XXII
Comportamenti sociali nel 1830

La parola è stata data all’uomo per nascondere il suo pensiero.

R.P. Malagrida1

Appena giunto a Verrières, Julien si rimproverò il suo comportamento ingiusto verso la signora De Rênal. “L’avrei disprezzata come una donnicciola se, per debolezza, non fosse riuscita nella sua finzione con il marito! Se la cava, invece, come una diplomatica, e io simpatizzo con il vinto, che è il mio nemico. C’è un po’ di meschinità borghese in questo. La mia vanità è ferita perché il signor De Rênal è un uomo! Illustre e vasta corporazione alla quale ho l’onore di appartenere. Non sono altro che uno sciocco.”

L’abate Chélan aveva rifiutato l’ospitalità che i liberali più in vista del paese gli avevano offerto a gara, quando la sua destituzione lo aveva scacciato dal presbiterio. Le due stanze che aveva preso in affitto erano ingombre di libri. Julien, volendo mostrare a Verrières che cosa fosse un prete, andò a prendere da suo padre una dozzina di tavole di abete, che trasportò lui stesso sulle spalle lungo tutta la strada principale. Si fece prestare gli arnesi da un suo ex compagno e, in poco tempo, costruì una specie di libreria nella quale sistemò i libri dell’abate Chélan.

«Ti credevo corrotto dalla vanità mondana» gli diceva il vecchio piangendo di gioia. «Questo tuo gesto compensa bene la puerilità di quell’uniforme da guardia d’onore che ti ha creato tanti nemici.»

Il signor De Rênal aveva ordinato a Julien di prendere alloggio in casa sua. Nessuno sospettò quello che era accaduto. Il terzo giorno dopo il suo arrivo, Julien vide salire fino alla sua camera nientemeno che il sottoprefetto, il signor de Maugiron. Solo dopo due ore interminabili di chiacchiere insipide e di grandi lamentazioni sulla malvagità degli uomini, sulla scarsa probità delle persone incaricate dell’amministrazione pubblica, sui pericoli della povera Francia eccetera, Julien capì finalmente lo scopo di quella visita. Erano già sul pianerottolo delle scale e il povero precettore, quasi in disgrazia, riaccompagnava con la dovuta deferenza il futuro prefetto di qualche felice dipartimento, quando a quest’ultimo piacque di occuparsi della sorte di Julien, di lodare la sua moderazione negli affari economici eccetera eccetera. Alla fine, il signor de Maugiron, stringendoselo al petto con aria molto paterna, gli propose di lasciare il signor De Rênal e di entrare in casa di un funzionario che aveva dei figli da educare e che, come il re Filippo, ringraziava il cielo, non tanto di averglieli dati, quanto di averli fatti nascere nel paese del signor Julien. Il loro precettore avrebbe goduto di uno stipendio di ottocento franchi annui, pagabili non a mesi, il che non sarebbe stato signorile, affermò il signor de Maugiron, ma a trimestri e sempre anticipati.

Adesso toccava a Julien, che, da un’ora e mezzo, aspettava annoiato di poter parlare. La sua risposta fu perfetta e soprattutto lunga come una lettera pastorale; lasciava capire tutto e non diceva nulla chiaramente. Vi si sarebbero potuti scorgere, contemporaneamente, rispetto per il signor De Rênal, venerazione per il popolo di Verrières, riconoscenza per l’illustre sottoprefetto. E quel sottoprefetto, stupito di trovare uno più gesuita di lui, tentò invano di ottenere qualcosa di preciso. Julien, molto soddisfatto, colse l’occasione per esercitarsi e ripeté la stessa risposta con altre parole. Mai ministro eloquente, che voglia infiacchire la fine di una seduta nella quale la Camera ha l’aria di volersi risvegliare, ha detto meno cose con un maggior numero di parole. Appena de Maugiron se ne fu andato, Julien si mise a ridere come un pazzo.

Per approfittare della sua vena gesuitica, scrisse una lettera di nove pagine al signor De Rênal, facendogli il resoconto di tutto ciò che gli era stato detto e domandandogli umilmente consiglio. “Quel briccone non mi ha detto, però, il nome della persona che fa l’offerta! Sarà il signor Valenod, che, nel mio esilio a Verrières, vede l’effetto della sua lettera anonima.”

