Il piacere di alzar la testa tutto l’anno
è ben pagato da certi quarti d’ora che
bisogna passare.
Casti1
Ma lasciamo quel piccolo uomo alle sue meschine paure. Perché si è preso in casa un uomo di valore, mentre gliene occorreva uno con l’anima di un domestico? Perché non sa scegliere i suoi dipendenti? Secondo la procedura corrente del secolo XIX, quando un essere potente e aristocratico incontra un uomo di cuore, lo uccide, lo esilia, lo imprigiona o lo umilia talmente, che l’altro commette la sciocchezza di morire di dolore. Solo per caso, qui, non è l’uomo di valore a soffrire. La grande disgrazia delle piccole città francesi e dei governi elettivi, come quello di New York, sta nel non poter dimenticare che al mondo esistono persone come il signor De Rênal. In una città di ventimila abitanti, questi uomini creano l’opinione pubblica e l’opinione pubblica è terribile in un paese che ha la costituzione. Un uomo dotato di un’anima nobile, generosa, e che sia stato vostro amico, ma che abita a cento miglia di distanza, vi giudica attraverso l’opinione pubblica della vostra città, la quale è creata dagli sciocchi che il caso ha fatto nascere nobili, ricchi e moderati. Guai a chi si distingue!
Subito dopo pranzo i De Rênal partirono per Vergy; ma due giorni dopo, Julien vide ritornare a Verrières tutta la famiglia. Non era trascorsa un’ora, quando, con grande stupore, scoprì che la signora De Rênal gli teneva nascosto qualcosa. Interrompeva le conversazioni con il marito appena lo vedeva comparire e pareva quasi desiderare che lui si allontanasse. Julien non se lo fece ripetere due volte. Divenne freddo e riservato; la signora De Rênal se ne accorse e non chiese spiegazioni. “Che stia per darmi un successore?” pensò Julien. “Ieri l’altro era così in intimità con me! Ma si dice che queste grandi dame agiscano così. Fanno come i re: nessuno riceve più premure di un ministro che, tornando a casa, troverà la lettera di congedo.”
Julien osservò che in quelle conversazioni, bruscamente troncate al suo arrivo, si parlava spesso di una grande casa appartenente al comune di Verrières, vecchia, ma ampia e comoda, situata di fronte alla chiesa nel centro commerciale della città. “Che rapporto può esserci tra quella casa e un nuovo amante?” pensava Julien. Nella sua rabbia, si ripeteva quei bei versi di Francesco I che gli sembravano nuovi perché non era passato un mese da quando la signora De Rênal glieli aveva insegnati. Ma, allora, da quanti giuramenti, da quante carezze quei versi erano stati smentiti!
La donna muta spesso,
pazzo chi di lei si fida.
Il signor De Rênal partì con la diligenza per Besançon. Quel viaggio fu deciso in due ore. Il sindaco sembrava molto turbato. Al ritorno, gettò sulla tavola un grosso pacchetto di carta grigia.
«Ecco quello stupido affare!» disse alla moglie.
Un’ora dopo, Julien vide che l’attacchino portava via il grosso pacco. Lo seguì con premura. “Conoscerò il segreto al primo angolo di strada.”
Attendeva, impaziente, dietro l’attacchino che, con un grosso pennello, spalmava di colla il rovescio del manifesto. Appena questo fu attaccato, la curiosità di Julien seppe che si trattava dell’asta per l’affitto di quella grande e vecchia casa della quale si era parlato tanto spesso nelle conversazioni tra il signor De Rênal e sua moglie. L’aggiudicazione era annunciata per il giorno seguente, alle due, nella sala del palazzo comunale, all’estinzione della terza candela. Julien rimase molto deluso. Il termine gli sembrava troppo breve. Come avrebbero avuto il tempo di essere avvertiti tutti i concorrenti? Ma, del resto, quell’avviso che portava la data di quindici giorni prima – e che rilesse da cima a fondo in tre posti diversi – non gli diceva nulla. Andò a vedere la casa da affittare. Il portinaio, che non lo aveva visto avvicinare, stava dicendo misteriosamente a un vicino:
«Bah, fatica sprecata! L’abate Maslon gli ha promesso di fargliela avere per trecento franchi e, poiché il sindaco recalcitrava, è stato chiamato in vescovado dal gran vicario Frilair».
L’arrivo di Julien parve disturbare molto i due amici, che troncarono subito la conversazione.
