esame le questioni relative alla natura e origine del male nella Qabbalah delle origini, in particolare nel Sefer ha-Bahir477 e nella Qabbalah provenzale478 e catalana.479 Eppure alcuni aspetti di questo problema, almeno per l’area iberica, necessitano ancora un’analisi specifica. Vorrei sottolineare che l’adozione dei concetti aristotelici fu facilitata dall’idea della creazione ex nihilo, diffusa in molte cerchie ebraiche; il termine nihil – in ebraico ayin, parte dell’espressione yesh me-ayin – era inteso in riferimento alla steresi aristotelica, ma per i cabbalisti, che trapiantarono il processo all’interno del mondo divino, si trattava di una fase dell’autogenesi di Dio. Così, sebbene aderissero alla formula tradizionale, i cabbalisti ne mutarono totalmente il significato.

Vorrei iniziare dalla questione dei generi letterari. Molti brani riportati in questo paragrafo sono tratti da due tipi di testi, strettamente connessi tra loro: i commenti alle aggadot (leggende) talmudiche (uno di ‘Ezra da Gerona e l’altro, ispirato dal primo, di ‘Azri’el da Gerona) e i commenti alla narrazione della Genesi (o all’opera della Creazione).480 In tali opere troviamo spiegazioni di versetti biblici e di leggende rabbiniche che trattano quelle che ho definito asimmetrie subordinate, con particolare riferimento al male. I due commenti di ‘Ezra e ‘Azri’el non sono i primi scritti composti all’interno di questa scuola. Secondo alcune testimonianze, già Avraham ben David aveva commentato le leggende rabbiniche e forse anche suo suocero, Avraham ben Yitzḥaq. Asher ben David, nipote di Avraham ben David, aveva citato a nome del nonno passi che trattano temi delle leggende rabbiniche481 e, in alcuni manoscritti, si trova un’interpretazione del concetto rabbinico di du-partzufin.482 Secondo Shem Ṭov ibn Ga’on, che scrisse nel 1325, Ben David nel suo commento al Talmud avrebbe fatto riferimento ai vocaboli dotati di significato esoterico.483 Un contemporaneo del primo, Yitzḥaq da Acco, cita un altro breve passo a nome di questo maestro, confortato da un’affermazione attestata nel Commento alle aggadot talmudiche di ‘Ezra.484 Il problema è se gli argomenti di cui ci occuperemo qui, presenti nei commenti geronesi, seguissero le orme del maestro di Posquières, contemporaneo del summenzionato Ya‘aqov ben Re’uven.

C’erano altri due generi letterari ben rappresentati a Gerona che si ponevano nella scia evidente di Yitzḥaq il Cieco: commenti al Sefer Yetzirah e commenti alla narrazione della Genesi.485 Entrambi vennero usati, quando addirittura non se ne abusò, per dipingere uno scenario digradante di potenze divine, che inizialmente esistevano all’interno di una tenebra e un caos universali che progressivamente si distinguevano e si separavano, dando luogo a una struttura specifica. La struttura sefirotica si immaginava in una forma antropomorfica ma spirituale, una sorta di anatomia di Dio, che funzionava fisiologicamente come una coppia di potenze, una maschile e l’altra femminile, che producono frutti, cioè il mondo e principalmente le anime umane.486 Da questo punto di vista, la teosofia cabbalistica riflette l’assiologia biblica e rabbinica, che concepiva la procreazione come un ideale importantissimo487 e considerava uno sviluppo positivo la transizione da uno stato precedente caotico a uno differenziato, cioè questo mondo, culminante alla fine della cosmogonia con l’imperativo di procreare.488 Una possibile interpretazione del racconto della creazione in Gn, 1 è che si tratti di una serie di eventi che hanno avvio con l’introduzione dell’ordine nella creazione e che culminano nella procreazione. In certo qual modo, la scorza del mondo superiore precede il frutto nell’espansione del mondo sefirotico al livello inferiore. Benché Yitzḥaq Sagi Nahor, ‘Ezra e ‘Azri’el non si siano mai serviti dell’aforisma della scorza che precede il frutto, pare che comunque essi (soprattutto l’ultimo dei tre) lo concepissero come un principio, elemento che dovrebbe essere tenuto in seria considerazione ogni volta che si voglia rappresentare il loro pensiero. I processi di differenziazione includono alcune forme di scarto, di rifiuto, causato dagli elementi oscuri dei livelli superiori della creazione, evocati dai termini Tohu, Bohu, tenebre e tehom nel secondo versetto della Genesi, ove il male è talora identificato con questi elementi. La logica dei sistemi di cui parleremo oltre è che quanto si trova nei livelli più elevati non è necessariamente migliore e la differenziazione è una modalità superiore di esistenza, dato che attualizza potenziali occulti rispetto a forme indistinte di esistenza. Quest’atteggiamento segue anche il rilievo attribuito dalla Bibbia agli atti divini di separazione formativa e decisiva nel primo capitolo della Genesi. Tale spiegazione dell’impulso dato dall’interpretazione cabbalistica iniziale al sistema emanativo contrasta sia con l’atteggiamento gnostico sia con quello neoplatonico, due delle tendenze principali ritenute dagli studiosi basi concettuali della Qabbalah delle origini.489 Inizierò dalla trattazione del pensiero di due discepoli di Yitzḥaq il Cieco, ‘Ezra e ‘Azri’el, dato che le loro opere sono più ampie e meno dense ed enigmatiche, per poi rivolgermi alle fonti del loro pensiero.

‘Ezra da Gerona,490 una delle figure principali della fase più tarda della Qabbalah geronese, a proposito delle hawayyot, termine di difficile resa che si riferisce a entità o esistenze che si trovano all’interno delle sefirot più elevate,491 afferma:

 

... [le hawayyot] erano [già esistenti] ma il [processo dell’]emanazione è un’innovazione e non c’era altro che la rivelazione delle cose, come è scritto [Gb, 12, 22] «Ha rivelato profondità dalle tenebre» [e questo è] afisah, che è l’Ayin [ibid.] «e trasforma in luce l’ombra di morte». [Gn, 1, 3] «E Dio disse: Sia luce», e disse che era Lui a rivelare le cose profonde e quelle occulte. [Dn, 2, 22] «Sa quel che è celato nelle tenebre e presso di Lui è la luce». Ha fatto uscire la luce dalle tenebre: «le cose profonde» – sono la Merkavah, e «quelle occulte» sono l’opera della Creazione.492 «Sa quel che è celato nelle tenebre» – Ha estratto le esistenze [hawayyot] che si trovavano nelle tenebre «e presso di Lui è la luce» – Ha fatto uscire la luce dalle tenebre.493

 

La formula iniziale ha-hawayyot hayu we-ha-atzilut meḥuddash, che abbiamo reso «le hawayyot erano [già esistenti] ma l’emanazione è un’innovazione», è cruciale per le discussioni cabbalistiche geronesi relative all’inizio del processo emanativo e ricorre soprattutto in questa corrente mistica.494 Ci sono due modi di leggere quest’affermazione: benché le hawayyot siano entità preesistenti, il processo della loro emanazione è comunque posteriore: in questo caso la congiunzione we- significa «e»; intendendo, invece, la congiunzione in senso avversativo – «ma» –, le hawayyot sarebbero primordiali ma l’emanazione di altre entità, non solo delle hawayyot, sarebbe successiva.

Questa seconda lettura, che si è scelta nella nostra resa, pare affermare una distinzione tra sefirot e hawayyot,495 dato che le ultime sono rappresentate come se si trovassero tra la seconda e la terza sefirah, come vedremo più avanti. Poiché nella corrente geronese le sefirot sono ritenute vasi o strumenti delle azioni divine, possiamo pensare che le hawayyot rappresentino una sorta di contenuto che riempirà questi recipienti. In effetti, come vedremo, le hawayyot sono descritte come acqua e fiumi, cioè effluvi racchiusi in vasi, e la presenza di condutture – tzinorot – che collegano le sefirot e veicolano l’emanazione si rileva già nei testi di questa scuola.496 La transizione delle hawayyot dall’una all’altra modalità di esistenza sefirotica, cioè la loro espansione da una sefirah all’altra, equivale alla rivelazione di qualcosa di occulto nelle tenebre e all’ingresso di qualcosa d’infinito all’interno di un contenitore finito.497 In effetti, si possono distinguere in questa scuola due azioni divine: una è l’emanazione delle sefirot o atzilut (dalla radice ’TZL), termine che riflette sia il processo di espansione sia il risultato di tale processo, il sistema sefirotico); l’altra è l’espansione o hitpashsheṭuṭ (dalla radice PShṬ), termine che in genere è riferito esclusivamente alle hawayyot.498 L’espansione di alcune potenze intradivine, talora chiamate hawayyot, ha luogo, secondo la nostra distinzione, all’interno delle sefirot, intese come vasi limitati, creati precedentemente attraverso il processo emanativo. I dettagli di questo duplice processo, cioè l’emanazione delle sefirot e l’espansione delle hawayyot, necessitano ulteriori analisi che non possono essere affrontate in questa sede. Si dovrebbe tuttavia ricordare che nella scuola geronese viene operata l’esplicita distinzione tra l’espansione di esistenza/esistenze, in ebraico hitpashsheṭuṭ ha-hawayyah o hawayyot, e l’espansione della forma, hitpashsheṭuṭ ha-tzurah.499 Le due espansioni sono associate, dato che in un caso ‘Ezra parla di «espansione dell’anima nella forma», a mio parere in riferimento all’espansione delle hawayyot all’interno delle sefirot intese come forma.500 Anche quest’interesse per una duplice emanazione distingue i cabbalisti di Gerona dalla scuola del Nahmanide.

È particolarmente interessante che il primo atto relativo alla creazione delle molteplici hawayyot – probabilmente preesistenti alla loro esistenza distinta – possa essere interpretato sulla base della parallela concezione di Ya‘aqov ben Shesheṭ, che sostiene la creazione di una prima emanazione che include ogni cosa, analoga alla «prima creatura» di Yitzḥaq ibn Laṭif.501 Comunque, questa «primordialità» non comporta una loro esistenza indipendente rispetto a Dio, come parrebbe dal primo capitolo della Genesi, ma all’interno del Dio infinito. Ritengo che la modalità di esistenza delle hawayyot implichi anche un rapporto con l’origine del male, come tenterò di spiegare più avanti.