Spedito il messaggio, Julien, contento come un cacciatore che, alle sei del mattino di una bella giornata d’autunno, sbuchi in una pianura ricca di selvaggina, uscì per andare a chiedere consiglio all’abate Chélan. Ma, prima di arrivare a casa del buon curato, il cielo, che voleva dargli altre soddisfazioni, mise sui suoi passi il signor Valenod, al quale non nascose di avere il cuore straziato. Un povero giovane come lui doveva abbandonarsi interamente alla vocazione che il cielo gli aveva messo nell’anima; ma la vocazione non è tutto in questo basso mondo. Per lavorare convenientemente nella vigna del Signore e non essere del tutto indegno di tanti dotti collaboratori, occorreva l’istruzione; bisognava trascorrere due anni molto dispendiosi nel seminario di Besançon. Diventava, perciò, indispensabile fare delle economie, cosa che era molto più facile con uno stipendio di ottocento franchi pagati a trimestri che con seicento franchi mangiati mese per mese. D’altra parte il cielo, mettendo Rênal accanto ai ragazzi, e soprattutto ispirandogli nei loro confronti un affetto speciale, non pareva volesse indicargli che non era opportuno abbandonare quel compito per un altro?…

Julien raggiunse un tale grado di perfezione in quel genere di eloquenza, sostituitasi alla rapidità d’azione durante l’Impero, che finì con l’essere annoiato lui stesso dal suono delle sue parole.

Ritornato a casa, trovò un servo del signor Valenod, in alta livrea, che lo aveva cercato in tutta la città per consegnargli un biglietto d’invito a pranzo per quel giorno stesso.

Julien non era mai andato in casa di quell’uomo; solo alcuni giorni prima non pensava ad altro che al modo di somministrargli una buona dose di legnate senza finire davanti alla polizia correzionale. Quantunque l’ora del pranzo fosse fissata per l’una, il giovane ritenne più rispettoso presentarsi a mezzogiorno e mezzo nell’ufficio del direttore dell’ospizio. Lo trovò che ostentava la propria importanza in mezzo a un gran numero d’incartamenti. I suoi folti favoriti neri, l’enorme quantità di capelli, il berretto greco portato di sghimbescio in cima alla testa, l’enorme pipa, le pantofole ricamate, le massicce catene d’oro incrociate in tutti i sensi sul suo petto e tutto l’apparato da finanziere di provincia che si crede uomo irresistibile, non incutevano a Julien nessuna soggezione; più che mai, pensava alle bastonate che gli doveva.

Sollecitò l’onore di essere presentato alla signora Valenod; ma questa si stava vestendo e non poteva riceverlo. In compenso, Julien ebbe il vantaggio di assistere alla toeletta del direttore. Si recarono, quindi, nell’appartamento della signora, che gli presentò i bambini con le lacrime agli occhi. Quella signora, una delle più ragguardevoli di Verrières, aveva un grosso volto maschile imbellettato per quella cerimonia, nella quale profuse tutto il pathos materno.

Julien pensava alla signora De Rênal. La sua diffidenza gli permetteva di essere sensibile solo ai ricordi generati dai contrasti; e allora questi lo dominavano fino all’intenerimento. Quella disposizione di spirito fu accentuata dall’aspetto della casa di Valenod. Gliela fecero visitare. Tutto in essa era ostentato e nuovo, e i padroni di casa gli dicevano il prezzo di ogni mobile. Julien però vi trovava qualcosa di ignobile, che sapeva di denaro rubato. Tutti, persino i domestici, avevano l’aria di volersi difendere dal disprezzo.

Giunsero, con le mogli, l’esattore delle tasse, il ricevitore delle imposte indirette, il comandante della gendarmeria e due o tre altri funzionari pubblici. Vennero, poi, alcuni ricchi liberali. Fu annunciato il pranzo. A Julien, già molto mal disposto, venne fatto di pensare che, dall’altra parte del muro di quella sala da pranzo, si trovassero dei poveri detenuti, sulla cui razione di carne si era, forse, lesinato per comperare tutto quel lusso di cattivo gusto con il quale volevano stordirlo.