Julien non mancò all’asta. C’era folla in quella sala male illuminata; ma tutti si squadravano in modo strano. Ogni sguardo era fisso su un tavolo sul quale Julien scorse, in un piatto di stagno, tre mozziconi di candela accesi. L’usciere gridava: «Trecento franchi, signori!».
«Trecento franchi! È troppo grossa» disse sottovoce un uomo al suo vicino. Julien stava proprio tra i due.
«Ne vale più di ottocento; voglio far salire le offerte.»
«È come sputare in aria. Che cosa ci guadagnerai a metterti contro l’abate Maslon, il signor Valenod, il vescovo, il suo terribile gran vicario Frilair e tutta la sua cricca?»
«Trecentoventi franchi» gridò l’altro.
«Brutta bestia!» mormorò il vicino. «Ecco qui, appunto, una spia del sindaco» aggiunse indicando Julien.
Questi si voltò vivacemente per rimbeccare quelle parole; ma i due non facevano più alcuna attenzione a lui. La loro calma lo fece tornare tranquillo. In quel momento la fiamma dell’ultimo pezzetto di candela si spense e la voce strascicata dell’usciere aggiudicò la casa per nove anni al signor de Saint Giraud, capo ufficio alla prefettura di…, per la somma di trecentotrenta franchi.
Appena il sindaco fu uscito dalla sala, cominciarono le chiacchiere. «L’imprudenza di Grogeot frutta trenta franchi di più al Comune» diceva uno.
«Ma il signor de Saint Giraud» rispondeva un altro «si vendicherà di Grogeot, che se ne accorgerà.»
«Che infamia!» diceva un uomo grosso alla sinistra di Julien. «Una casa per la quale io avrei dato ottocento franchi per metterci la mia fabbrica e avrei fatto un buon affare!»
«Bah!» gli rispondeva un fabbricante liberale. «Non è della Congregazione, il signor de Saint Giraud? Non usufruiscono di borse di studio i suoi quattro figlioli? Poveretto! Bisogna che il comune di Verrières gli faccia un assegno supplementare di cinquecento franchi: ecco tutto.»
«E pensare che il sindaco non ha potuto impedirlo!» osservava un terzo. «Anche lui è un reazionario, ma non ruba.»
«Non ruba?» riprese un altro. «Tutto entra in una grande borsa comune e tutto è diviso alla fine dell’anno. Ma ecco lì il piccolo Sorel: andiamocene.»
Julien se ne tornò a casa di pessimo umore. Trovò la signora De Rênal molto triste.
«Venite dall’asta?» gli chiese.
«Sì, signora, e ho avuto l’onore di passare per una spia del signor sindaco.»
«Se mi avesse ascoltato, sarebbe partito per un viaggio.»
In quel momento comparve il signor De Rênal, molto cupo. La cena fu consumata in silenzio. Il sindaco ordinò a Julien di seguire i ragazzi a Vergy. Il viaggio fu triste. La signora De Rênal consolava il marito:
«Dovreste esserci abituato, mio caro».
La sera tutti sedevano in silenzio presso il caminetto: nessuna distrazione all’infuori del crepitio di un ceppo che ardeva. Era uno di quei momenti di tristezza che si verificano nelle famiglie più unite. Uno dei ragazzi esclamò allegramente:
«Suonano alla porta! Suonano alla porta!».
«Per la miseria! Se è il signor de Saint Giraud che viene a importunarmi con il pretesto dei ringraziamenti, gli dirò il fatto suo» esclamò il sindaco. «È troppo grossa! Il suo debito è con il signor Valenod, ma quello compromesso sono io. Che dire, se quei maledetti giornali giacobini s’impadroniranno dell’aneddoto e faranno di me un nonantecinq?»2
Un uomo molto bello, dai grossi favoriti neri, entrava in quel momento preceduto dal domestico.
«Signor sindaco, io sono il signor Geronimo. Ecco una lettera che il cavaliere de Beauvaisis, addetto all’ambasciata di Napoli, mi ha consegnato per voi quando sono partito, solo nove giorni fa» aggiunse il signor Geronimo, in tono allegro, guardando la signora De Rênal. «Il signor de Beauvaisis, vostro cugino e mio buon amico, signora, dice che voi conoscete l’italiano.»
