Then there were sighs, the deeper for suppression,
And stolen glances sweeter for the theft,
And burning blushes, though for no transgression.
Don Juan, c. 1, st. 741
L’angelica dolcezza che la signora De Rênal doveva al suo carattere e alla sua attuale felicità era leggermente turbata solo quando le accadeva di pensare a Elisa, la sua cameriera. La ragazza, che aveva avuto un’eredità, era andata a confessarsi dal curato Chélan e gli aveva confidato il proposito di sposare Julien. Il prete provò una vera gioia per la fortuna del suo protetto; ma la sua sorpresa fu estrema quando Julien gli dichiarò in tono risoluto che l’offerta della signorina Elisa non poteva convenirgli.
«Ragazzo mio, fate attenzione a ciò che passa nel vostro cuore» disse il curato aggrottando le sopracciglia. «Mi rallegro per la vostra vocazione, se soltanto a essa dovete il disprezzo per una fortuna più che sufficiente. Sono curato di Verrières da ben cinquantasei anni e tuttavia, a quanto pare, sarò destituito. Ciò mi addolora, anche se ho ottocento franchi di rendita. Vi confido questo particolare affinché non vi facciate illusioni su quello che vi attende nella carriera ecclesiastica. Se vi proponete di fare la corte ai potenti, la vostra dannazione eterna è sicura. Potrete fare fortuna, ma bisognerà nuocere ai miseri, adulare il sottoprefetto, il sindaco, le persone più in vista e servire le loro passioni. Questo comportamento, che nel mondo si chiama saper vivere, può non essere del tutto incompatibile con la salvezza eterna per un laico. Ma, nella nostra condizione, bisogna scegliere: si tratta di fare fortuna in questo mondo o nell’altro; non c’è via di mezzo. Andate, amico mio, riflettete e tornate fra tre giorni per una risposta definitiva. Scorgo, con dispiacere, in fondo al vostro carattere un ardore cupo, che non è indice né di moderazione né di completa rinuncia ai beni terreni, doti necessarie a un prete. La vostra intelligenza mi fa ben sperare; ma, permettetemi di dirvelo» aggiunse il buon parroco con le lacrime agli occhi «tremerò per la vostra salvezza, se vi farete prete.»
Julien si vergognava di sentirsi commosso. Per la prima volta in vita sua si vedeva amato: piangeva con gioia e andò a nascondere le proprie lacrime nei grandi boschi che sovrastano Verrières.
“Perché mi trovo in questo stato?” si chiese alla fine. “Sento che darei cento volte la vita per quell’uomo e, tuttavia, mi ha appena dimostrato che sono solo uno sciocco. È soprattutto lui che vorrei ingannare, e lui intuisce il mio pensiero. L’ardore segreto di cui mi parla è il mio proposito di fare fortuna. Mi crede indegno di esser prete e ciò avviene proprio quando immaginavo che il sacrificio di cinquanta luigi di rendita gli avrebbe dato la più alta idea del mio sentimento religioso e della mia vocazione. In futuro mi baserò solo su quei lati del mio carattere che avrò già sperimentato. Chi mi avrebbe detto che avrei provato piacere a versare lacrime? Che avrei amato chi mi dimostra che sono uno stupido?”
Tre giorni dopo, Julien aveva trovato il pretesto di cui avrebbe dovuto munirsi fin dal primo momento; quel pretesto era una calunnia, ma che importava? Confessò al curato, con molte esitazioni, che un motivo, che non poteva spiegargli perché avrebbe danneggiato una terza persona, lo aveva distolto fin dal primo momento dall’unione propostagli. Era come accusare la condotta di Elisa. L’abate Chélan notò nelle maniere del giovane un certo fuoco mondano, ben diverso da quello che avrebbe dovuto animare un giovane levita.
«Amico mio,» gli disse ancora «meglio un buon borghese di campagna, stimabile e colto, piuttosto che un prete senza vocazione.»
Julien rispose a queste nuove rimostranze in modo perfetto quanto alle parole, le stesse che avrebbe usato un giovane seminarista fervente; ma il tono con il quale le pronunciava, l’ardore mal represso che brillava nei suoi occhi allarmavano il prete.
Non bisogna presagire un futuro troppo negativo per lui: Julien trovava le giuste parole di un’ipocrisia cauta e prudente, non male per la sua età. Quanto al tono e ai gesti, il giovane viveva con i contadini, e non aveva avuto grandi modelli. In seguito, appena gli fu dato di avvicinare gli esempi giusti, divenne ammirevole sia nei gesti, sia nelle parole.