“Forse in questo momento hanno fame” pensava. La gola gli si strinse. Gli fu impossibile mangiare e, quasi, parlare. E fu molto peggio un quarto d’ora dopo. Si udivano, di tanto in tanto, i versi di una canzone popolare e, bisogna riconoscerlo, un po’ ignobile, cantata da uno dei reclusi. Il signor Valenod guardò uno dei suoi servi in alta livrea: costui uscì e, subito, il canto cessò. In quel momento un domestico offriva a Julien del vino del Reno in un bicchiere verde e la signora Valenod aveva cura di fargli osservare che quel vino costava nove franchi la bottiglia comperata sul posto. Julien, tenendo in mano il suo bicchiere verde, disse al signor Valenod:

«Non cantano più quella canzonaccia».

«Diamine, lo credo bene!» rispose il direttore trionfante. «Ho fatto imporre il silenzio a quegli straccioni.»

Quella parola fu troppo forte per Julien: aveva le maniere, ma non ancora il cuore della sua condizione sociale. Nonostante tutta la sua ipocrisia così spesso esercitata, sentì una grossa lacrima scorrergli lungo la gota.

Tentò di nasconderla con il bicchiere verde; ma gli fu assolutamente impossibile far onore al vino del Reno. “Impedir loro di cantare!” pensava. “E tu, mio Dio, lo sopporti?”

Fortunatamente, nessuno osservò quella sua commozione di cattivo gusto. Il ricevitore delle imposte aveva intonato una canzone realista. Durante il frastuono del ritornello cantato in coro, la coscienza di Julien mormorava: “Ecco la sporca fortuna alla quale arriverai, e non potrai goderne se non a questa condizione e con una simile compagnia. Avrai, forse, un posto da ventimila franchi; ma bisognerà che, mentre ti rimpinzi di carne, tu impedisca al povero prigioniero di cantare; offrirai pranzi con il denaro che avrai rubato sulla sua miserabile razione e, durante il tuo pranzo, lui si sentirà ancora più infelice! O Napoleone! Com’era dolce ai tuoi tempi salire ai fasti della fortuna attraverso i pericoli di una battaglia! Adesso, invece, bisogna accrescere vilmente il dolore dei più miserabili!”

Confesso che la debolezza dimostrata da Julien in questo monologo mi dà una scarsa opinione di lui. Sarebbe degno di essere il collega di quei cospiratori in guanti gialli, che pretendono di cambiare tutto il modo di vivere di un grande paese e non vogliono doversi rimproverare nemmeno il più piccolo graffio.

Julien fu richiamato violentemente alla parte da sostenere. Non lo avevano invitato a pranzo in così buona compagnia per fantasticare e tacere.

Un fabbricante di tele dipinte in pensione, membro corrispondente dell’Accademia di Besançon e di quella di Uzès, gli rivolse la parola da un capo all’altro della tavola per chiedergli se fosse vero quanto si diceva in giro sui suoi progressi sbalorditivi nello studio del Nuovo Testamento.

Un silenzio profondo si fece all’improvviso. Un Nuovo Testamento in latino si trovò come per incanto tra le mani del dotto membro delle due Accademie. Alla risposta di Julien, venne letto a caso un mezzo versetto. Lui continuò: la memoria gli fu fedele e quel prodigio fu ammirato con tutta la rumorosa energia della fine di un pranzo. Julien guardava i volti coloriti delle signore. Molti non erano brutti. Aveva notato, tra le altre, la moglie di quel ricevitore che prima aveva cantato.

«Ho vergogna, in verità, di parlare così a lungo in latino davanti a queste signore» disse guardandola. «Se il signor Rubigneau (era il membro delle due Accademie) vuole avere la bontà di leggere a caso una frase latina, invece di rispondere continuando il testo latino, proverò a tradurla a prima vista.»

Questa seconda prova portò la sua gloria al culmine.