Il buonumore del napoletano cambiò quella serata triste in una serata molto allegra. La signora De Rênal volle assolutamente trattenerlo a cena e mise in movimento tutta la casa. Desiderava a tutti i costi distrarre Julien dall’accusa di spia che, per due volte in quella giornata, aveva udito risuonare alle sue orecchie. Il signor Geronimo era un celebre cantante, uomo di buona compagnia eppure allegrissimo, qualità che, in Francia, non sono più compatibili. Dopo cena cantò un duetto con la signora De Rênal e raccontò storie piacevolissime. All’una dopo mezzanotte, quando Julien li invitò ad andare a letto, i ragazzi protestarono.
«Ancora quella storia!» pregò il maggiore.
«È la mia, signorino» disse Geronimo. «Otto anni fa ero giovane come voi, allievo del Conservatorio di Napoli. Voglio dire che avevo la vostra età, ma non l’onore di essere figlio dell’illustre sindaco della bella città di Verrières.»
Queste parole fecero sospirare il signor De Rênal, che guardò la moglie.
«Il signor Zingarelli» continuò il cantante caricando l’accento italiano, cosa che faceva sbellicare dalle risa i ragazzi «era un maestro eccessivamente severo. Non è amato al Conservatorio; ma vuole che si agisca sempre come se lo si amasse. Io uscivo il più spesso possibile; andavo al piccolo teatro di San Carlino, dove ascoltavo della musica divina; ma, santo cielo! Come fare per mettere insieme gli otto soldi che costa l’ingresso in platea? Una somma enorme» proseguì Geronimo guardando i ragazzi. E questi giù a ridere. «Il signor Giovannone, direttore del San Carlino, mi udì cantare. Avevo sedici anni. “Questo ragazzo è un tesoro” disse, e mi propose:
“Vuoi che ti scritturi, mio caro amico?”.
“E quanto mi darete?”
“Quaranta ducati al mese.” Sono centosessanta franchi, signori miei. Credetti di toccare il cielo con un dito.
“Ma come ottenere” dissi a Giovannone “che il severo Zingarelli mi lasci uscire?”
“Lascia fare a me.”»3
Il maggiore dei ragazzi tradusse la frase, esclamando: «Laissez faire à moi!».
«Appunto, signorino. Il signor Giovannone mi disse: “Prima di tutto, caro, un contrattino”. Firmo e lui mi dà tre ducati. Mai avevo visto tanto denaro. Poi Giovannone mi dice ciò che devo fare. Il giorno dopo chiedo un’udienza al terribile signor Zingarelli. Il suo vecchio domestico mi fa entrare. “Cosa vuoi da me, cattivo soggetto?”
“Maestro,” gli dissi “mi pento delle mie colpe. Non uscirò mai più dal Conservatorio scavalcando il cancello. Studierò con doppia applicazione.”
“Se non temessi di sciupare la più bella voce di basso che abbia mai udito, ti metterei in prigione a pane e acqua per quindici giorni, furfante.”
“Maestro,” continuai “sarò un modello per tutta la scuola, credete a me. Ma vi chiedo una grazia: se qualcuno mi vuole per cantare fuori, rifiutate. Vi prego di dire che non potete.”
“E chi diavolo vuoi che chieda un cattivo soggetto come te? Potrei mai permettere che tu lasci il Conservatorio? Vuoi prenderti gioco di me? Fila! Fila!” disse il maestro cercando di tirarmi una pedata in quel posto. “Altrimenti, attento alla prigione e al pane secco.”
Un’ora dopo, il signor Giovannone si presenta al direttore: “Vengo a chiedervi di fare la mia fortuna” gli dice. “Concedetemi Geronimo. Se lui canta nel mio teatro, quest’inverno potrò maritare mia figlia.”
“Che vuoi fare di quel cattivo soggetto?” rispose Zingarelli. “Io mi oppongo: non lo avrai. E, d’altra parte, anche se io acconsentissi, lui non lascerebbe mai il Conservatorio. Me lo ha giurato poco fa.”
“Se non si tratta di altro che della sua volontà,” disse gravemente Giovannone tirando fuori dalla tasca il mio contratto “ecco qui la sua firma, carta canta!”
Zingarelli, furibondo, si attacca subito al cordone del campanello: “Cacciate Geronimo dal Conservatorio!” urlò su tutte le furie.
Così mi scacciarono, e io morivo dal ridere. La sera stessa cantai l’aria del Moltiplico. Pulcinella vuole sposarsi, conta sulle dita gli oggetti che gli occorreranno per la casa e a ogni momento si imbroglia nei calcoli.»
