Ha conosciuto il suo secolo, ha conosciuto
il suo dipartimento ed è ricco.
Le Précurseur1
Julien non si era ancora ripreso dalla profonda fantasticheria nella quale lo aveva gettato l’incontro nella cattedrale, quando una mattina il severo abate Pirard lo fece chiamare:
«L’abate Chas-Bernard mi scrive in vostro favore. Sono, in complesso, abbastanza contento della vostra condotta. Siete estremamente imprudente e persino stordito, anche se non sembra: tuttavia, fino a questo momento, il cuore è buono e anche generoso; l’intelligenza è superiore. Nel complesso vedo in voi una scintilla che non bisogna trascurare. Dopo quindici anni di lavoro, sto per uscire da questo istituto: la mia colpa è di aver lasciato i seminaristi al loro libero arbitrio e di non aver né protetto né combattuto quella società segreta della quale mi avete parlato in confessione. Prima di andarmene, voglio fare qualcosa per voi. Avrei agito già da due mesi, perché lo meritate, se non vi fosse stata la denuncia basata sul recapito di Amanda Binet, trovato in camera vostra. Vi nomino ripetitore per il Nuovo e il Vecchio Testamento».
Julien, in uno slancio di riconoscenza, ebbe l’idea di inginocchiarsi e di ringraziare Dio; ma cedette a un impulso più vero. Si avvicinò all’abate Pirard e gli afferrò la mano che portò alle labbra.
«Che fate?» esclamò il direttore con tono irritato, ma gli occhi di Julien dicevano ancora più del suo gesto.
L’abate lo guardò con stupore, come un uomo che, da molti anni, abbia perduto l’abitudine di imbattersi in emozioni delicate. Quell’attenzione lo commosse: la sua voce si alterò:
«Ebbene, sì, figliolo mio, ti sono affezionato. Il cielo sa che è contro la mia volontà. Dovrei essere giusto e non provare né odio né amore per nessuno. La tua carriera sarà difficile. Vedo in te qualcosa che offende gli spiriti comuni. La gelosia e la calunnia ti perseguiteranno. Dovunque la Provvidenza ti destini, i tuoi compagni non ti guarderanno mai senza odio e, se fingeranno di amarti, sarà per poterti tradire più impunemente. Per tutto ciò, c’è un unico rimedio: ricorri solo a Dio, che, per punirti della tua presunzione, ti ha dato questo destino di essere odiato. Che la tua condotta sia pura: è la sola risorsa che vedo per te. Se ti stringi alla verità con nodi indissolubili, presto o tardi i tuoi nemici saranno confusi».
Era tanto tempo che Julien non udiva una voce amica, perciò bisogna perdonargli una debolezza: scoppiò a piangere. L’abate Pirard gli aprì le braccia e fu, per entrambi, un momento dolcissimo.
Julien era pazzo di gioia: era la prima promozione che otteneva, e i vantaggi erano immensi. Per capire, bisogna essere stati condannati a passare mesi interi senza un attimo di solitudine e nell’immediato contatto di compagni per lo meno importuni se non, per la maggior parte, intollerabili. Sarebbero bastate le loro grida a portare lo scompiglio in un organismo delicato. La gioia rumorosa di quei contadini ben pasciuti e ben vestiti non sapeva godere di sé stessa; si sentiva completa solo quando questi gridavano con tutta la forza dei loro polmoni.
Ora Julien pranzava da solo, o quasi, un’ora dopo gli altri seminaristi. Aveva una chiave del giardino e poteva passeggiarvi nelle ore in cui era deserto.
Con suo grande stupore, si accorse che lo odiavano meno, mentre si aspettava che l’odio raddoppiasse. Quel segreto desiderio che non gli si rivolgesse la parola, desiderio troppo evidente, che gli aveva procurato tanti nemici, non fu più un segno di ridicola alterigia. Agli occhi degli esseri grossolani che lo circondavano sembrò una giusta coscienza della propria dignità. L’odio diminuì sensibilmente, soprattutto tra i più giovani compagni diventati suoi allievi e che trattava con molta gentilezza. A poco a poco ebbe persino dei sostenitori. Chiamarlo Martin Lutero fu di cattivo gusto.