C’erano lì parecchi liberali ricchi, ma felici padri di figli in grado di ottenere borse di studio e perciò subito convertiti dopo l’ultima missione.2 Nonostante questo tratto di fine politica, il signor De Rênal non aveva mai voluto riceverli in casa sua. Quelle brave persone, che conoscevano Julien soltanto di fama e per averlo visto a cavallo il giorno dell’entrata del re di…, erano i suoi più rumorosi ammiratori. “Ma quando questi sciocchi si stancheranno di ascoltare questo linguaggio biblico del quale non capiscono niente?” pensava Julien. Invece, quello stile li divertiva per la sua stranezza. Ne ridevano. Tuttavia fu Julien a stancarsi.

Si alzò lentamente, mentre suonavano le sei, e parlò di un capitolo della nuova teologia di Ligorio che doveva imparare per recitarlo il giorno seguente all’abate Chélan. «Perché il mio mestiere» aggiunse in tono mondano «è di far recitare lezioni e di recitarne io stesso.»

Si rise molto, lo si ammirò: tale è lo spirito in uso a Verrières. Julien era già in piedi; tutti si alzarono: nonostante l’etichetta, tale è la forza del genio. La signora Valenod lo trattenne ancora un quarto d’ora. Bisognava che udisse i ragazzi recitare il catechismo. I bambini fecero le più bizzarre confusioni delle quali lui solo si accorse. Si guardò dal rivelarle. “Che ignoranza dei princìpi della religione!” pensava.

Si stava finalmente accomiatando, e credeva di potersene andare, quando dovette sorbirsi una favola di La Fontaine.

«Questo autore è molto immorale» disse alla signora Valenod. «Una certa favola su messer Jean Chouart osa far cadere il ridicolo su quanto vi è di più venerabile. È vivamente biasimato dai migliori commentatori.»

Prima di uscire, Julien ricevette quattro o cinque inviti a pranzo. «Quel giovane fa onore alla provincia» esclamarono in coro i convitati molto allegri. Giunsero perfino a parlare di una pensione da votarsi sui fondi comunali, per metterlo in grado di continuare gli studi a Parigi.

Mentre quell’idea imprudente echeggiava nella sala da pranzo, Julien aveva raggiunto alla svelta la porta. “Ah, canaglie! Canaglie!” mormorò tra sé due o tre volte, abbandonandosi al piacere di respirare l’aria fresca.

Si sentiva aristocratico in quel momento, lui che per molto tempo aveva provato tanto dispetto per il sorriso sdegnoso e l’altera superiorità che scopriva al fondo di tutte le gentilezze che gli erano rivolte in casa De Rênal. Non poté esimersi dal sentire l’estrema differenza. “Dimentichiamo pure” pensava andandosene “che si tratta di denaro rubato ai poveri detenuti, e anche che si proibisce loro il canto! Il signor De Rênal ha mai pensato di dire a un suo ospite il prezzo di ogni bottiglia di vino che gli offre? E quel signor Valenod, nell’enumerazione delle sue proprietà che ripete senza tregua, non può parlare della casa, dei terreni eccetera, se è presente la moglie, senza dire: la tua casa, le tue terre.”

Quella signora, evidentemente così sensibile al piacere della proprietà, aveva fatto durante il pranzo una scenata orribile a un domestico che aveva rotto un calice e scompagnato la dozzina. E quel domestico aveva risposto con estrema insolenza.

“Che gente!” pensava Julien. “Anche se mi dessero la metà di tutto ciò che rubano, non vorrei vivere con loro. Un bel giorno mi tradirei; non potrei contenere il disprezzo che mi ispirano.”