«Cantateci quell’aria, signore!» lo pregò la signora De Rênal.
Geronimo cantò e tutti avevano le lacrime agli occhi a furia di ridere. Solo verso le due il cantante andò a letto, lasciando tutta la famiglia entusiasta delle sue buone maniere, della sua condiscendenza e della sua allegria.
Il giorno seguente il signore e la signora De Rênal gli consegnarono le lettere di presentazione che gli occorrevano per la corte di Francia.
“Dunque, dappertutto le stesse falsità” pensò Julien. “Ecco il signor Geronimo che va a Londra con sessantamila franchi di stipendio. Senza l’abilità del direttore del San Carlino, la sua voce divina sarebbe stata, forse, conosciuta e apprezzata solo dieci anni più tardi… In verità, preferirei essere un Geronimo anziché un De Rênal. Geronimo non è così onorato in società; ma non ha il dispiacere di dover organizzare delle aste come quella di oggi, e la sua vita è allegra.”
Una cosa stupiva Julien: le settimane di solitudine passate a Verrières, nella casa del signor De Rênal, erano state per lui un periodo di felicità. Aveva provato disgusto e aveva avuto tristi pensieri solo ai pranzi che gli erano stati offerti. In quella casa deserta poteva scrivere, leggere, pensare senza essere disturbato. La crudele necessità di studiare le mosse di un’anima volgare, e per lo più allo scopo di ingannarla con atti o parole ipocrite, non veniva a distoglierlo ogni momento dalle sue fantasticherie brillanti.
“La felicità sarebbe dunque così vicina?… Il costo di una vita simile è poca cosa; posso, a mia scelta, sposare la signorina Elisa o diventare socio di Fouqué…” Un viaggiatore che ha appena scalato una ripida montagna si siede sulla cima e prova un piacere perfetto nel riposarsi, ma sarebbe stato felice, se lo avessero obbligato a riposarsi sempre?
L’animo della signora De Rênal era colmo di pensieri fatali. Nonostante i suoi propositi, aveva rivelato a Julien tutta la faccenda dell’asta. “Lui potrà dunque farmi dimenticare tutti i miei giuramenti!” pensava.
Avrebbe sacrificato, senza esitazione, la propria esistenza per salvare quella del marito, se l’avesse saputo in pericolo. Era una di quelle anime nobili e romantiche, per le quali scorgere la possibilità di un atto generoso e non compierlo è origine di un rimorso quasi uguale a quello per un delitto commesso. Tuttavia, vi erano giorni funesti nei quali non riusciva a scacciare l’immagine dell’immensa felicità che avrebbe provato se, rimasta improvvisamente vedova, avesse potuto sposare Julien.
Lui amava i suoi figli molto più del loro stesso padre e questi, nonostante la sua severa giustizia, lo adoravano. Lei sentiva che, sposando Julien, sarebbe stato necessario lasciare quel Vergy che le era tanto caro per i suoi boschi ombrosi. Si raffigurava la sua vita a Parigi: avrebbe continuato a dare ai figli quell’educazione ammirata da tutti. E i figli, lei stessa e Julien sarebbero stati tutti perfettamente felici.
Strano effetto del matrimonio, come lo ha ridotto il secolo XIX! La noia della vita coniugale uccide sicuramente l’amore, quando questo ha preceduto il matrimonio. E tuttavia, direbbe un filosofo, esso produce in breve, negli uomini tanto ricchi da non aver bisogno di lavorare, la noia profonda per tutte le gioie domestiche. E fra le donne, non predispone all’amore solo quelle aride.
La riflessione del filosofo mi fa scusare la signora De Rênal; ma, a Verrières, nessuno la scusava, e tutta la città, senza che lei lo sospettasse, non era occupata da altro che dallo scandalo dei suoi amori. Grazie a quel grosso pettegolezzo, i cittadini di Verrières, quell’autunno, si annoiarono meno del solito.
L’autunno e parte dell’inverno trascorsero rapidamente. Bisognò lasciare i boschi di Vergy. La buona società di Verrières cominciava a indignarsi per il fatto che i suoi anatemi facevano così poca impressione sul signor De Rênal. In meno di otto giorni, alcune persone serie, che si ripagavano della loro abituale gravità con il piacere di compiere quelle specie di missioni, gli insinuarono i sospetti più crudeli, ma servendosi delle espressioni più misurate.