Già in una precedente analisi dettagliata del passo, ho osservato che in esso si coglie un’interpretazione teosofica di alcuni motivi neoplatonici del pensiero di Avraham bar Ḥiyya.502 La dimensione teosofica vi è rappresentata dal termine ha-Ayin, il Nulla, riferito senza dubbio alla prima sefirah.503 In base a quest’identificazione si comprendono anche le altre due fasi successive: le «profondità» delle tenebre indicano l’opera del Carro di Dio, la Merkavah, che corrisponde alla seconda sefirah – Ḥokhmah – una potenza che poche righe prima era stata descritta «all’interno dell’Ayin»,504 mentre «le cose occulte» indicano l’opera della Creazione, che corrisponde alla terza sefirah, Binah. Significa che all’interno delle tenebre primordiali c’erano esistenze o entità coesistenti in forma compatta (il che potrebbe alludere all’interpretazione del cabbalista del significato della Merkavah in riferimento alla complessità), portate in luce a un dato momento.

Dal passo non traspare la valenza teosofica del processo ma essa può essere estrapolata da un brano parallelo del Commento al Cantico dei Cantici di ‘Ezra, in cui il cabbalista parla in termini analoghi delle «hawayyot, profonde e occulte all’interno di Ḥokhmah»505 e descrive subito dopo il processo emanativo che segue alla struttura sefirotica.506 Nel suo Commento alle leggende talmudiche ‘Ezra descrive il significato di Tohu nel modo seguente: «Tutte le hawayyot che si trovavano all’interno di Ḥokhmah507 ... Si tratta dell’insieme di hawayyot illimitate, informi e prive di materialità [golem]».508 Altrove Tohu e Bohu sono intesi come «impressioni delle hawayyot».509 La natura illimitata e informe delle entità o esistenti costituisce un punto di partenza per il processo successivo di limitazione e ricezione delle forme, che dà luogo al manifestarsi di entità distinte che governano le entità di questo mondo. La natura indistinta, informe e illimitata delle entità superne ricorda la concezione del disordine, associato al male e alla materia, nella tradizione platonica.510

Secondo un’affermazione piuttosto esplicita di ‘Ezra, le hawayyot non sono necessariamente identiche alle sefirot e sono più di dieci, quindi sono più simili a idee intradivine, all’interno del pensiero di Dio.511 Comunque, la presenza di hawayyot nelle tenebre non è solo profonda e occulta; secondo ‘Ezra, esse esistevano in maniera disordinata e l’atto della rivelazione costituisce anche il momento del loro ordinamento.512 Così, tenebre e disordine precedevano la creazione, cioè l’emanazione delle entità all’interno della sefirah Ḥokhmah verso Binah, e invero, subito dopo il passo citato, si parla delle sefirot inferiori all’interno della descrizione estesa dell’intero sistema sefirotico.513

Si dovrebbe ricordare che lo stesso ‘Ezra parla di un’entità definita «tenebre [universali] che circondano la luce»: ha-ḥoshekh maqqif ha-‘or.514 Sembra però che nel passo non siano menzionati solo tenebre, densità515 e caos516 ma si faccia riferimento anche a qualcosa di più negativo, rappresentato dal termine tzalmavet, «l’ombra di morte», sulla base del versetto biblico che allude a quanto si trova nelle tenebre, ancor più simile al male delle tenebre stesse. Di particolare interesse per l’evoluzione delle discussioni cabbalistiche sul male è la ricorrenza in questo contesto del termine pesolet, «scorie/scarti», nella descrizione della creazione di cielo, terra e mondo, originate da alcune parti del Tohu, cioè una specie di materia inferiore, mentre l’uomo sarebbe stato creato da una materia più raffinata che avrebbe la stessa origine.517 Al fine dei processi emanativi la seconda sefirah, Ḥokhmah, svolge un ruolo cruciale, come si rileva dalle numerose trattazioni che la riguardano nella Qabbalah geronese, riprese nelle opere di Mosheh de León.

Secondo Bar Ḥiyya, inoltre, ‘Ezra menziona il pensiero divino nel contesto di tali processi.518 Stando alla concezione emanativa di ‘Ezra, tutto è stato creato insieme all’inizio e poi il processo di emanazione ha svolto l’azione di separare e distinguere. A mio parere, la separazione è un processo che si svolge tra tenebre e luce, da un lato, e le stesse hawayyot, dall’altro. La prima distinzione si trova nel Commento al Cantico dei Cantici:

 

«Ha posto fine alle tenebre» [Gb, 25, 3]. È noto che «le tenebre» sono afisah ed è impossibile definirle come yetzirah mentre [sono] beriy’ah519 e la stessa beriy’ah significa che Egli ha eliminato la contaminazione delle tenebre infinite e illimitate,520 un altro principio [kelal] e un’altra emanazione521 ... cioè ha dato un limite alle tenebre... e a ogni singola middah e hawayyah in potere di quella afisah ha dato la [possibilità di] ricerca, cioè, dopo che l’ha fatta passare dalla potenza all’atto, ha operato attraverso tale azione e ha fatto middot e vasi, che possono essere ricercati e avere un limite ... la luce è nel potere delle tenebre; usando il termine yetzirah [si veda Is, 45, 7] «forma la luce e crea le tenebre» e questo è il significato di [Gb, 12, 22] «Strappa le profondità dalle tenebre e porta alla luce l’ombra di morte».522

 

L’espressione «un altro principio e un’altra emanazione» – se è corretta questa versione – potrebbe dimostrare che, secondo ‘Ezra, all’interno della prima manifestazione – le tenebre, che alludono alla prima sefirah523 si è avuta una specie di biforcazione o, in alternativa, se si accetta la versione «un solo principio e una sola emanazione», è stato posto un limite alle tenebre, grazie a un’entità luminosa. L’autore usa il termine kelal per indicare l’emanazione di un’idea (cui si riferisce con il vocabolo tziyyur) nel pensiero divino.524 La luce è descritta come un’evoluzione successiva, formata dopo la creazione delle tenebre per mezzo di un atto di limitazione.525 Dalla formulazione usata da ‘Ezra, «un’altra emanazione», che riguarda la formazione della luce, possiamo apprendere l’esistenza di un’altra precedente emanazione di tenebre, cui forse si riferisce l’affermazione che l’atto descritto come beriy’ah è superiore al pensiero puro, cioè si trova più in alto della sefirah Ḥokhmah.526 La creazione è dunque una specie di purificazione. Solo allora si fa menzione di esistenze divine distinte.527 Mi preme osservare che le hawayyot sono definite ruscelli, chiamati anche acque.528 Il passaggio dall’acqua ai fiumi indica la limitazione che ha luogo dopo l’esistenza compatta delle hawayyot e può avere a che fare con il precedente riferimento alla creazione di vasi. La dinamica del fluido contenuto nei vasi, che a mio parere sono le hawayyot, dipende, secondo ‘Ezra, dalle azioni dell’uomo:

 

... dall’influsso della luce di Ḥokhmah deriva l’effluvio e la Torah e i comandamenti [hanno il fine di] benedire, santificare, unificare e dischiudere loro il bene e captare in basso per loro529 la fonte di vita ... perché da lì tutto ha sostentamento e da lì proviene la vita.530

 

Questa è una delle prime e meglio articolate formulazioni nella scuola di Gerona di ciò che propongo di definire teurgia cabbalistica, basata su un duplice tipo di teosofia: quella delle potenze sefirotiche intese come vasi e quella dell’influsso che scorre al loro interno.531 La captazione delle acque in basso potrebbe fungere da completamento della summenzionata espansione di esistenza.

Non sono stato in grado, però, almeno finora, di reperire negli scritti di ‘Ezra alcuna menzione specifica del male associata alla sfera più elevata, con l’eccezione del ricorso a termini che sono a tutti gli effetti negativi, come tenebre, ombra di morte e scorie, che appaiono nello stesso contesto delle hawayyot. Si dovrebbe osservare che in alcune versioni geronesi del Commento all’opera della Creazione, il mito della distruzione dei mondi primordiali in Genesi rabbah è associato a processi dipendenti da Ḥokhmah.532 Il motivo sembra uno sviluppo dell’idea che Dio abbia creato il mondo per mezzo della sua Sapienza, già presente nella traduzione aramaica della Genesi nota come Targum Yerushalmi,533 anche se ora tale sapienza non è un mero strumento della creazione, ma contiene o circonda gli attributi divini inferiori, così come il mondo creato.

3. ‘Azri’el da Gerona

La concentrazione di discussioni cabbalistiche sul Tohu e Bohu nel contesto della teoria dell’anteriorità del male non caratterizza solo l’opera di ‘Ezra e – probabilmente – il pensiero di Yitzḥaq il Cieco. Esse ricorrono anche in un cabbalista più giovane, forse fratello di ‘Ezra, ‘Azri’el da Gerona,534 che tratta il tema in forma più elaborata e, in un caso importante, commenta discussioni seminali derivate da un opera che fece la sua prima comparsa nella storia della Qabbalah a Gerona, il Sefer ha-Bahir. È un testo che fornì ai cabbalisti geronesi, ma probabilmente non ai provenzali del XII secolo, alcuni temi mitici importanti, soprattutto il concetto delle sefirot come strumenti o vasi delle azioni divine.535 Ecco come ‘Azri’el elabora i passi pertinenti al motivo che qui ci interessa sulla base di quest’opera fondamentale:

 