Tuttavia bisognò, secondo gli ordini della signora De Rênal, partecipare a diversi pranzi dello stesso genere. Julien divenne di moda: gli perdonavano l’uniforme di guardia d’onore, o meglio, quell’imprudenza era la vera causa dei suoi successi. In breve, a Verrières, non vi fu questione più importante che quella di vedere chi sarebbe stato il vincitore nella lotta fra il signor De Rênal e il direttore dell’ospizio per assicurarsi quel giovane erudito. Quei signori formavano, con l’abate Maslon, un triumvirato che, da molti anni, tiranneggiava la città. Il sindaco era invidiato; i liberali avevano motivi per lagnarsi di lui; ma, dopo tutto, lui era nobile e fatto per la supremazia; mentre Valenod non aveva ereditato da suo padre neppure seicento franchi di rendita. Per lui si era passati dalla compassione ispirata dal brutto abito verde, che tutti gli avevano visto portare in gioventù, all’invidia per i cavalli normanni, le catene d’oro, i vestiti giunti da Parigi e tutta la sua attuale prosperità.

In quel mondo nuovo per lui, Julien credette di scoprire un uomo onesto: un geometra che si chiamava Gros ed era ritenuto un giacobino. Ma, poiché si era ripromesso di dire solo quelle cose che a lui stesso sembravano false, fu obbligato ad attenersi a qualche sospetto sul conto di Gros.

Julien riceveva da Vergy grossi pacchi di compiti. Gli si consigliava di recarsi spesso da suo padre e lui si adattava a quella triste necessità. Stava, insomma, risistemando abbastanza bene la sua reputazione quando, una mattina, fu molto sorpreso nel sentirsi destato da due mani che gli si posavano sugli occhi.

Era la signora De Rênal, che aveva fatto una corsa in città e che, lasciati i ragazzi occupati con il coniglietto favorito che si erano portati da Vergy, salendo gli scalini a quattro a quattro, era giunta in camera di Julien un momento prima dei figli. Quel momento fu delizioso, ma brevissimo. Quando i ragazzi arrivarono con il coniglio che volevano mostrare al loro amico, la signora era già scomparsa. Julien fece buona accoglienza a tutti, anche al coniglio. Gli sembrava di ritrovare la sua famiglia; sentì che amava quei ragazzi, che gli piaceva chiacchierare con loro. Era stupito dalla dolcezza delle loro voci, dalla semplicità e dalla nobiltà dei loro modi. Aveva bisogno di liberare la propria fantasia da tutti quei comportamenti volgari, da tutti i pensieri sgradevoli in mezzo ai quali respirava a Verrières. Si trattava sempre del timore di mancare in qualcosa, sempre del lusso e della miseria che si accapigliavano. Le persone in casa delle quali pranzava, facevano – a proposito del loro arrosto – confidenze umilianti per loro e nauseanti per chi le ascoltava.

«Voialtri nobili avete ragione di essere orgogliosi» diceva alla signora De Rênal. E le descriveva tutti i pranzi che aveva subito.

«Siete di moda, dunque!» E rideva di cuore pensando al rossetto che la signora Valenod si sentiva obbligata a darsi ogni volta che attendeva Julien. «Credo che abbia qualche mira su di voi» aggiungeva.

La colazione fu deliziosa. La presenza dei ragazzi, benché imbarazzante in apparenza, accresceva in realtà la felicità di tutti. Quei poveri bambini non sapevano come manifestare la loro gioia di rivedere Julien. I domestici non avevano mancato di raccontar loro che gli erano stati offerti duecento franchi di più per educare i piccoli Valenod.

A metà della colazione, Stanislas-Xavier, ancora pallido per la grave malattia, domandò improvvisamente alla madre quanto valessero le sue posate d’argento e la coppa nella quale stava bevendo.

«Perché?»

«Voglio venderli e darne il ricavato al signor Julien affinché non passi per scemo a stare con noi.»

Julien lo abbracciò con le lacrime agli occhi. La madre piangeva, mentre il precettore, che si era preso il bimbo sulle ginocchia, gli spiegava che non bisognava servirsi di quell’espressione, la quale, usata in quel senso, è un modo di dire da lacchè. E, vedendo il piacere che procurava alla signora De Rênal, cercò di spiegare con esempi pittoreschi, che divertivano i ragazzi, che cosa significasse passare per scemo.

«Capisco,» disse Stanislas «è come la storia del corvo che commette la sciocchezza di lasciar cadere il suo pezzo di formaggio, e della volpe, che da buona adulatrice, se ne impossessa.»