Il signor Valenod, che faceva un gioco serrato, aveva collocato Elisa presso una famiglia nobile e stimatissima nella quale c’erano cinque donne. Elisa, temendo, a quanto affermava, di non trovar posto durante l’inverno, si era limitata a chiedere a quella famiglia i due terzi del salario che riceveva in casa del sindaco. Di sua iniziativa, la ragazza aveva avuto l’eccellente idea di andare a confessarsi dall’ex curato Chélan e, contemporaneamente, dal nuovo, allo scopo di raccontare a entrambi i particolari degli amori di Julien.
Il giorno dopo il suo arrivo, alle sei del mattino, l’abate Chélan mandò a chiamare Julien.
«Non vi chiedo nulla,» gli disse «vi prego e, all’occorrenza, vi ordino di non dirmi nulla. Esigo che entro tre giorni partiate per il seminario di Besançon o per la casa del vostro amico Fouqué, che è sempre disposto a offrirvi un magnifico avvenire. Ho previsto tutto e accomodato tutto; ma dovete partire e non tornare per un anno a Verrières.»
Julien taceva. Considerava se il suo onore dovesse ritenersi offeso dalle premure che gli prodigava l’abate Chélan, il quale dopo tutto non era suo padre.
«Domani, alla stessa ora, avrò l’onore di rivedervi» rispose infine al curato.
L’abate Chélan, che contava di vincere d’autorità contro un uomo così giovane, gli parlò a lungo. Chiuso nell’umiltà dell’atteggiamento e dell’espressione, Julien non aprì bocca.
Quando uscì, corse ad avvertire la signora De Rênal, che trovò in preda alla disperazione. Il marito le aveva parlato poco prima con una certa franchezza. La debolezza innata nell’indole di lui, a cui si aggiungeva la prospettiva dell’eredità di Besançon, lo aveva deciso a crederla perfettamente innocente. Le aveva confessato lo strano stato in cui versava l’opinione pubblica di Verrières. La gente aveva torto, era ingannata dagli invidiosi; ma che fare, in conclusione?
La signora De Rênal ebbe per un istante l’illusione che Julien potesse accettare le offerte del signor Valenod e rimanere a Verrières. Ma non era più la donna semplice e timida dell’anno precedente; la sua fatale passione, i suoi rimorsi l’avevano illuminata. Ebbe subito il dolore di dover riconoscere, mentre ascoltava il marito, che una separazione almeno momentanea era diventata indispensabile.
“Lontano da me, Julien ricadrà nei suoi propositi ambiziosi così naturali quando non si ha niente. E io, mio Dio? Sono così ricca, e lo sono così inutilmente per la mia felicità! Mi dimenticherà. Simpatico com’è, sarà amato, amerà. Ah! Disgraziata… di che posso lamentarmi? Il cielo è giusto. Io non ho avuto il merito di far cessare la colpa e quindi mi toglie la capacità di giudicare. Stava in me conquistarmi Elisa a forza di denaro, sarebbe stato facilissimo. Non mi sono curata di riflettere un momento; le folli fantasie dell’amore assorbivano tutto il mio tempo. Sono perduta.”
Nel dare alla signora De Rênal la terribile notizia della partenza, Julien fu colpito dal fatto di non incontrare in lei la minima obiezione egoistica. La donna faceva evidenti sforzi per non piangere.
«Dobbiamo essere fermi, amico mio.»
Si tagliò una ciocca di capelli.
«Non so che cosa farò,» gli disse «ma se muoio, promettimi di non dimenticare mai i miei figli. Da lontano o da vicino, cerca di farli diventare uomini onesti. Se ci sarà un’altra rivoluzione, tutti i nobili saranno sgozzati; il loro padre emigrerà, forse, a causa di quel contadino ucciso sui tetti. Veglia sulla famiglia… Dammi la mano. Addio, amico mio! Sono gli ultimi momenti, questi. Compiuto un sacrificio così grande, spero che avrò, in pubblico, il coraggio di pensare alla mia reputazione.»
Julien si aspettava una scena di disperazione. La semplicità di quell’addio lo commosse.
«No, non accetto così il vostro addio. Partirò: lo vogliono; voi stessa lo volete. Ma, tre giorni dopo la mia partenza, tornerò a trovarvi di notte.»