[a] Nel Sefer ha-Bahir536 [si legge:] che cos’è il Tohu? Qualcosa che confonde la gente e diventa Bohu. Che cos’è Bohu? Era [già nel] Tohu. E che cos’è Bohu? Qualcosa di concreto, come è scritto «si trova al suo interno [bo hu]». E perché inizia con [la lettera] «b»? È come se fosse l’iniziale di berakhah. [b] E ciò che è [scritto in Qo, 7, 14]: «anche questo ha fatto Elohim rispetto a questo», ha creato Bohu e ha messo in pace il suo luogo, ha creato Tohu e ha messo il suo posto nel male.537 Bohu in pace, come è scritto [Gb, 25, 2]: «crea la pace nelle sue altezze».538 Significa che Michele è l’angelo della mano destra del Santo, benedetto sia, acqua e grandine, e Gabriele è l’angelo della Sua sinistra, fuoco, ed Egli mette539 la pace tra loro, la predispone nel pensiero, cioè Egli crea la pace tra loro. Da che cosa apprendiamo che cos’è Bohu? Da quanto è scritto: «crea la pace e crea il male». Come? Il male [deriva] da Tohu e la pace da Bohu. Egli crea Tohu e lo colloca nel male. [c] E Tohu è l’essenza delle hawayyot ed è aria KḤ540 ed è verde, come una linea, un segno di delimitazione, un luogo in cui non si discerne alcuna hawayyah ed è sottile [daq], imperfetto e confuso, come una cosa consunta o offuscata, la cui impressione non è visibile e di cui non si comprende la concretezza, non ha odore né profumo ed [è] elementare, una miscela di freddo e caldo. [d] E attraverso l’espansione541 della semplicità542 dello spirito nell’acqua la attinge e la attira a sé con tutti i mezzi in suo possesso per attingerla, in accordo con l’essenza della volontà, da cui deriva la sua esistenza. E ogni cosa immersa543 e nascosta all’interno della profondità della volontà di pensiero emerge, si rivela e si rende evidente nelle opere.544

 

Pur citando esplicitamente il Sefer ha-Bahir, ‘Azri’el non indica la fine precisa del passo riportato. In effetti non si tratta di una semplice citazione. Le frasi della sezione [a] derivano da due paragrafi del Sefer ha-Bahir, il n. 2 e l’inizio del n. 3.545 La sezione [b] è costituita dal paragrafo 9 e parte del 10.546 [c] e [d] sono l’interpretazione di ‘Azri’el del contenuto delle sezioni precedenti. Non intendo discutere qui di quale versione del Sefer ha-Bahir disponesse il cabbalista geronese.547 Ci si dovrebbe chiedere però se ‘Azri’el abbia omesso i paragrafi 4-8, dal momento che mi pare che il 9 si adatti alla discussione del 2; è plausibile che l’autore possedesse una versione del Bahir diversa da quella che testimoniano oggi manoscritti e edizioni a stampa, forse una redazione molto antica. Analizzando il testo di ‘Azri’el si osserva un esempio evidente di asimmetria subordinata: esistono due luoghi, del bene e del male. Nel primo Dio ha posto il Bohu, nel secondo il Tohu. Così i due vocaboli biblici sarebbero cronologicamente posteriori ai due luoghi. È difficile comprendere che cosa siano tali luoghi; possiamo ritenere però che essi riflettano l’adozione del concetto di profondità del bene e del male attestato nel Sefer Yetzirah. A queste due coppie l’anonimo cabbalista aggiunge le due mani divine e i due angeli. Per quanto sia facile comprendere la relazione tra le mani e gli angeli, è difficile stabilire esattamente quanto i due elementi siano associati ai luoghi. È la mano a porre il Tohu nel luogo negativo? È la mano sinistra?548 In un altro paragrafo dell’opera leggiamo:

 

Che cos’è questa middah? È la forma di una mano, che ha molti emissari e tutti i loro nomi sono male, alcuni piccoli e altri grandi, che causano i peccati nel mondo, dato che il Tohu è dalla parte settentrionale e non è altro che male, che confonde il mondo in modo da indurre al peccato e l’inclinazione malvagia nell’uomo viene da lì. E perché è a sinistra?549

 

Quel che appare rilevante è che il Bohu deriva dal Tohu550 e molto probabilmente dunque il bene deriva dal male, poiché vi si trova incluso – secondo l’etimologia di Bohu – e presumibilmente ha origine da esso. Questa manifestazione del bene potrebbe consistere in una trasformazione del Tohu. In ogni caso, il fatto che sia Tohu menzionato per primo nella Bibbia conforta l’idea dell’anteriorità del male. D’altro canto, in un altro paragrafo del Sefer ha-Bahir, il Tohu è descritto del tutto diversamente: «da esso [deriva] il male».551 Nonostante le concezioni opposte relative al rapporto tra Tohu e male, riconosciute dagli studiosi anche in altri casi in quest’opera e che non intendo certo riconciliare, l’affinità tra Tohu e male appare esplicita nel testo posseduto da ‘Azri’el.552

Quel che ci interessa nello specifico è l’interpretazione che egli offre nei paragrafi [c] e [d]. In [c] il solo termine Tohu è inteso come origine delle hawayyot, definite indistinguibili. In base alla presenza delle hawayyot all’interno della sefirah Ḥokhmah, secondo ‘Ezra e Yitzḥaq il Cieco, Tohu dovrebbe essere identificato con tale sefirah e questa sefirah con il male. Benché la connessione tra hawayyot e male sia in qualche modo indiretta, sembra comunque confarsi al pensiero di ‘Azri’el.

In effetti, un’interpretazione dei processi emanativi descritti da quest’ultimo, fortemente influenzato da ‘Ezra, include elementi che confortano la tesi dell’esistenza del male nelle zone più elevate del mondo divino.553 Nel suo Commento alle leggende talmudiche, ‘Azri’el si richiama al midrash dei mondi distrutti in un modo alquanto complesso, giustapponendo varie altre affermazioni midrashiche,554 cui associa l’idea, anch’essa midrashica, che Dio tentò dapprima di creare il mondo per mezzo dell’attributo del giudizio e pertanto quei mondi non sarebbero durati.555 Inoltre, egli afferma che le 974 generazioni556 – delle mille trascorse prima della rivelazione della Torah e prima della creazione del mondo – furono i cosiddetti «anni del Tohu», e dunque dei malvagi che non volevano studiare la Torah e osservare il volere di Dio:557 per questo il mondo non poté mantenersi in essere. Solo quando Dio fece ricorso all’azione simultanea dei due attributi del giudizio e della misericordia, il mondo fu destinato a durare. Qui il concetto di giudizio, come una qualche specie di male, non è stato associato solo al mito dei mondi distrutti ma anche a quello della Torah come ragione principale della sussistenza della creazione. In questo contesto si menziona il concetto di emanazione, senza però spiegarne il ruolo.

A mio parere il processo emanativo che estrae gli esistenti dalle tenebre – descritte in un passo sulla base di una fonte ignota «tenebre che circondano la luce»558 – e dal caos e consente la ricezione di forme distinte (forse corporee), come si è visto, costituisce un passaggio dalla potenza all’atto. In tale contesto, ‘Azri’el riferisce il verbo «creare» agli atti della distinzione o della determinazione.559 Quest’assiologia, che vede nelle entità distinte una forma di esistenza più elevata, si basa sul vettore alto-basso che considera in termini positivi la struttura delle dieci sefirot e anche gli universi iposefirotici, a confronto con l’oscurità indistinta dei regni superni, sostanzialmente sovrasefirotici.

Ancor più importante è l’affermazione attestata nel Commento alle preghiere quotidiane di ‘Azri’el, in cui l’autore commenta l’espressione biblica «crea l’oscurità» come se si riferisse a ha-or hamit‘allem, che propongo di tradurre «la luce che si occulta», della quale scrive: «[anch’]essa si è oscurata per illuminare e si chiama oscurità».560 Come vedremo nel prossimo capitolo, quest’affermazione è stata attribuita da Shem Ṭov ben Shem Ṭov, un pensatore del primo Quattrocento, ad alcuni «santi cabbalisti» (tra i quali forse Avraham ben David), che l’avrebbero usata in connessione al male. Suo figlio Yitzḥaq e, nella sua scia, anche il discepolo di quest’ultimo ‘Azri’el, definiscono varie volte il regno più alto del mondo sefirotico «occulto», ne‘elam, in un caso in connessione con il versetto di Qo, 12, 14: «Perché Dio citerà in giudizio ogni azione, ogni cosa occulta, che sia bene o male».561 A mio parere, ‘Azri’el legge il biblico ne‘elam come termine tecnico riferito a Keter o En Sof e a suo parere lì si trova sia bene sia male.

Più avanti nel commento ‘Azri’el descrive le entità menzionate in Gn, 1, 2Tohu, Bohu e tenebre – come se si trovassero all’interno di un luogo chiamato tehom, «infinito», che si estende verso un altro luogo chiamato efes.562 Tohu va-Vohu sono descritti come acqua che copre il cielo e la terra, che apparvero non appena le acque furono rimosse.563 In questo contesto il cabbalista fa anche menzione della creazione stabilita sui rifiuti, ashpah, che appare in un altro passo di Genesi rabbah, e ricorre a un gioco di parole riferito al tema della purificazione delle scorie [pesolet] dalla farina [solet].564 In linea di principio, tali discussioni possono essere interpretate in riferimento alla creazione del mondo visibile o inferiore, non dei processi sefirotici. Tuttavia, quest’immagine pare finalizzata a sottolineare la preesistenza delle hawayyot, chiamate dal cabbalista anche tzurot, «forme», o dimyonot,565 «similitudini», che non si possono contemplare altro che dopo la rimozione delle scorie, pertanto riferendosi alle loro metamorfosi posteriori o inferiori.566

C’è però un caso in cui le scorie sono associate esplicitamente al male:

 

Tutto quanto è scoria, feccia e male ha nome dalle tenebre che lo circondano, mentre quanto è puro, limpido, setacciato e buono ha nome dalla luce ... la luce emerge dalla radice del bene e il male dalla radice del male e ogni cosa prende nome dalla radice.567

 

Vorrei spiegare in primo luogo il significato di «tenebre che lo circondano» sulla base di un’affermazione riportata nella stessa pagina del commento di ‘Azri’el:

 

Il Tohu circonda e attornia il Bohu, la scorza di ogni creatura la circonda mentre ogni cosa che si trova all’interno degli animali è squisita e tutti i frutti hanno scorze esterne e le tenebre circondano la notte, come è scritto [Sal, 12, 9] «I malvagi si aggirano».568

 