La signora De Rênal, pazza di gioia, copriva di baci i suoi figli, cosa che non poteva fare senza appoggiarsi un poco a Julien.

Improvvisamente la porta si aprì: era il signor De Rênal. Il suo volto severo e malcontento fece uno strano contrasto con quella tenera felicità che lui stava scacciando. Sua moglie impallidì: si sentiva incapace di negare anche la minima cosa. Julien prese subito la parola e, ad alta voce, raccontò al sindaco l’idea di Stanislas che voleva vendere la coppa d’argento. Era sicuro che quella storiella sarebbe stata accolta male. Prima di tutto, il signor De Rênal, alla sola parola «argento», aggrottava le sopracciglia, per buona abitudine. «L’accenno a questo metallo» soleva dire «è sempre il preambolo a qualche tentativo contro la mia borsa.» Ma in questo caso non si trattava solo di una questione di denaro: c’era qualche sospetto in più. L’aria di felicità che animava la sua famiglia in sua assenza non era fatta per aggiustare le cose in un uomo dominato da una vanità tanto suscettibile. Poiché la moglie gli vantava la maniera piena di grazia e di spirito con la quale Julien dava nuove idee ai loro ragazzi:

«Sì! Sì! Lo so, mi rende odioso ai miei figli. Per lui è facile essere cento volte più amabile di me, che, in fondo, sono il padrone. Tutto, in questo secolo, tende a gettare una luce odiosa sull’autorità legittima. Povera Francia!».

La signora De Rênal non indugiò a esaminare le sfumature dell’accoglienza che le faceva il marito. Aveva intravisto la possibilità di passare dodici ore con Julien. Doveva fare molte spese in città e dichiarò che voleva assolutamente andare a pranzo in un cabaret e, qualunque cosa dicesse o facesse il marito, rimase ferma su quel proposito. I ragazzi erano entusiasti al solo udire la parola cabaret, che il moralismo di oggi pronuncia con tanto piacere.

Il signor De Rênal lasciò la moglie nel primo negozio di moda in cui lei entrò, per andare a fare alcune visite. Ritornò ancora più scontroso del mattino: era convinto che tutta la città si occupasse di lui e di Julien. Veramente, nessuno gli aveva ancora lasciato sospettare alcun lato offensivo nelle chiacchiere della gente. Quelle che erano state riportate al signor sindaco miravano solo a sapere se Julien sarebbe rimasto in casa sua a seicento franchi, o se ne avrebbe accettati ottocento offertigli dal direttore dell’ospizio.

Il signor Valenod, che incontrò il sindaco, mantenne verso di lui un contegno riservato. Quel modo di comportarsi non era privo di abilità; in provincia c’è poca finezza: le sensazioni sono così rare che vengono assaporate fino in fondo.

Il direttore dell’ospizio era ciò che, a dieci leghe da Parigi, si chiama uno zotico: qualcosa tra lo sfrontato e il grossolano. La sua esistenza, che dal 1815 era passata di trionfo in trionfo, aveva rafforzato le sue particolari doti. Regnava, per così dire, a Verrières, sotto gli ordini del signor De Rênal; ma era molto più attivo di lui, non arrossiva di nulla, si immischiava in tutte le cose, andava, scriveva, parlava, dimenticava le umiliazioni, non aveva alcuna pretesa personale. Perciò era riuscito a controbilanciare il credito del sindaco agli occhi del potere ecclesiastico. In un certo senso il signor Valenod aveva detto ai droghieri del paese: datemi i due più sciocchi tra di voi; agli uomini di legge: indicatemi i due più ignoranti; agli ufficiali sanitari: designatemi i due più ciarlatani. E, riuniti i peggiori di ogni mestiere, aveva proposto loro: regnamo insieme.

I modi di quelle persone urtavano il signor De Rênal. La grossolanità di Valenod non rimaneva offesa da nulla, neppure dalle smentite pubbliche che l’abatino Maslon non gli risparmiava.