La signora De Rênal fu stupita che la recente fortuna della sua domestica non rendesse più allegra la ragazza; la vedeva andare continuamente dal curato e ritornare con le lacrime agli occhi. Infine Elisa le parlò del suo matrimonio.
La signora De Rênal credette di essere malata: una specie di stato febbrile le impediva di prender sonno; viveva solo quando aveva sotto gli occhi la cameriera o Julien. Non poteva pensare ad altro che a loro e alla felicità che avrebbero trovato nella vita coniugale. La povertà della casetta, nella quale avrebbero dovuto vivere con cinquanta luigi di rendita, le si dipingeva con i colori più incantevoli. Julien avrebbe potuto benissimo diventare avvocato a Bray, sede di sottoprefettura a due miglia da Verrières e, in tal caso, lei qualche volta lo avrebbe visto.
Credette sinceramente di impazzire e lo disse al marito; infine si ammalò davvero. La sera stessa, osservò che la cameriera, mentre la serviva, piangeva. In quel momento odiava Elisa, e poco prima l’aveva trattata bruscamente; le chiese perdono. Le lacrime della ragazza raddoppiarono e domandò alla padrona il permesso di raccontarle tutto il suo dolore.
«Dite pure» rispose lei.
«Ebbene, signora, mi respinge. Qualche maligno gli avrà detto male di me. E lui ci crede.»
«Chi vi respinge?» chiese la signora De Rênal respirando a fatica.
«E chi, se non il signor Jiulien?» rispose la cameriera singhiozzando. «Il signor curato non è riuscito a vincere la sua resistenza; il signor curato infatti ritiene che non si debba rifiutare una ragazza onesta con la scusa che è stata cameriera. Dopo tutto, il padre del signor Julien non è che un carpentiere; e lui stesso, come si guadagnava la vita prima di entrare in questa casa?»
La signora De Rênal non ascoltava più; l’eccesso di felicità le aveva quasi tolto l’uso della ragione. Si fece ripetere più volte che Julien aveva rifiutato in modo così definitivo da non lasciare adito a un più saggio ripensamento.
«Voglio fare un ultimo tentativo» disse alla cameriera. «Parlerò io con il signor Julien.»
E il giorno seguente, dopo colazione, la signora De Rênal si concesse la deliziosa voluttà di perorare la causa della rivale e di vedere la mano e la fortuna di Elisa costantemente rifiutate per un’ora.
A poco a poco Julien abbandonò le risposte compassate e alla fine ribatté con spirito alle sagge esortazioni della sua padrona. Lei non poté resistere all’ondata di felicità che invadeva la sua anima, dopo tanti giorni di disperazione. Si sentì male davvero. Quando si fu ripresa e ben sistemata nella sua camera, mandò via tutti. Era profondamente stupita.
“Sono forse innamorata di Julien?” pensò alla fine.
Quella scoperta, che in un altro momento l’avrebbe gettata nei rimorsi e in un’agitazione profonda, non fu per lei che uno spettacolo singolare, ma quasi irrilevante. La sua anima, esausta per tutto ciò che aveva provato fino ad allora, non aveva più sensibilità per le passioni.
Volle alzarsi, ma piombò in un sonno profondo; quando si svegliò, non si sentì spaventata quanto avrebbe dovuto. Era troppo felice per potersi turbare di qualcosa. Ingenua e innocente, quella buona provinciale non si era mai torturata l’anima nel tentativo di strapparne un po’ di sensibilità per qualche nuova sfumatura di sentimento o di dolore. Prima dell’arrivo di Julien, interamente assorbita da tutte quelle incombenze che, lontano da Parigi, sono il destino di una buona madre di famiglia, la signora De Rênal pensava alle passioni come noi pensiamo alla lotteria: una truffa sicura e la felicità, ma solo per i pazzi.
Suonò la campana del pranzo. Arrossì molto nell’udire la voce di Julien, che accompagnava i ragazzi. Divenuta un po’ più abile, da quando amava, si lamentò di uno spaventoso mal di testa per spiegare il suo rossore.
«Ecco come son fatte le donne» le rispose il marito con una sonora risata. «Vi è sempre qualcosa da aggiustare, in quei meccanismi!»