Questo principio, in netta opposizione all’interpretazione neoplatonica,569 può essere adattato a quanto è scritto nello stesso contesto e cioè che le hawayyot di cui si dice che sono comprese all’interno di Ḥokhmah sono concettualizzate come migliori della stessa Ḥokhmah, una sorta di contenitore che contiene un contenuto molto più prezioso: ma sul tema torneremo più avanti. Sia la metafora della purificazione sia quella delle acque che ricoprono tutto mostrano che qui è avvenuta una fusione tra sefirot e potenze oscure, rappresentate dai termini pesolet, «rifiuto/scorie», tohu, e, secondo altre interpretazioni nella stessa opera, anche din («giudizio»).570 Tohu è esplicitamente riferito al male misto a bene.571 È all’interno del mondo di Tohu e delle tenebre che appaiono dapprima le hawayyot indistinte e informi, mentre il concetto di rifiuto e di feccia viene menzionato solo in seguito.572 Questa miscela573 ha impedito il manifestarsi di una struttura stabile e la purificazione del rifiuto, mediante la separazione delle due componenti in luoghi distinti,574 che ha permesso la realizzazione della creazione. La rimozione consente anche di distinguere il bene dal male, visto che i due elementi si trovavano fusi indistintamente all’interno del Tohu. Vorrei sottolineare che il bene si manifesta solo in seguito, dopo che ha avuto luogo il processo di purificazione dal male o dalle scorie.575 Pertanto, nello status indeterminato delle hawayyot miste all’interno della prima sefirah si trovano simultaneamente le radici del bene e del male, benché le prime siano considerate più importanti (un ulteriore esempio di asimmetria subordinata). Secondo un’altra affermazione significativa della stessa opera «da Ḥokhmah furono emanate due luci: una è la potenza della luce buona e l’altra quella della luce cattiva».576 In maniera analoga il cabbalista sostiene che le buone e le cattive azioni furono precedute dalla sefirah Ḥokhmah e che vennero prima degli attributi di misericordia e giudizio.577

Si dovrebbe osservare che queste discussioni relativamente estese contengono pochi termini filosofici e che non rappresentano, a mio parere, altro che le idee del più anziano ‘Ezra da Gerona, da cui ‘Azri’el attinse ampio materiale per il suo trattato. Ad esempio, quest’ultimo autore si richiama al versetto di Gb, 12, 22, usato da ‘Ezra, come si è visto. È però assente la concettualizzazione teosofica dei tre motivi aristotelici, così evidente in un trattato di ‘Azri’el di cui parlerò tra poco, benché essa ricorra in altri contesti in questo commento, nel quale si evidenzia l’influenza di elementi filosofici, perlopiù neoplatonici.578 È in un quadro più filosofico che si fa menzione del termine maḥashavah («pensiero») riferito a un atto divino.579 Inoltre, come ha osservato giustamente Alexander Altmann, è proprio in uno degli scritti di ‘Azri’el precedentemente citati che appare per la prima volta un’interpretazione quasi demonica del termine qelippah.580 Nello stesso contesto, ‘Azri’el parla della radice del bene, dove si trova la fonte della luce, e della radice del male, a proposito delle quali si afferma: «è impossibile che qualcosa muti rispetto alla sua radice».581 Se questa è la versione corretta della formula di ‘Ezra relativa all’esistenza di due tipi di emanazione o principio, potremmo parlare di una specie di predeterminismo che tende a un dualismo abbastanza moderato, dato che manca ogni forma di antagonismo, come vedremo tra breve.582

In un breve trattato sui princìpi della preghiera, attribuito a ‘Azri’el da Gerona, i tre concetti aristotelici di forma, materia e privazione indicano le tre sefirot più elevate: in particolare, «privazione» (efes) simboleggia la sefirah Keter.583 Di conseguenza, sostiene ‘Azri’el, probabilmente nella scia di ‘Ezra,584 il mutamento può accadere solo con il ritorno di una cosa alla sua fonte, rimuovendo dapprima la forma; solo dopo la sua distruzione, questa sefirah le darà una nuova forma, come quella del «regno» della privazione aristotelico. Nonostante l’analogia di tali processi, esistono discrepanze evidenti nel modo in cui il filosofo e il cabbalista si servono degli stessi termini. Per il secondo, efes probabilmente si identifica con Ayin, il «Nulla» delle fonti filosofiche originali relative alla meontologia, che qui indica la pienezza dell’essere che trascende l’Essere stesso e indica così il superesse.585 Concettualmente parlando, la privazione è intesa come il suo esatto opposto nella fisica aristotelica: indica pienezza di forme e quindi di Essere. Altrove, negli scritti di ‘Azri’el, il mondo di Ayin è descritto come luogo della coincidentia oppositorum – interpretazione che demolisce completamente la visione filosofica della privazione come assenza o potenzialità.586 In ogni caso, secondo questo cabbalista, «tutto è uno, semplice e in parti assolutamente uguali».587

Comunque, ciò che crea una dissonanza ancor maggiore tra la concezione dell’autore e la terminologia filosofica è l’identificazione piuttosto esplicita del Nulla, efes, con l’attributo di giudizio, middat ha-din, il che stabilisce un’affinità assolutamente inconsueta nella Qabbalah teosofica.588 Nel suo breve trattato ‘Azri’el collega i mutamenti di forma a questo attributo, mentre la loro sussistenza dipende dall’attributo di misericordia.589 Sebbene l’interpretazione simbolica più comune concepisca i due attributi come le due sefirot Ḥesed e Gevurah, dubito che essa valga in questo caso. Ugualmente priva di paralleli in altre fonti a me note è un’affermazione di ‘Azri’el riferita all’attributo del giudizio: «il Santo, benedetto sia, ha settanta nomi che sono noti e rivelati agli illuminati e a essi corrispondono i settanta nomi dell’attributo del giudizio».590 Questa giustapposizione di Dio, da un lato, e dell’attributo del giudizio, dall’altro, implica una specie di dualismo – subordinato, dato che si tratta di un attributo di Dio – che ricorda le due radici menzionate precedentemente e le due forme di emanazione.

Nel contesto del problema del male nelle discussioni geronesi sull’emanazione delle hawayyot si dovrebbe ricordare un altro breve trattato. In un Commento all’opera della creazione attribuito da Scholem al Nahmanide, il male è menzionato due volte in associazione ai processi emanativi. La prima volta il termine ra‘ ricorre come parte del versetto del Deutero-Isaia citato nell’Introduzione, mentre la seconda volta pare riferito a Bohu e associato alla limitazione delle hawayyot in funzione dell’attributo del giudizio severo.591 L’autore trasferisce la discussione sul male dal regno superno delle sefirot, come si è osservato precedentemente, al mondo inferiore, secondo l’enfasi caratteristica della scuola del Nahmanide. Così sembra che il cabbalista anonimo combini il materiale geronese relativo all’opera della Creazione con alcuni elementi del Commento al Pentateuco del Nahmanide, come correttamente osservato da Scholem, riflettendo fedelmente le concezioni di entrambe le scuole cabbalistiche. In una delle versioni di questo trattato si fa riferimento anche alla discussione sul male del Sefer ha-Bahir.592

Dal punto di vista semantico è molto problematica la coesistenza di due significati astratti opposti, la privazione originale aristotelica e il superesse nella sua formulazione neoplatonico-teosofica. La simbolizzazione di termini filosofici – ne abbiamo visto solo un esempio – dev’essere considerata un cambiamento nel significato di una data parola, piuttosto che un’integrazione del significato originale, riferito a qualcosa di concreto, che rimarrebbe relativamente stabile. In effetti questo fenomeno può essere ritenuto un’allegorizzazione di termini filosofici, piuttosto che un uso simbolico, processo che presumibilmente contraddice l’affermazione di Scholem, secondo cui «la cosa che diventa un simbolo mantiene la sua forma e il suo contenuto originali».593 Il «polo sensorio» del termine594 in questo caso non è mai esistito; pertanto, la trasformazione del senso filosofico in cabbalistico avviene solo a livello di «polo ideologico», «esploso» per il confronto di due ideologie divergenti, quella filosofica e quella teosofica. Al momento in cui il concetto filosofico adotta un significato specificamente teosofico perde il suo precedente significato. La natura di questi concetti è ovviamente diversa nelle loro versioni filosofiche, quando si confronta con il loro uso nella Qabbalah delle origini. Per alcuni dei primi cabbalisti esistono tre ipostasi divine, le tre prime sefirot, interconnesse ma che mantengono, ciò nonostante, caratteristiche specifiche e l’esistenza di entità separate; sono emanate in un certo ordine, si influenzano reciprocamente, formano una certa relazione di vicinanza e separazione e così via. Ai concetti aristotelici summenzionati non si può attribuire niente di simile.

Il carattere ipostatico del pensiero cabbalistico è uno dei principali ostacoli all’applicazione di termini aristotelici a un sistema teosofico, mantenendo il significato originale. Il termine per privazione si riferisce ora a una potenza divina, la prima sefirah che precede la materia e la forma, identificate rispettivamente con la seconda e la terza sefirah.595 Così, i concetti di Aristotele, centrali per la sua fisica, diventano una specie di metafisica nell’opera di ‘Azri’el, che riprende i concetti di materia intelligibile e forma del neoplatonismo arabo ed ebraico. Benché coerente ontologicamente, lo schema delle tre prime sefirot, riferite a pensiero, sapienza e discernimento, è rappresentato da concezioni filosofiche, i cui significati sono stati radicalmente trasformati.

La trasformazione di termini filosofici in allegorie e di termini non filosofici in simboli costituisce la prova della natura post-riflessiva del linguaggio cabbalistico, in generale, e della natura specifica del suo linguaggio simbolico, in particolare. In ogni caso, il significato essenziale del concetto aristotelico è obliterato e al vecchio termine si attribuisce un nuovo concetto. È affascinante che la triade aristotelica sia stata riferita alle tre sefirot più elevate e che sia stata adottata sia da cabbalisti che avevano un atteggiamento abbastanza aperto nei confronti della filosofia, come ‘Azri’el e il suo contemporaneo geronese Ya‘aqov ben Shesheṭ sia da cabbalisti decisamente anti-filosofici, come Yosef Ashkenazi e Yehudah Ḥayyaṭ, come vedremo alla fine di questo capitolo, e Shem Ṭov ben Shem Ṭov, di cui parleremo nel prossimo capitolo.