Alla signora De Rênal sembrò che la sua vita fosse improvvisamente trasformata. Julien, dunque, l’amava molto se, spontaneamente, gli era venuta l’idea di rivederla! Il suo spaventoso dolore si mutò in uno dei più vivi trasporti di gioia che avesse mai provato. Ogni cosa le apparve facile. La certezza di rivedere il suo amico toglieva a quegli ultimi istanti tutto ciò che avevano di straziante. Da quel momento, il contegno e la fisionomia della signora De Rênal furono nobili, fermi e perfettamente corretti.
Il signor De Rênal rincasò poco dopo; era fuori di sé. Finalmente parlò alla moglie della lettera anonima ricevuta due mesi prima:
«Voglio portarla al Circolo; mostrare a tutti che è opera di quell’infame di Valenod, che ho tolto dalla miseria per farne uno dei più ricchi borghesi di Verrières. Lo svergognerò in pubblico e poi mi batterò con lui. Questo è troppo».
“Potrei diventare vedova, per Dio!” pensò la signora De Rênal. Ma, quasi contemporaneamente, disse a sé stessa: “Se non impedisco questo duello, come certamente posso fare, sarò l’assassina di mio marito”.
Mai aveva blandito con tanta abilità la vanità di lui. In meno di due ore gli fece vedere, e sempre con argomenti trovati da lui, che bisognava dimostrare più che mai amicizia al signor Valenod e perfino riprendere in casa Elisa. La signora De Rênal ebbe bisogno di coraggio per decidersi a rivedere quella ragazza, causa di tutte le sue disgrazie. Ma l’idea veniva da Julien.
Alla fine, dopo essere stato messo tre o quattro volte sulla buona strada, il signor De Rênal arrivò da solo all’idea, finanziariamente molto penosa, che la cosa più sgradevole per lui sarebbe stata se Julien fosse rimasto come precettore dei figli del signor Valenod, in mezzo all’eccitazione e alle chiacchiere di tutta Verrières. L’interesse evidente di Julien era di accettare le offerte del direttore dell’ospizio. Per la gloria del signor De Rênal era importante, al contrario, che il giovane lasciasse Verrières ed entrasse nel seminario di Besançon o in quello di Digione. Ma come deciderlo? E poi, come vi avrebbe vissuto?
Il signor De Rênal, vista l’imminenza di un sacrificio in denaro, era più disperato di sua moglie. Dal canto suo, lei, dopo un tale colloquio, era nella situazione di una persona coraggiosa che, stanca della vita, abbia preso una dose di stramonio; agiva soltanto meccanicamente, e non si interessava più di nulla. Accadde così a Luigi XIV morente di dire: «Quand’ero re». Parole ammirevoli.
Il giorno dopo, di buon mattino, il signor De Rênal ricevette un’altra lettera anonima. Era scritta nello stile più insultante e, a ogni riga, vi si leggevano le espressioni più volgari applicabili alla sua situazione. Era l’opera di qualche subalterno invidioso. Quella lettera gli fece rinascere l’idea di battersi con il signor Valenod e ben presto il suo coraggio arrivò fino al proposito di farlo immediatamente. Uscì solo e si recò dall’armaiolo a comprare delle pistole, che fece caricare.
“In fondo,” pensava “anche se tornasse al mondo la severa amministrazione dell’imperatore Napoleone, io non avrei da rimproverarmi neppure un soldo di ruberie. Tutt’al più, ho chiuso gli occhi; ma ho nella scrivania ottime lettere che mi autorizzavano a farlo.”
La signora De Rênal fu spaventata dalla collera fredda del marito: le ricordava il fatale pensiero della vedovanza che faticava tanto a respingere. Si chiuse in camera con lui e per molte ore gli parlò invano: la nuova lettera anonima lo spingeva ad agire. Alla fine riuscì a trasformare il coraggio di dare uno schiaffo al signor Valenod in quello di offrire seicento franchi a Julien per un anno di retta in un seminario. Il signor De Rênal, maledicendo mille volte il giorno in cui aveva avuto l’infausta idea di prendersi in casa un precettore, dimenticò la lettera anonima.
Si consolò un poco grazie a un pensiero che non rivelò alla moglie: con abilità e avvalendosi delle idee romantiche del giovane, sperava di indurlo a rifiutare, e con una somma minore, le offerte del signor Valenod.