Per quanto abituata a un tale genere di spirito, fu urtata da quel tono di voce. Per sottrarsene, guardò il volto di Julien. Se anche fosse stato l’uomo più brutto del mondo, in quel momento le sarebbe piaciuto.
Attento a copiare le usanze della gente di corte, il signor De Rênal, fin dagli inizi della primavera, si stabilì a Vergy, villaggio reso celebre dalla tragica avventura di Gabrielle.2 Ad alcune centinaia di passi dalle rovine pittoresche dell’antica chiesa gotica, il sindaco possiede un vecchio castello con quattro torri e un giardino disegnato come quello delle Tuileries, con molte siepi di bosso e viali di castagni, che vengono potati due volte l’anno. Un campo vicino, piantato a meli, serviva da passeggiata. In fondo al frutteto si innalzavano una decina di magnifici noci: il loro immenso fogliame sfiorava gli ottanta piedi.
«Ognuno di questi maledetti noci» osservava il sindaco, quando la moglie li ammirava «mi costa il raccolto di mezzo iugero, perché sotto la loro ombra il grano non cresce.»
La vista della campagna sembrò nuova alla signora De Rênal; la sua ammirazione arrivava fino all’entusiasmo. Il sentimento dal quale era animata le dava spirito e risolutezza. Due giorni dopo l’arrivo a Vergy, poiché il marito era tornato in città per gli affari del municipio, lei assunse alcuni operai a proprie spese. Julien le aveva suggerito l’idea di un vialetto cosparso di sabbia che, passando per il frutteto e sotto i grandi noci, permettesse ai ragazzi di passeggiarvi fin dal mattino, senza che le loro scarpe si bagnassero di rugiada. L’idea fu messa in pratica meno di ventiquattr’ore dopo essere stata concepita. La signora passò allegramente tutta la giornata con Julien, a dirigere gli operai.
Quando il sindaco di Verrières ritornò dalla città, fu molto stupito di trovare il viale già fatto. Il suo arrivo sorprese anche la moglie, che aveva dimenticato l’esistenza del marito. In seguito, per due mesi, lui parlò con malumore dell’audacia avuta nel compiere, senza chiedere il suo consiglio, una riparazione così importante; ma la moglie l’aveva fatta a proprie spese e ciò lo consolava un poco.
Lei passava le giornate a correre con i ragazzi nel frutteto e a dare la caccia alle farfalle. Avevano costruito grandi cappucci di garza chiara, con i quali catturavano i poveri lepidotteri, termine barbaro che Julien aveva insegnato alla signora De Rênal. Lei aveva fatto venire da Besançon il bel libro di Godart3 e Julien le descriveva i costumi singolari di quei poveri insetti, che venivano fissati senza pietà con degli spilli su un quadro di cartone, preparato anch’esso da Julien.
Finalmente, il precettore e la signora avevano trovato un argomento di conversazione, e lui non fu più sottoposto allo spaventoso supplizio che gli davano i momenti di silenzio.
Si parlavano continuamente e con intensità, ma sempre di cose molto innocenti. Quella vita attiva, vivace e allegra, piaceva a tutti tranne che a Elisa, sovraccarica di lavoro. «Neppure a carnevale,» diceva «quando c’è il ballo a Verrières, la signora ha avuto tanta cura del suo abbigliamento. Si cambia d’abito due o tre volte al giorno.»
Pur non volendo adulare nessuno, bisogna riconoscere che la pelle della signora De Rênal era bellissima, e lei si era fatta confezionare alcuni vestiti che le lasciavano le braccia e il seno molto scoperti. Era molto ben fatta e quegli abiti le stavano a meraviglia.
«Non siete mai stata così giovane, signora» le dicevano i suoi amici di Verrières che venivano a pranzo a Vergy. (È un modo di dire del paese.)
Una cosa strana, che troverà poco credito fra noi, è che la signora De Rênal si abbandonava a tante cure senza un’intenzione cosciente. Vi trovava piacere e, senza nemmeno pensarci, tutto il tempo che non trascorreva a cacciare le farfalle con i ragazzi e con Julien lo dedicava a confezionarsi dei vestiti con Elisa. Il suo unico viaggio a Verrières fu dettato dal desiderio di comprare nuovi abiti estivi, che erano appena giunti da Mulhouse.
Nel ritorno, condusse con sé a Vergy una sua giovane parente. Dopo il matrimonio, si era legata a poco a poco in amicizia con la signora Derville, che era stata anche sua compagna al Sacro Cuore.