4. Alcune fonti della Qabbalah di Gerona

Ci dovremmo chiedere se i due autori citati abbiano creato una nuova concezione sullo status primordiale del male o se l’abbiano ereditata da fonti cabbalistiche più antiche. A mio parere, vi sono alcuni indizi di questa seconda possibilità, dato che essi stessi fanno riferimento a tradizioni cabbalistiche attribuite al loro maestro, Yitzḥaq Sagi-Nahor, cioè Yitzḥaq il Cieco.596 Ritengo che questo cabbalista provenzale abbia passato qualche tempo a Gerona, dove avrebbe insegnato tradizioni cabbalistiche – alcune delle quali ereditate dal padre – a ‘Ezra, probabilmente a ‘Azri’el e a Ya‘aqov ben Shesheṭ, per poi rientrare in Provenza.597 Nel suo unico trattato completo pervenutoci, un Commento al Sefer Yetzirah, si possono discernere i temi che si trovano in ‘Ezra e ‘Azri’el: Tishby ha fatto riferimento nelle note della sua edizione del Commento alle leggende talmudiche di ‘Azri’el ad alcuni passi da me presi in esame precedentemente.

In primo luogo Yitzḥaq il Cieco usa un’importante metafora per indicare l’esistenza compatta delle entità superiori. Le definisce un tizzone cui conducono dei sentieri, come le fiamme portano al carbone.598 Ricorre al termine hawayyot più di venti volte nel suo breve Commento al Sefer Yetzirah e varie volte nel suo Commento all’opera della Creazione, ciò che dimostra l’importanza del vocabolo già nella Qabbalah provenzale. Di particolare rilievo è la descrizione di una specie di hawayyot «illimitate».599 Il cabbalista provenzale aveva già affermato la presenza delle hawayyot all’interno della sefirah Ḥokhmah, come apprendiamo da un passo parallelo alle trattazioni precedenti, relativo alla presenza delle esistenze all’interno della sapienza divina o al pensiero divino – talora definito «puro» –, composto da un cabbalista vicino a ‘Ezra e ‘Azri’el, Ya‘aqov ben Shesheṭ. Egli scrive:

 

Contemplando la Torah,600 Dio vide le esistenze [hawayyot] in Se stesso, dato che esse si trovavano nella [sefirah] Sapienza [Ḥokhmah], [e] si accorse che erano pronte a rivelarsi.601 Questa è la versione che ho sentito a nome di R. Yitzḥaq, figlio di R. Avraham,602 di benedetta memoria. E questa era anche l’opinione del Rabbi,603 autore del [Libro della] Conoscenza che affermò che Egli, conoscendo Se stesso, conosce tutte le [creature] esistenti.604 Ciò nonostante, nella II parte, cap. 6605 della Guida, il Rabbi si dichiarava stupito del detto dei nostri maestri secondo i quali Dio non fa niente prima di aver contemplato il Suo seguito [pamalya] e cita ivi l’affermazione di Platone secondo cui Dio, benedetto sia, contempla il mondo intellettuale e da esso emana l’emanazione [che produce] realtà.606

 

Secondo questa testimonianza, il motivo delle esistenze all’interno della sapienza divina risalirebbe a Yitzḥaq il Cieco. Possiamo dunque considerare con relativa certezza che la presenza di esistenti all’interno della sapienza divina sia una teoria riferita alla creazione già attestata negli scritti di tre cabbalisti delle origini, che le derivarono a loro volta dalla loro fonte, Yitzḥaq. Merita conto osservare che la concezione differisce da quella sostanzialmente neoaristotelica del Maimonide, come si è visto nell’ultima citazione, e anche da quelle neoplatoniche cui ‘Azri’el si riferisce esplicitamente nel suo Commento alle leggende talmudiche.607

Yitzḥaq si richiama inoltre ad altre componenti della teoria delle entità/esistenze che abbiamo osservato nei passi dei due cabbalisti catalani. Parla di uno dei significati del Tohu come impressione delle hawayyot informi,608 attribuendo un ruolo significativo alla maḥashavah, talora definita anche maḥashavah ṭehorah, «pensiero puro», come all’inizio dei processi creativi609 o, secondo un’altra formulazione che forse gli appartiene, sostiene che le dieci sefirot si trovano all’interno della sapienza divina610 e che quelle hawayyot sono da associare alle tenebre che derivano da una causa superna e che sono materiali.611 Il cabbalista provenzale si serve anche dell’immagine rabbinica del Tohu inteso come una linea verde che circonda il mondo.612

Infine – ed è ciò che ci interessa più specificamente – Yitzḥaq il Cieco sostiene che l’origine del bene e del male sia nelle entità primordiali localizzate in Ḥokhmah e che la loro manifestazione sia avvenuta a seguito di un processo emanativo:

 

... dopo la causa613 di vita fu emanata la causa di morte. Il bene è emanato dalla profondità del bene e il male è emanato dalla profondità del male. Questo è il significato di «bene da bene e male da male».614 Ma se chiedi come sia possibile che il fuoco sia venuto dall’acqua, si dovrebbe dire dalle dieci sefirot, che sono hawayyot615 interiori e lo sono da quando la loro interiorità è in Ḥokhmah, perché sono radici cui sono uniti il bene e il male e iniziano a crescere come un albero, di cui non si vedono le origini, finché non diventano una pianta [formata].616

 

Il bene e il male sono pertanto uniti alle hawayyot, ritenute già presenti nella seconda sefirah, e ciascuno dei due deriva dalla sua radice specifica. È comunque difficile distinguerli all’inizio, mentre è possibile in seguito. Ecco la risposta alla domanda del perché, secondo il Sefer Yetzirah, il fuoco è stato emanato dall’acqua, cioè una qualità da un’altra qualità. Anche altrove Yitzḥaq parla di Tohu come di «profondità del pensiero», come se «tutte le hawayyot» fossero al suo interno.617 Subito dopo commenta Gn, 1, 3, dove si parla della creazione della luce:

 

«Disse: Sia luce»: «Disse», la Sua volontà618 era che la luce dell’intelletto si espandesse dopo che si era rivestita dello splendore di Ḥokhmah619 e tutte le hawayyot furono620 il primo giorno e da lì è stata riversata621 la luce di tutte le cose.622

 

Vorrei sottolineare che la presenza del male all’interno dell’elenco di dieci hawayyot, diversamente dalla scuola cabbalistica provenzale-geronese, sembra, comunque, anteriore a Yitzḥaq il Cieco, dato che lo troviamo come ultima delle dieci hawayyot divine nel contemporaneo Sefer ha-Shem di El‘azar da Worms, il quale evidentemente segue le discussioni sulle dieci profondità del Sefer Yetzirah.623 Secondo l’autore ashkenazita le dieci hawayyot sono modalità dell’immanenza divina nel mondo (una delle quali è il male) e dovrebbero essere oggetto di contemplazione durante la recitazione dello Shema‘.624 Inoltre, nell’anonimo Shir ha-yiḥud, composto alla fine del XII o all’inizio del XIII secolo e che divenne parte della liturgia ashkenazita, ricorre sia il tema delle hawayyot divine sia il concetto del Dio come totalità.625 Penso pertanto che il cabbalista provenzale e El‘azar da Worms abbiano ricevuto un commento di alcuni temi presenti nel Sefer Yetzirah indipendenti dal testo originale, anche se per il momento la storia di questa tradizione non è stata ancora ricostruita.626 In tale contesto, vorrei sottolineare che l’interpretazione intrasefirotica delle hawayyot, che svolse un ruolo tanto significativo nella teosofia cabbalistica provenzale-geronese, è assente dalle altre tipologie geronesi e, in seguito, da quella derivante dalla scuola del Nahmanide a Barcellona,627 sebbene entrambe condividano la concezione che la Sapienza è il luogo di tutto. Adottando un’interpretazione delle sefirot come essenza della divinità, la presenza di componenti aggiuntive insieme alle sefirot fu forse ritenuta problematica dal punto di vista teologico.628

Queste sono le ragioni per cui sono propenso ad attribuire a Yitzḥaq il Cieco e forse già a suo padre, Avraham ben David, anche altri elementi che appaiono più esplicitamente negli scritti dei suoi allievi, benché, a essere precisi, egli non ne abbracciasse necessariamente tutte le concezioni. Tuttavia, data la mentalità abbastanza conservatrice che caratterizza ‘Ezra,629 tale attribuzione è del tutto plausibile. Inoltre, è possibile che Avraham ben David abbia espresso l’idea che il male si origini della manifestazione divina più elevata, concezione non del tutto diversa da quella del suo contemporaneo, Ya‘aqov ben Re’uven. Si dovrebbe osservare che già di Avraham ben Yitzḥaq, suocero di Avraham ben David, si affermava che alludesse a segreti relativi a materiali rabbinici, affidati alla scrittura e attestati almeno fino all’inizio del Trecento.630

In ogni caso, nei passi citati si rileva l’interessante integrazione di quattro tipologie o registri di pensiero diversi: quello biblico, rappresentato dai versetti e dalle concezioni scritturali; quello rabbinico, rappresentato da miti rabbinici e midrashici della creazione; quello teosofico, rappresentato dalle tre sefirot più elevate; quello filosofico – sostanzialmente neoplatonico ma in cui compaiono anche temi aristotelici derivanti da fonti arabe e forse anche cristiane – su cui torneremo qui di seguito.

Alle due correnti speculative menzionate, cui i cabbalisti si riferiscono esplicitamente e che sono accettate dagli studiosi, si dovrebbe aggiungere anche quella neopitagorica. Non è affatto semplice limitare la portata di queste influenze a un solo registro egemone, mentre si dovrebbe sottolineare un dialogo interessante tra le quattro tipologie, ciascuna delle quali apportatrice di elementi che non ricorrono nelle altre. Per il nostro proposito, la natura specifica della percezione del male in questi autori difficilmente può essere associata solo ai registri filosofici e teosofici – per come li intendo io – e può riflettere l’impatto della componente biblica, forse confortata da tradizioni orali simili a quelle di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, quando abbiamo discusso la testimonianza di Ben Re’uven o nel capitolo 1 in merito al passo di Agobardo di Lione.

Vorrei suggerire la probabile influenza di un’ulteriore tipologia speculativa che potrebbe contribuire a meglio comprendere l’emergere di alcune concezioni di cui si è detto in precedenza. La concezione derivante dalle fonti neoplatoniche citate letteralmente da ‘Azri’el, secondo la quale, all’interno del pensiero divino, si trovano i princìpi di materia e forma che costituiscono il fondamento delle creature inferiori, differisce da quella che egli adottò dalle sue fonti cabbalistiche, relativa alla presenza di tutti gli esistenti all’interno di quello stesso pensiero. Questa teoria è cruciale per la comprensione di alcuni aspetti della Qabbalah provenzale e geronese. Per chiarire il mio punto vorrei tentare di riassumere alcune delle discussioni precedenti.