Ma a che scopo parlare dei suoi amici e dei suoi nemici? Tutto ciò è brutto e tanto più brutto quanto più il quadro è reale. Sono, tuttavia, quelli i soli professori di morale che abbia il popolo: che diverrebbe senza di essi? Potranno mai i giornali sostituire i curati?
Dopo la nuova carica affidata a Julien, il direttore del seminario ostentò di non parlargli mai senza testimoni. Nella sua condotta vi era la stessa prudenza per il maestro quanto per il discepolo; ma era soprattutto un modo di metterlo alla prova. Il principio invariabile del rigido giansenista Pirard era: «Se ai vostri occhi un uomo ha del merito, ponete ostacoli a tutto ciò che desidera, a tutto ciò che intraprende. Se il merito è reale, saprà abbattere o aggirare gli ostacoli».
Era il periodo della caccia. Fouqué ebbe l’idea di mandare al seminario un cervo e un cinghiale da parte della famiglia di Julien. Le bestie morte furono deposte nel passaggio, tra la cucina e il refettorio, e là tutti i seminaristi le videro mentre andavano a pranzo. Furono oggetto di molta curiosità. Benché morto, il cinghiale faceva paura ai più giovani, che andavano a toccare le sue zanne. Per otto giorni non si parlò d’altro.
Quel dono, che classificava la famiglia di Julien nella categoria sociale che bisogna rispettare, dette un colpo mortale all’invidia. Fu una superiorità consacrata dalla fortuna. Chazel e i migliori tra i seminaristi tentarono dei passi verso di lui e quasi avrebbero voluto lamentarsi che lui non li avesse avvertiti della ricchezza dei suoi, esponendoli così al rischio di mancar di rispetto al denaro.
Ci fu una coscrizione militare, dalla quale Julien fu esentato nella sua qualità di seminarista. Quella circostanza lo emozionò profondamente: “Ecco passato per sempre il momento in cui, vent’anni or sono, sarebbe cominciata per me una vita eroica!”.
Passeggiava da solo nel giardino del seminario. Udì parlare tra loro due muratori che lavoravano al muro di cinta:
«Bisogna partire: ecco un’altra leva».
«Ai tempi di quell’altro, un muratore diventava ufficiale, generale. Se ne sono visti di casi simili.»
«Vai a vedere, adesso! Partono soltanto gli straccioni. Chi ha del suo, rimane a casa.»
«Chi è nato miserabile, miserabile resta, ecco tutto.»
«Ah, a proposito, è vero, quello che dicono, che l’altro sia morto?» domandò un terzo muratore.
«Sono i ricchi che lo dicono. Vedi, l’altro faceva loro paura!»
«Che differenza! Come andavan le cose al tempo suo! E dire che è stato tradito dai suoi marescialli! Che carogne!»
Questa conversazione consolò un poco Julien. Mentre si allontanava, ripeteva con un sospiro: Il solo re che il popolo ricordi!2
Giunse il tempo degli esami. Julien rispose brillantemente e vide che anche Chazel cercava di mostrare tutta la sua scienza.
Il primo giorno, gli esaminatori nominati dal famoso gran vicario Frilair furono molto contrariati dal fatto di dover segnare sempre primo o tutt’al più secondo sul loro elenco quel Julien Sorel, segnalato come il beniamino dell’abate Pirard. In seminario si scommise che, nella graduatoria generale degli esami, Julien avrebbe avuto il primo posto, cosa che fruttava l’onore di pranzare in casa di monsignor vescovo. Ma, alla fine di una seduta nella quale si era parlato dei Padri della Chiesa, un abile esaminatore, dopo aver interrogato Julien su san Girolamo e sulla sua passione per Cicerone, passò a parlare di Orazio, di Virgilio e di altri autori profani. Julien, all’insaputa dei suoi compagni, aveva imparato a memoria un gran numero di passi di questi autori. Trascinato dai propri successi, dimenticò il posto nel quale si trovava e, alle reiterate richieste dell’esaminatore, recitò e parafrasò con ardore molte odi di Orazio. Dopo avergli lasciato venti minuti per darsi la zappa sui piedi, l’esaminatore cambiò improvvisamente faccia e gli rimproverò con asprezza il tempo perduto in quegli studi profani e le idee inutili o colpevoli che si era messo in testa.