La signora Derville rideva molto di quelle che definiva le idee pazze della cugina. «Da sola non ci arriverei mai» diceva. Di queste trovate improvvise, che a Parigi si sarebbero chiamate bizzarrie, la signora De Rênal si vergognava, come di sciocchezze, quando era con il marito; ma la presenza della signora Derville le dava coraggio. Dapprima le esponeva i suoi progetti con voce timida, ma, quando le due donne rimanevano a lungo sole, lo spirito della signora De Rênal si animava, e una lunga mattinata solitaria trascorreva in un lampo, lasciando le due amiche molto allegre. Quella volta, però, l’assennata signora Derville trovò la cugina molto meno brillante, ma assai più felice.
Dal canto suo, Julien – da quando era giunto in campagna – aveva vissuto proprio come un ragazzo, lieto quanto i suoi allievi di correre dietro le farfalle. Dopo tante costrizioni e tanta abile politica, solo, lontano dagli sguardi degli altri e non temendo, per istinto, la signora De Rênal, si abbandonava al piacere di vivere, così acuto a quell’età, in mezzo alle più belle montagne del mondo.
Fin dall’arrivo della signora Derville, sembrò a Julien che lei gli fosse amica: si affrettò a mostrarle il panorama che si gode dall’estremità del nuovo viale sotto i grandi noci; e in realtà, esso è uguale, se non superiore, a quanto di più bello possano offrire la Svizzera e i laghi italiani. Salendo il ripido pendio che comincia a pochi passi da lì, si arriva presto ai profondi burroni circondati da boschi di querce, che si protendono quasi fin sul fiume. Sulle cime di quelle rocce tagliate a picco, Julien, felice, libero, e anche qualcosa di più, re della casa, conduceva le due amiche e godeva della loro ammirazione per quei panorami sublimi.
«È come la musica di Mozart» diceva la signora Derville.
L’invidia dei suoi fratelli, la presenza di un padre dispotico e rabbioso avevano sciupato, agli occhi di Julien, le campagne dei dintorni di Verrières. A Vergy, non trovava quei ricordi amari: per la prima volta in vita sua non vedeva nemici. Quando il signor De Rênal era in città, cosa che capitava spesso, osava leggere; ben presto, invece di farlo durante la notte, e per di più con la preoccupazione di dover nascondere il lume sotto un vaso da fiori rovesciato, poté abbandonarsi al sonno; così, di giorno, nell’intervallo tra le lezioni dei ragazzi, se ne andava su quelle rocce con il libro,4 unica regola della sua condotta e oggetto dei suoi entusiasmi. Trovava in quel volume, contemporaneamente, gioia, estasi e, nei momenti di scoraggiamento, consolazione.
Alcune cose che Napoleone dice sulle donne e molte considerazioni sul valore dei romanzi in voga sotto il suo regno gli fornirono, allora per la prima volta, idee che qualunque altro giovane della sua età avrebbe già avuto da molto tempo.
Venne il grande caldo. Si prese l’abitudine di passare le serate sotto un immenso tiglio a pochi passi dalla casa. Lì, l’oscurità era profonda. Una sera Julien discorreva con animazione, godendo del delizioso piacere di parlare bene e a giovani donne: nel gesticolare, sfiorò la mano che la signora De Rênal teneva appoggiata allo schienale di una di quelle sedie di legno dipinto che si usano nei giardini.
La mano si ritrasse immediatamente; ma Julien pensò che fosse suo dovere fare in modo che non si ritraesse più quando lui la toccava. L’idea di quel dovere da compiere e del ridicolo, o meglio, del senso di inferiorità in cui sarebbe precipitato se non vi fosse riuscito, allontanò di colpo ogni piacere dal suo cuore.
1 – “Don Juan”: «Allora vi furono sospiri, più profondi perché repressi, / e sguardi furtivi, più dolci perché nascosti, / e rossori di fuoco, sebbene non vi fosse peccato.» (George Byron, Don Giovanni, canto I, strofa 74).
2 – Vergy… Gabrielle: allusione alla tragica storia della castellana di Vergy, raccontata in un anonimo poemetto francese del Duecento.
3 – il bel libro di Godart: riferimento all’incompiuta Storia naturale dei lepidotteri della Francia dell’entomologo Jean-Baptiste Godart (1775-1825).
4 – il libro: si tratta del Memoriale di Sant’Elena (1823) di Napoleone, scritto in realtà da Emmanuel De Las Cases.