Propongo di distinguere quattro stadi principali dell’espansione dall’En Sof alle prime sefirot, sulla base della speculazione della Qabbalah fiorita nelle due regioni: all’inizio, all’interno dell’En Sof tutto esiste in uno stato indifferenziato, come totalità dell’Infinito. Poi avviene la prima fase dell’emanazione, che consiste nell’ipostasi di Keter, ove le cose diverse compaiono in una situazione di esistenza compatta o in parti uguali come unificazione di contraddizioni, lo stato designato nella terminologia di ‘Azri’el con l’espressione aḥdut shawwah, che si può rendere «unione armonica» e che indica la compresenza di contenuti diversi all’interno di una sfera più ampia.631 Questa fase è chiamata efes e afisah o steresi e rappresenta la pienezza della potenzialità. Nello stadio seguente, che ha luogo nella sefirah Ḥokhmah, gli esistenti si trovano allo stato caotico, forse anche indistinto, immersi in una specie di oscurità, intesa come una specie di Nihil, che allude all’impossibilità di distinguerli.632 È il livello della hyle, dell’oscurità o dell’acqua, ma anche di tutte le cose possibili.633 In molti casi non si fa menzione del numero di tali esistenti. Si può solo immaginare che siano molti ma almeno in un caso ‘Azri’el, come già ‘Ezra prima di lui, parla di dieci cose comprese all’interno di Ḥokhmah.634 Ai fini della nostra discussione, è all’interno della terza sefirah, Binah, che gli esistenti appaiono in maniera distinta: è la fase delle forme e degli esistenti diversificati o dei fiumi. Questa è, a mio parere, la modalità di esistenza definita reshimot ha-hawayyot, cioè «iscrizioni delle hawayyot».635 Si dovrebbe ricordare che sia ‘Ezra sia ‘Azri’el, e presumibilmente anche il loro maestro, intesero le tenebre in senso concreto, come una miscela di bene e di male, di purezza e di scorie. Ya‘aqov ben Shesheṭ, invece, le interpretò diversamente, come privazione della completezza della volontà divina e assenza di cognizione, un’interpretazione allegorica, forse fondata sul gioco di parole che permette di leggere il termine ḥoshekh («tenebre»), come se derivasse dalla radice ḤSKh, intesa nel senso di «impedire» o «privare».636

Pertanto i testi cabbalistici geronesi, e forse le loro fonti provenzali, si occupano di processi di limitazione dell’Infinito, En Sof, cruciali per la teosofia di questa scuola,637 e della manifestazione del finito e delle entità distinte, mediante la transizione dall’uno al molteplice e allo stesso tempo l’attualizzazione del potenziale, che significa la ricezione di forme da parte di un’entità precedentemente informe. In qualche modo, i tre processi fanno parte di un’evoluzione più ampia che ha a che fare con la rivelazione graduale di ciò che è occultato.638 Essi derivano da tradizioni speculative diverse ma sono menzionati congiuntamente nei testi di Gerona: la fonte superna del male emerge nel quadro dei cambiamenti prodotti all’interno delle prime tre sefirot, che avvolgono le sefirot inferiori e implicitamente il mondo.

La descrizione delle due prime fasi citate ricorda il modo in cui alcuni studiosi hanno descritto la teologia negativa neoplatonica, che include una concezione che trascende gli opposti e una che invece congettura una specie di coincidentia oppositorum.639 Inoltre, l’esistenza delle idee all’interno della mente divina, secondo i pensatori neopitagorici, diversa dalla concezione platonica classica dell’esistenza di un regno delle idee indipendente da Dio,640 è anch’essa affine all’atteggiamento della Qabbalah delle origini, come si è visto. In ogni caso, il rilievo attribuito alle opposizioni ricorda la ben nota tavola pitagorica degli opposti, di cui parleremo tra breve. L’uso della tradizione pitagorica in ‘Azri’el è stato riscontrato peraltro anche nel suo Commento alle preghiere quotidiane, dove l’autore menziona la tetraktys, la sacra tetrade la cui somma interna ammonta a dieci.641 Inoltre Farber ha correttamente rinviato al neopitagorismo nei suoi importanti saggi sulla teoria del male, a proposito dell’impiego cabbalistico dei concetti di unità e di diade, anche se non nel contesto del pensiero di ‘Azri’el.642

Mi preme sottolineare che in generale alcuni motivi pitagorici erano noti sia agli arabi, soprattutto alla setta dei Fratelli della Purità,643 sia agli ebrei, che nel Medioevo conoscevano l’enciclopedia di questi ultimi,644 in molti casi nel contesto della tradizione neoplatonica. In effetti, proprio come il platonismo antico si fondava su temi pitagorici, anche il platonismo medio e il neoplatonismo si ispirarono a tradizioni derivanti da Pitagora o a lui attribuite. Alcuni pensatori ebrei medioevali furono in effetti indebitati a forme di neopitagorismo.645

Le fonti pitagoriche o neopitagoriche potrebbero permettere di comprendere meglio ‘Azri’el e forse anche le sue fonti cabbalistiche riguardo all’interpretazione di un principio coevo al male, riferito alle tenebre, al moto e al disordine, alla stregua della tavola pitagorica dei dieci princìpi e opposti, soprattutto nella formulazione della Metaphysica di Aristotele, opera ben nota in età medioevale.646 Anche il concetto di Ayin può avere qualcosa a che fare con la categoria dell’illimitato o dell’indefinito che nella tavola compare nella stessa colonna del male. L’affinità tra queste qualità negli aspetti negativi pitagorici della tavola degli opposti può spiegare perché il concetto di male ricorra nella Qabbalah provenzale-catalana, così interessata al neoplatonismo, in un livello così alto di realtà, posizione che differisce dalla parhypostasis, cioè la negazione o assenza di bene dell’aristotelismo e del neoplatonismo. Benché, storicamente parlando, la tavola delle due decadi di princìpi opposti non abbia niente a che vedere con lo zoroastrismo, c’è un pensatore tardo-antico che alluse a tale affinità.647 Ricordo anche che, in una versione posteriore, la lista degli opposti includeva anche l’opposizione di forma e materia.648 Comunque, il più celebre di questi opposti nel neopitagorismo, quello dell’uno e della diade, rispettivamente fonti del bene e del male, non può rinvenirsi chiaramente negli scritti dei primi cabbalisti, anche se possiamo considerare che implicitamente la seconda sefirah sia da ritenere una diade e la prima l’Uno.649 In ogni caso, potremmo definire le discussioni dei primi cabbalisti sull’asimmetria subordinata una descrizione di un processo all’interno del livello più elevato del sistema teosofico, mentre si occuparono meno della dualità cosmica, secondo la modalità neoplatonica e neopitagorica e ancor meno di quella gnostica.

Si dovrebbe osservare che né ‘Ezra né ‘Azri’el adottarono un atteggiamento esoterico quando trattarono gli argomenti che qui ci interessano, benché entrambi ritenessero che tale soggetto segreto fosse rintracciabile nello strato semantico nascosto delle leggende rabbiniche da loro spiegate.650 Così, almeno nella Qabbalah geronese che si riflette negli scritti di questi due cabbalisti, si trova una concezione piuttosto esplicita che ammette l’esistenza del male nel livello più elevato del sistema sefirotico e che, secondo alcune affermazioni, sarebbe riferita al pensiero divino. Pertanto è del tutto plausibile che questa concezione si ponga in continuità con alcuni temi attestati nella Qabbalah provenzale sulla base degli insegnamenti di Yitzḥaq il Cieco e dei suoi seguaci. Secondo il materiale summenzionato, l’importante proposta di Farber che ‘Azri’el sia da considerare il primo cabbalista a elevare l’origine del male a un livello sefirotico così alto, dovrebbe essere leggermente modificata, lasciando aperta la possibilità che già alcune sue fonti contenessero tale interpretazione.651

La teoria che abbiamo descritto precedentemente non si basa sulla presupposizione della creatio ex nihilo, né su una concezione dualistica, nonostante l’esistenza del male all’interno del caos primordiale. Nei termini di Jon D. Levenson, l’idea biblica espressa in Gn, 1, 1-2 è quella di «una creazione senza opposizione».652 Malgrado le profonde distinzioni concettuali tra la cosmogonia provenzale-catalana e quella biblica, esse hanno un elemento notevole in comune: dall’origine tenebrosa e caotica, attraverso una serie di separazioni e differenziazioni, è emersa una struttura ordinata. In entrambi i casi si ritiene che il male compaia all’inizio dei processi cosmogonici. Mi preme sottolineare che l’insistenza dei primi cabbalisti sul commento di materiali derivati dalla tradizione dovrebbe essere collocata anche sullo sfondo dell’affermazione del Maimonide che la sua Guida dei perplessi è un’interpretazione dell’opera della Creazione e dell’opera del Carro.653 L’andaluso sosteneva che le chiavi della comprensione di quei segreti rabbinici fossero andate perdute durante l’esilio e che fosse stato lui a recuperarle: tale pretesa era nota ad alcuni dei primi cabbalisti e anche ‘Ezra se ne servì.654 Comunque, la mia tesi è che in questo, come in altri casi, le interpretazioni cabbalistiche si ispirarono anche a tradizioni precedenti, combinate con varie speculazioni filosofiche.

La concezione del pensiero cattivo come origine dei demoni, descritta nel capitolo 1, non sembra fare da sfondo al pensiero di Yitzḥaq il Cieco e dei suoi discepoli. Vorrei osservare che tale teoria del male primordiale non può essere confrontata a teorie catare o ad altre teorie medioevali manichee, sostanzialmente derivate dal dualismo cosmico. Questo non significa che i cabbalisti, come ‘Azri’el ad esempio, non avessero familiarità con concezioni catare,655 ma pare che il loro dualismo non avesse una grande influenza sull’autore, almeno per quanto riguarda la speculazione sul male. Come molti suoi colleghi, ‘Azri’el non fece propria l’idea che un Dio inferiore e malvagio avesse creato il mondo ma concepì il male come parte del livello superiore della divinità.