«Sono uno sciocco, signore, e voi avete ragione» disse Julien con aria modesta, riconoscendo l’abile stratagemma del quale era stato vittima.
L’astuzia dell’esaminatore fu giudicata sporca, anche in seminario, ma ciò non impedì all’abate Frilair, quell’uomo scaltro che aveva organizzato così sapientemente la rete della Congregazione di Besançon e che, con i suoi dispacci a Parigi, faceva tremare i giudici, il prefetto e perfino gli ufficiali generali della guarnigione, non gli impedì dunque di scrivere con la sua mano ferma il numero 198 accanto al nome di Julien. Provava un senso di gioia nel mortificare in tal modo il suo nemico, il giansenista Pirard.
Da dieci anni, il suo maggiore impegno era di togliergli la direzione del seminario. L’abate, che seguiva per sé stessola linea di condotta che aveva indicato a Julien, era sincero, pio, alieno dagli intrighi, ligio ai propri doveri. Ma il cielo, nella sua collera, gli aveva dato un temperamento bilioso, fatto per sentire profondamente le ingiurie e l’odio. Quell’anima ardente non lasciava perdere nessuno degli oltraggi che le venivano rivolti. Avrebbe dato cento volte le dimissioni, ma si credeva utile nel posto in cui la Provvidenza lo aveva messo. “Impedisco” pensava “il progresso del gesuitismo e dell’idolatria.”
Al tempo degli esami erano forse due mesi che non parlava con Julien, eppure stette male otto giorni quando ricevette la lettera ufficiale che gli annunciava i risultati e vide il numero 198 accanto al nome di quell’alunno che considerava come una gloria dell’istituto. La sola consolazione per quel carattere severo fu di concentrare su Julien tutte le sue capacità di indagine. Fu felice di non scoprire in lui né collera, né propositi di vendetta, né scoraggiamento.
Alcune settimane dopo, Julien, ricevendo una lettera con il timbro di Parigi, ebbe un sobbalzo. “Finalmente” pensò “la signora De Rênal si ricorda delle sue promesse.” Un signore, che si firmava Paul Sorel e che si diceva suo parente, gli mandava un vaglia bancario di cinquecento franchi. Aggiungeva che, se Julien avesse continuato a studiare con successo i buoni autori latini, ogni anno gli sarebbe stata inviata una somma uguale.
“È lei: è la sua bontà!” pensò Julien commosso. “Vuole consolarmi; ma perché nemmeno una parola amichevole?”
Si ingannava a proposito di quella lettera. La signora De Rênal, sotto la guida della sua amica, la signora Derville, era tutta presa dai suoi profondi rimorsi. Pensava spesso, senza volerlo, a quella persona singolare il cui incontro aveva sconvolto la sua vita, ma si sarebbe guardata bene dallo scrivergli.
Se parlassimo il linguaggio del seminario, potremmo vedere un miracolo nell’invio di quei cinquecento franchi e dire che il cielo si serviva dello stesso abate Frilair per fare quel dono a Julien.
Dodici anni prima, l’abate Frilair era giunto a Besançon con un piccolissimo bagaglio, che, secondo la cronaca, conteneva tutti i suoi averi. Ora, invece, era uno dei più ricchi proprietari del dipartimento. Durante la sua fortunata ascesa, aveva acquistato la metà di una terra, l’altra parte della quale fu ereditata dal marchese De La Mole. Di qui una grossa vertenza giudiziaria tra questi due personaggi.
Nonostante la sua vita brillante a Parigi e le cariche che aveva a corte, il marchese De La Mole capì che era pericoloso lottare a Besançon con un grande vicario il quale, dicevano, creava e liquidava i prefetti. Tuttavia, invece di sollecitare una gratificazione di cinquantamila franchi, mascherata sotto un qualunque titolo del bilancio di stato, e di abbandonare all’abate Frilair i cinquantamila franchi di quel miserabile processo, il marchese si impuntò. Credeva di avere ragione: bella ragione!