Tuttavia, in mezzo a tanta prosperità, Valenod aveva bisogno di difendersi, con piccole insolenze private, contro le grandi verità che, come lui stesso ben capiva, tutti avevano il diritto di rinfacciargli. La sua attività era raddoppiata dopo le apprensioni che erano sorte in lui in seguito alla visita del signor Appert; era andato tre volte a Besançon; scriveva molte lettere che affidava a ogni corriere in partenza; ne spediva altre per mezzo di sconosciuti che si recavano in casa sua sul far della notte. Forse aveva sbagliato nel far destituire il vecchio curato Chélan, perché quel passo vendicativo lo aveva fatto considerare come un individuo profondamente malvagio da molte bigotte di buona famiglia. D’altra parte, quel favore ottenuto lo aveva messo alla dipendenza assoluta del gran vicario Frilair, dal quale riceveva strani incarichi.

La sua politica era a questo punto, quando cedette al piacere di scrivere una lettera anonima. Per colmo d’imbarazzo, la moglie gli dichiarò che voleva Julien in casa sua; la sua vanità se ne era invaghita.

In tale situazione, il signor Valenod prevedeva una scena decisiva tra lui e il suo ex alleato De Rênal. Questi gli rivolgeva parole dure, cosa che lo lasciava indifferente; ma avrebbe potuto scrivere a Besançon e anche a Parigi. Il cugino di qualche ministro poteva piombare all’improvviso a Verrières e prendersi l’ospizio.

Il signor Valenod pensò di avvicinarsi ai liberali e per questa ragione parecchi di loro erano invitati al pranzo durante il quale Julien aveva recitato in latino. Quei liberali lo avrebbero validamente sostenuto contro il sindaco. Ma potevano sopraggiungere le elezioni, ed era troppo evidente che la direzione dell’ospizio e uno scarso successo elettorale sarebbero stati incompatibili.

Il racconto di quegli intrighi politici, molto bene intuiti dalla signora De Rênal, era stato fatto a Julien mentre lui le dava il braccio per andare da un negozio all’altro e, a poco a poco, li aveva attirati verso il Corso della Fedeltà, dove passarono diverse ore tranquilli come a Vergy.

Durante questo tempo il signor Valenod tentava di allontanare un incontro decisivo con il suo antico superiore, assumendo un’aria fiera nei suoi confronti. Quel giorno il sistema riuscì, ma accrebbe il malumore del sindaco.

Mai la vanità, alle prese con tutto ciò che il meschino amore del denaro può avere di più aspro e gretto, ha messo un uomo in una condizione più miserevole di quella in cui si trovava il signor De Rênal quando entrò nel cabaret. Mai, al contrario, i suoi figli erano stati più felici e più allegri. Quel contrasto finì per indisporlo completamente.

«Sono di troppo nella mia famiglia, a quanto vedo!» disse, entrando, con un tono che volle rendere autorevole.

Per tutta risposta, la moglie lo trasse in disparte e gli espose la necessità di allontanare Julien. Le ore di felicità che aveva ritrovato le ridavano la disinvoltura e la fermezza necessarie per mettere in pratica il piano che meditava da quindici giorni. Ma un’altra cosa finiva per scombussolare del tutto il povero sindaco: sapeva che, in città, si scherzava pubblicamente sul suo attaccamento al denaro. Il signor Valenod era generoso come un ladro e lui invece si era comportato in maniera più prudente che brillante nelle cinque o sei ultime questue per la confraternita di San Giuseppe, per la Congregazione della Vergine, per quella del S.S. Sacramento eccetera eccetera eccetera.

Tra i proprietari di terre di Verrières e dei dintorni, abilmente classificati sui registri dei frati questuanti a seconda dell’entità delle loro offerte, si era visto più volte il nome del signor De Rênal occupare l’ultima riga. Inutilmente lui affermava di non guadagnare nulla. Il clero non scherza su questo argomento.

 

1R.P. Malagrida: padre Gabriel Malagrida (1689-1761) fu un missionario gesuita italiano. La citazione non è attribuibile a lui bensì al vescovo Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord (1754-1838).

2ultima missione: allusione alle «missioni interne» fondate dai gesuiti all’epoca della Controriforma e molto attive durante la Restaurazione.