5. Yosef ben Shalom Ashkenazi e Yehudah Ḥayyaṭ

Uno dei cabbalisti più influenti attivi alla fine del Duecento fu Yosef ben Shalom Ashkenazi. Sappiamo poco della sua vita, ma la sua indubbia familiarità con varie lingue ci lascia intendere che soggiornò in diversi centri. Probabilmente risiedette a Barcellona per un periodo abbastanza lungo e fu influenzato dalla Qabbalah delle origini, soprattutto quella di ‘Azri’el da Gerona,656 cui integrò elementi del hassidismo ashkenazita. Pur essendo un cabbalista anti-filosofico, conosceva bene diverse versioni medioevali dell’aristotelismo e, per il tema che ci interessa, si occupò della triade steresi, hyle e forma.657 Definisce palesemente Keter non solo Ayin – Ayin gamur, «Nihil assoluto» o Ayin qadmon, «Nihil primordiale» – ma anche «privazione», he‘eder,658 e identifica inoltre quest’ultima con Din, «giudizio», avvicinandola ancor più al concetto di male.659 Afferma che la causa della hyle è la steresi, senza la quale sarebbe impossibile trovare una forma nella hyle, a meno che la forma che l’ha preceduta non fosse assente, ma senza la steresi la prima forma non esisterebbe né alcuna forma potrebbe derivare da un’altra.660 Secondo un’altra formulazione, a proposito del Tohu va-Vohu scrive che «la corruzione stessa è causa della generazione».661 Anch’egli spiega i vocaboli biblici ricorrendo ai termini «feccia» e «scorie», esattamente come aveva fatto ‘Azri’el.662 Inoltre interpreta la distruzione dei mondi primordiali in termini analoghi a quelli del cabbalista di Gerona:

 

Quando la hawayyah663 contemplò Keter, occultata rispetto a ogni cosa che le è prossima, e guardò negli abissi del pensiero664 del Keter superno,665 osservò la difficoltà della sua comprensione, e la hawayyah666 costruisce, mentre l’Ayin, che è he‘eder, distrugge, secondo il segreto di «Ha costruito mondi e poi li ha distrutti».667

 

Questo passo è particolarmente importante perché vi si afferma che il processo di distruzione dei mondi del mito midrashico dev’essere associato alla prima sefirah, come in alcuni testi discussi nel capitolo 1, tutti dell’ultimo scorcio del Duecento. In generale, Yosef Ashkenazi dovette apprezzare questa formulazione, benché in alcuni casi egli si servisse del plurale hawayyot per riferirsi all’atto della costruzione, mentre associò l’Ayin alla distruzione,668 ciò che ancora una volta pare tradire l’influenza di ‘Azri’el.669 Come nella presentazione di Ya‘aqov ben Shesheṭ della teoria di Yitzḥaq il Cieco della contemplazione della Torah superna, citata precedentemente, anche qui la contemplazione del contenuto della sefirah più elevata riflette sia la concezione midrashica della creazione che avviene per mezzo della contemplazione della Torah sia l’idea della contemplazione degli esistenti. Dato che l’Ayin è identificato con Keter ma anche con l’hawayyah o le hawayyot che si trovano al suo interno, esiste una dualità all’interno della prima sefirah di ordine ontologico che riflette le due azioni differenti – di fatto opposte – di costruire e distruggere, una positiva e una negativa. In ogni caso, anche Ashkenazi parla delle hawayyot occulte del Tohu – prive di forma e iscritte in ciò che chiama golem, la materia di Ḥokhmah – e delle hawayyot del Bohu – dotate di forma e associate a Binah –,670 forse manifestazione della polarità già riscontrata nella sefirah Keter.

L’influsso della terminologia geronese sul cabbalista ashkenazita appare evidente anche in un terzo testo, un Commento al Sefer ‘iyyun attestato in forma anonima in vari manoscritti e probabilmente opera di quest’autore. Nel breve trattato la formula «le hawayyot erano [già esistenti] ma l’emanazione è un’innovazione» appare insieme alla presupposizione che le hawayyot esistessero all’interno della potenza del Keter superno, definito Ayin.671 Le combinazioni di tradizioni geronesi con altre analoghe derivanti dalle cerchie di cabbalisti che gli studiosi associano alla redazione del Libro della contemplazione è davvero sorprendente, date le affinità terminologiche tra questi ambienti,672 così come il fatto che si ritrovino, forse indipendentemente, anche nelle opere del primo Quattrocento di Shem Ṭov ben Shem Ṭov, come vedremo più dettagliatamente.

Mi preme ricordare che Yosef Ashkenazi prediligeva il termine temurot (potenze opposte a quelle positive), che ricorre centinaia di volte nei suoi scritti, molto spesso specificamente riferito al male.673 Pare comunque che il termine fosse da lui assegnato solo alle sette sefirot inferiori, a differenza di David ben Yehudah he-Ḥasid, che riteneva che esistessero temurot anche per le tre sefirot superiori.

L’influenza delle concezioni di Yosef Ashkenazi, manifesta in numerose opere cabbalistiche composte al di fuori della penisola iberica dalla fine del Trecento, non si avverte invece nei testi scritti in Spagna. Questa situazione cambiò dopo l’espulsione del 1492, quando gli esuli giunsero in nuove località dove erano ben note le sue opere, come l’Italia. Un esempio di tale influenza, pertinente alle origini del male, ci è fornito da Yehudah ben Ya‘aqov Ḥayyaṭ, eminente cabbalista che sperimentò sulla propria pelle il dramma dell’esilio, soprattutto durante le sue peregrinazioni nell’Africa settentrionale, e che scrisse a Mantova nel 1495 l’unico suo trattato pervenutoci, intitolato Minḥat Yehudah, un commento al classico anonimo della Qabbalah nahmanidea, il Sefer ma‘areket ha-Elohut, opera catalana dell’inizio del Trecento, pubblicata a stampa due volte nel 1558 e estremamente rilevante per vari autori. Trattando del significato di alcune tecniche linguistiche, Ḥayyaṭ afferma a proposito del concetto di temurah, da me precedentemente introdotto:

 

[sia] per la potenza della steresi sia per l’esistenza, perché in tutte le cose esistenti674 la steresi precede l’esistenza e dalla potenza della temurah «una generazione va e una generazione viene» [Qo, 1, 4], dato che altrimenti le cose generate rimarrebbero per sempre e in tal modo dalla temurah l’albero ha la facoltà di ricreare il frutto nello stesso punto del ramo da cui è caduto il frutto maturo.675

 

Si tratta di un’interpretazione aristotelica della natura della sostanza e del meccanismo dei cambiamenti. Il concetto di steresi – privazione – non indica un’assenza totale ma relativa, il che significa che forme che potrebbero essere attribuite a una determinata materia in un determinato momento potrebbero ripetersi di nuovo in seguito, quando viene rimossa la forma attualizzata in un dato momento, lasciando che si manifesti una forma fin allora rimasta nella materia solo in potentia. Da questo punto di vista, la steresi, come molteplicità di forme possibili che esistono in potenza nella materia, precede qualsiasi forma specifica di esistenza, cioè di sostanza che consiste di materia unita a una forma specifica. La stessa concezione appare nel pensiero di ‘Azri’el da Gerona, così come nelle opere influenti di Yosef ben Shalom Ashkenazi,676 che potrebbero essere la fonte di Yehudah Ḥayyaṭ. Quest’ultimo copiò un passo dal Commento al Sefer Yetzirah di Ashkenazi, senza indicarne la fonte, nella stessa pagina del passo appena citato.677 È interessante che nel testo la steresi sia identificata piuttosto esplicitamente con la temurah, dunque con un’entità negativa. È una posizione che potrebbe rivelarsi significativa anche per interpretare un passo di Mosheh Cordovero, che analizzerò dettagliatamente nel capitolo 5.

La teoria che la steresi preceda l’esistenza ricorre in un altro brano cruciale dell’opera di Ḥayyaṭ:

 

Quei re che regnarono su Edom prima del regno di un re sui figli d’Israele, perché in ogni cosa la steresi precede l’esistenza ... «e questo è il cammino delle scorze, di precedere il cervello»678 ... Osserva che, prima dell’apparizione del punto di emanazione [nequddat ha-atzilut],679 Egli emanò da quello le scorze preesistenti e la loro esistenza deriva dal difetto che si associa a ogni entità nuova quando viene creata, dopo essere stata inesistente in actu o in maniera rivelata perché necessita della sua causa ed ecco perché essi vennero prima, perché sono venuti dal lato della steresi ed essa precede l’esistenza. A tutto ciò si allude [nel mito] «Costruisce mondi e li distrugge»,680 perché da questi mondi deriva rovina e desolazione.681

 

Nel passo la spiegazione filosofica relativa alla steresi si associa senza esitazioni all’immaginario mitico dello strato più tardo della letteratura zoharica, in particolare al motivo delle scorze. I due fattori sono stati ritenuti analoghi, resi omogenei e interpretati in funzione della spiegazione del versetto biblico dei re edomiti e del mito midrashico dei mondi distrutti. Si tratta di una modalità di pensiero «accumulativa», che combina Bibbia, midrash, filosofia e Zohar in uno stesso passo, peraltro piuttosto breve.

La tendenza della ricerca a creare una polarità netta tra astratto e concreto sulla base di fonti storicamente diverse, non regge quando viene applicata alla coscienza dei cabbalisti. In altri termini, nelle discussioni di Ḥayyaṭ, l’interpretazione ipostatica della privazione o meontologia è identificata non solo con la negatività ma con due dei termini più significativi usati dalla Qabbalah per indicare entità malvagie: temurah e qelippah. Qui, più che in altre trattazioni precedenti, si può discernere la concezione che l’aforisma cattura la sequenza di eventi all’interno della divinità, della cosmologia e della storia sacra o, per dirla nei termini di Ḥayyaṭ, «in ogni cosa».

Si dovrebbe ricordare che nei responsa del cabbalista Yosef Alcastiel di Valencia, composti per rispondere a Yehudah Ḥayyaṭ, forse pochi anni prima dell’espulsione del 1492, si trova una discussione abbastanza estesa del mito dei mondi distrutti di Genesi rabbah, anche se non si rileva alcun’influenza di questi testi nelle trattazioni del male in Ḥayyaṭ.682 Così, due dei principali e più influenti cabbalisti adottarono la teoria geronese delle hawayyot e quella del male a essa associato, facilitando così la loro disseminazione in cerchie esoteriche molto più ampie, delle quali parleremo ancora a proposito di Mosheh Cordovero.