La signora De Rênal stentò molto a dimostrare a Julien che, sacrificando alle convenienze del marito il posto di ottocento franchi che gli offriva pubblicamente il direttore dell’ospizio, poteva accettare senza vergogna un indennizzo.
«Ma» risprese lui a rispondere «io non ho mai avuto, neppure per un attimo, il proposito di accettare quelle offerte. Voi mi avete abituato alla vita elegante: la volgarità di quella gente mi ucciderebbe.»
La crudele necessità, con la sua mano di ferro, piegò la volontà di Julien. Il suo orgoglio gli offriva l’illusione di accettare solo come un prestito la somma offertagli dal sindaco di Verrières, rilasciandogli una ricevuta con obbligo di pagamento entro cinque anni e con gli interessi.
La signora De Rênal aveva sempre alcune migliaia di franchi nascosti nella piccola grotta della montagna. Glieli offrì tremando, intuendo benissimo che sarebbero stati rifiutati irosamente.
«Volete rendere odioso il ricordo del nostro amore?» le disse Julien.
Infine il giovane lasciò Verrières. Il signor De Rênal fu molto fortunato: al momento fatale di accettare denaro da lui, Julien sentì che un tale sacrificio era troppo forte e rifiutò decisamente. Il sindaco gli buttò le braccia al collo con le lacrime agli occhi e, poiché Julien gli chiese una lettera di benservito, non riuscì a trovare nel suo entusiasmo espressioni abbastanza lusinghiere per esaltare la sua condotta. Il nostro eroe aveva cinque luigi di economie e si proponeva di chiederne altrettanti a Fouqué.
Era molto commosso. Ma, a un miglio da Verrières, dove lasciava tanto amore, non pensò più che alla gioia di vedere una capitale, una grande città fortificata come Besançon.
Durante la breve assenza di tre giorni, la signora De Rênal fu ingannata da una delle più crudeli delusioni dell’amore. La sua vita era passabile solo perché tra lei e l’estrema infelicità c’era quell’ultimo incontro che doveva avere con Julien. Contava le ore, i minuti che la separavano da lui. Finalmente, durante la notte del terzo giorno, udì da lontano il segnale convenuto. Dopo aver attraversato mille pericoli, Julien le comparve davanti.
Da quel momento lei ebbe un solo pensiero: “Lo vedo per l’ultima volta”. Invece di rispondere alle effusioni del suo amico, fu come un corpo quasi privo di vita. Se si sforzava di dirgli che lo amava, aveva un’aria impacciata che dimostrava quasi il contrario. Nulla poté distrarla dal crudele pensiero della separazione definitiva. Il diffidente Julien credette, per un attimo, di essere già dimenticato. Le sue parole risentite furono accolte solo con grosse lacrime silenziose e strette di mano quasi convulse.
«Ma, santo Dio! Come volete che io vi creda?» rispondeva Julien alle fredde proteste dell’amica. «Dimostrereste un’amicizia cento volte più sincera alla signora Derville, a una semplice conoscente.»
La signora De Rênal, impietrita, non sapeva rispondere altro che: «È impossibile essere più infelice… Spero di morire… Sento il mio cuore gelarsi…».
Tali furono le risposte più lunghe che lui poté ottenere da lei.
Quando l’avvicinarsi dell’alba rese necessaria la partenza, le lacrime della signora De Rênal cessarono del tutto. Lo guardò legare alla finestra una corda a nodi, senza parlare, senza restituirgli i baci. Inutilmente Julien le diceva:
«Eccoci giunti alla condizione che avete tanto desiderato. Ormai vivrete senza rimorsi. Alla minima indisposizione dei vostri figli, non li vedrete più nella tomba».
«Mi dispiace che non possiate abbracciare Stanislas» gli disse lei con freddezza.
Julien finì con l’essere profondamente colpito dagli abbracci senza calore di quel cadavere vivente; non poté pensare ad altro per parecchie miglia. La sua anima era straziata e prima di valicare la montagna, finché poté scorgere il campanile di Verrières, si voltò molte volte.
1 – Casti: Giovanni Battista Casti (1724-1803), abate e poeta letto in gioventù da Stendhal.
2 – nonantecinq: soprannome dato a un magistrato di Marsiglia, il signor di Mérindol, che, durante un processo, si era servito di questa espressione antiquata e scorretta invece di quatrevingt-quinze (novantacinque).
3 – Lascia fare a me: in italiano nell’originale, così come tutte le altre espressioni in corsivo pronunciate da Geronimo.