6. Osservazioni conclusive

In breve: alcune concezioni espresse in forma ellittica, spesso enigmatica e in genere frammentaria, attestate negli scritti cabbalistici di Yitzḥaq il Cieco e forse derivanti dal pensiero del padre, Avraham ben David da Posquières, furono rielaborate e arricchite dai loro seguaci geronesi verso la metà del Duecento. È difficile stabilire con precisione che cosa abbiano ereditato i cabbalisti geronesi dalle due figure provenzali, data la natura frammentaria delle testimonianze di queste ultime. A un dato momento nella seconda metà del Duecento, le concezioni di ‘Ezra sulle hawayyot sono state adottate nel breve trattato Keter Shem Ṭov (attribuito a Avraham Axelrod da Colonia o a un certo Menaḥem, allievo di El‘azar da Worms), opera che ebbe ampia circolazione, come attestano le sue numerose versioni manoscritte. Due generazioni dopo esse, insieme alle formulazioni di ‘Azri’el, influenzarono Yosef Ashkenazi e l’importante Commento al Pentateuco del suo contemporaneo, Menaḥem ben Binyamin da Recanati,683 fino a raggiungere, a due secoli di distanza, l’esule Ḥayyaṭ che scrisse la sua opera in Italia. Come si è detto, quest’ultimo fuse tali tradizioni con le concezioni zohariche dei re edomiti. Discussioni significative sulle hawayyot ricorrono anche negli scritti di due dei più importanti cabbalisti fioriti alla metà del XVI secolo, Mosheh Cordovero e Shim‘on ibn Lavi, così come in molti passi del loro contemporaneo David ibn Avi Zimra, specialmente in un suo testo esaminato nel capitolo 2 e in molte altre sue discussioni cui ho rinviato nelle note. È soprattutto nell’opera Migdal David che Ibn Avi Zimra citò estesamente passi relativi alle hawayyot dei cabbalisti geronesi.

Inoltre, come vedremo nel capitolo seguente, si possono discernere importanti ripercussioni dei Commenti alle leggende talmudiche geronesi su alcune delle opere cabbalistiche di Shem Ṭov ben Shem Ṭov, dell’inizio del Quattrocento. Possiamo altresì affermare che la teoria provenzale-catalana di cui abbiamo parlato precedentemente, nella quale erano state adottate e adattate componenti filosofiche della concezione del male primordiale come steresi, si combinò con importanti motivi della Qabbalah in Spagna, dai suoi inizi fino alla sua scomparsa con l’esilio del 1492, così come alcune sue ripercussioni cinquecentesche al di fuori della penisola. Un esame di tali discussioni dimostra che, dato l’approccio sintetico caratteristico degli stadi più tardi della Qabbalah, il tema del male primordiale si fece più pronunciato di quanto già non lo fosse nelle più modeste trattazioni della fase provenzale-catalana, soprattutto nel contesto del crescente interesse per i processi presefirotici.

Abbiamo osservato l’intreccio tra le fonti ebraiche tradizionali e forse anche alcune tradizioni orali sul Dio come totalità, e una varietà di filosofie greco-ellenistiche. L’impatto di termini e concetti greci sui testi summenzionati fu decisivo, benché avessero poco (o niente) a che fare con i sistemi gnostici e le fonti delle teorie sul male fossero tratte dalla tradizione ebraica, sebbene fuse a concetti neoplatonici, neoaristotelici e neopitagorici. Comunque, in nessuna di tali fonti speculative si poteva discernere la complessa struttura teosofica dei commenti geronesi: il caos primordiale non vi era discusso come trasformazione graduale in una serie di ipostasi divine dinamiche che costituiscono una struttura teosofica mediana, in cui il male ha una collocazione determinata e non è solo negazione. Le trattazioni precedenti non menzionano neppure le altre due interpretazioni delle radici del male che si trovano nelle fonti esaminate fin qui. È importante sottolineare che i passi analizzati, inclusi quelli che adottano la terminologia aristotelica, non mostrano un’influenza esplicita della Guida dei perplessi del Maimonide, che gli autori indubbiamente conoscevano. A mio parere, le interpretazioni geronesi della narrazione della creazione riflettono una reazione all’interpretazione maimonidea di questo tema dell’esoterismo ebraico.

La speculazione teosofica della Qabbalah delle origini, che combina la teoria di una duplice tipologia di espansione o emanazione divina con quella della totalità di Dio, insieme a un ruolo modesto svolto dal male nel regno superno, è il risultato di complesse interazioni concettuali. Grazie a una varietà di fonti molto diverse dal punto di vista fenomenologico, si è venuta a creare una nuova tradizione, passata attraverso importanti fasi della storia della Qabbalah delle origini e giunta all’epoca dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna. A quanto mi risulta, si tratta di un fenomeno senza paralleli nelle filosofie antiche e medioevali, sia all’interno sia all’esterno del giudaismo.684 Benché il tema del male non svolga un ruolo centrale in quei testi, ricorre comunque all’interno della concezione che ogni cosa in questo mondo debba avere una radice nei mondi superni. Mentre Platone tentò di definire il mondo delle idee come buono par excellence e perciò il male non avrebbe potuto svolgervi alcun ruolo significativo, i cabbalisti di cui ci siamo occupati, utilizzando fonti tradizionali ebraiche, così come temi filosofici, poterono riservare almeno un ruolo modesto al male in tale economia. Invece che congetturare una dicotomia netta tra pensiero filosofico e cabbalistico sul male, sarebbe più realistico, in base alle precedenti discussioni, immaginare una profonda interazione e un contributo del primo al secondo.685 In quest’ottica, pare pertinente ricordare la radicalizzazione dell’interpretazione cabbalistica del male superno nel passo di Hegel descritto alla fine del capitolo 1. L’ontologizzazione della meontologia come componente di una negatività assoluta superna è un’evoluzione che non ritrovo nelle teosofie cabbalistiche, la cui inclinazione spesso è quella di spiegare la creazione e di incoraggiare la procreazione.

Per concludere: l’interpretazione biblica degli elementi arcaici presenti nei miti del Vicino Oriente antico, relativi alla lotta con le tenebre e alle acque primordiali, così come compaiono nella fonte sacerdotale di Gn, 1,686 trasformò, in maniera quasi teistica, mitologemi precedenti in un evento storico specifico, cioè l’atto creativo compiuto per mezzo di atti linguistici, cambiando così lo status di simboli naturali in un processo storico.687 Tuttavia, i cabbalisti geronesi applicarono la terminologia filosofica in modo da ridurre la storicità degli eventi e al contempo spersonalizzare l’atteggiamento verso la deità, almeno nei passi di cui ci siamo occupati finora. Si tratta di una spersonalizzazione sostanziale piuttosto che concettuale,688 il che significa che Dio non è un concetto astratto ma una sostanza priva di caratteristiche personali, sotto l’influsso delle filosofie greche. Comunque, non si tratta solo di una concezione plotiniana dell’uno o della sostanza semplice assoluta, essenzialmente intellettuale come nella filosofia ebraica. Quasi tutti i cabbalisti citati non adottarono una tipologia teosofica omogenea ed è possibile discernere anche tendenze antropomorfiche in alcuni degli autori più inclini al neoplatonismo, come ‘Azri’el da Gerona, questione di cui non posso occuparmi in questa sede.

Le interpretazioni quasi-filosofiche degli eventi primordiali derivanti dall’adozione e adattamento del sistema concettuale della fisica aristotelica furono dunque parte di una mitologizzazione naturalistica delle componenti dei versetti biblici. In altri termini, le inclinazioni filosofiche e mitiche cooperarono a generare una destoricizzazione della narrazione biblica di Gn, 1, così come di altri episodi della Scrittura, come quello dei re di Edom.689 Il racconto della creazione, insieme ad alcuni segmenti dell’historia sacra in altre parti della Bibbia ebraica, furono assorbiti all’interno dei processi intradivini e teosofici e furono intesi in riferimento a eventi sovrastorici, talora considerati ricorrenti. Una certa omogeneizzazione del contenuto dei vari eventi biblici690 fu raggiunta mediante la loro subordinazione all’evento più elevato all’interno della deità, come se tutti si riferissero allo stesso processo superno. Vorrei osservare in proposito che, nonostante il richiamo alle tenebre e alla privazione, sarebbe un eccesso di semplificazione attribuire un ruolo troppo significativo al pensiero apofatico nella Qabbalah, dato che gli elementi riferiti al linguaggio apofatico, come le tenebre superne, furono interpretati in maniera catafatica dai cabbalisti qui presi in esame. Questo è in particolare il caso di Yehudah Ḥayyaṭ, che adottò massicciamente modalità di pensiero zoharico da lui combinate con concezioni di ‘Azri’el.

Il giudaismo orientato storicamente sulla base della formulazione della Bibbia ebraica fu trasformato dai cabbalisti in una mitologia teosofica in cui i «simboli naturali», inclusa la procreazione, ebbero la meglio sulla centralità della narrazione storica.691 Come ho proposto nel capitolo 1, molti cabbalisti si interessarono alla creazione di una continuità ontologica tra la divinità e la creazione dei mondi inferiori e la maggior parte delle discussioni precedenti sono un’ulteriore prova di quest’interpretazione. Comunque, mentre nel capitolo 1 i simboli che riflettono tale continuità sono riferiti al seme maschile e all’imperativo della procreazione, in questo capitolo altri simboli naturali sono messi al servizio dello stesso impulso speculativo. Inoltre, nelle discussioni precedenti si evita di concentrarsi sulla polarità di categorie rituali, quali puro e impuro, mentre si preferisce ricorrere ad altre categorie, come pensiero puro e scorie intese come polarità centrale.

Per finire, mentre la letteratura rabbinica era restia ad adottare speculazioni sull’origine, e la forma frammentaria delle discussioni midrashiche testimonia tale resistenza nei confronti di un’interpretazione degli eventi primordiali tra i maestri dei primi secoli del giudaismo rabbinico, i cabbalisti elaborarono in maniera più complessa tali temi, consapevoli della loro natura esoterica. Siffatte elaborazioni furono indotte anche dalle affermazioni del Maimonide che sosteneva di possedere il significato occulto dell’esoterismo rabbinico, ispirato dal pensiero neoaristotelico.692