Ora, se è lecito dirlo, qual è il giudice che non abbia un figlio o almeno un cugino da spingere avanti nel mondo?
Per illuminare i più ciechi, l’abate Frilair, otto giorni dopo la prima ordinanza vinta, prese la carrozza del vescovo e si recò personalmente dal suo avvocato per portargli la croce della Legion d’onore. Il marchese De La Mole, alquanto confuso dal contegno della parte avversa e sentendo che i suoi avvocati cedevano, chiese consiglio all’abate Chélan, che lo mise in contatto con l’abate Pirard.
Al tempo della nostra storia, tali relazioni duravano ormai da qualche anno. L’abate Pirard portò in questa faccenda la sua natura appassionata. In continuo rapporto con gli avvocati del marchese, studiò la sua causa e, trovatala giusta, divenne apertamente partigiano del marchese De La Mole contro l’onnipotente gran vicario. Questo fu irritato da una simile insolenza che, oltre a tutto, gli veniva da un piccolo giansenista.
«Vedete cos’è questa aristocrazia di corte che si crede tanto potente!» diceva ai suoi intimi l’abate Frilair. «Il marchese non ha neppure inviato una miserabile croce al suo agente di Besançon e lo lascerà destituire senza muovere un dito. Eppure, a quanto mi scrivono, quel nobile pari non lascia trascorrere una settimana senza andare a mettere in mostra il suo nastrino azzurro nel salotto del guardasigilli, chiunque sia.»
Nonostante tutta l’attività dell’abate Pirard, e sebbene il marchese De La Mole fosse sempre nei migliori rapporti con il ministro della Giustizia e soprattutto con gli uffici del suo dicastero, tutto ciò che poté ottenere dopo sei anni di lavoro fu di non perdere completamente il processo.
In continua corrispondenza con l’abate Pirard per una causa che entrambi seguivano con passione, il marchese finì con l’apprezzare la personalità dell’abate. La loro corrispondenza, a dispetto dell’immensa distanza delle posizioni sociali, prese, a poco a poco, un tono amichevole. L’abate Pirard diceva al marchese che, a furia di angherie, lo volevano costringere a dare le dimissioni. Nella collera che provocò in lui lo stratagemma, a suo parere infame, usato contro Julien, raccontò tutto al marchese.
Per quanto ricchissimo, quel gran signore non era avaro. Non avendo mai potuto far accettare all’abate Pirard neppure il rimborso delle spese postali derivanti dal processo, ebbe l’idea di mandare cinquecento franchi al suo allievo preferito. Il marchese si dette la briga di scrivere di suo pugno la lettera di accompagnamento e ciò lo portò a pensare all’abate.
Un giorno, costui ricevette un biglietto che lo invitava a recarsi senza indugio, per un affare urgente, in una piccola locanda di un sobborgo di Besançon. Vi trovò l’intendente del marchese.
«Il signor De La Mole» gli disse quell’uomo «mi ha incaricato di portarvi il suo calesse. Spera che, dopo aver letto questa lettera, partirete per Parigi entro quattro o cinque giorni. Stabilite il giorno e nel frattempo io visiterò le proprietà del signor marchese nella Franca-Contea. Dopo di che, partiremo assieme quando vorrete.»
La lettera era breve:
Liberatevi, caro signore, da tutti gli intrighi di provincia; venite a respirare a Parigi un’aria tranquilla. Vi mando la mia carrozza con l’ordine di attendere una vostra decisione per quattro giorni. Vi aspetterò io stesso a Parigi fino a martedì. Non occorre altro che un sì da parte vostra, perché io accetti, per voi, una delle migliori parrocchie dei dintorni della città. Il più ricco dei vostri futuri parrocchiani non vi ha mai visto, ma vi è devoto più di quanto possiate credere: è il marchese De La Mole.
Senza rendersene conto, il severo abate Pirard amava quel seminario popolato di suoi nemici, al quale da quindici anni dedicava tutti i suoi pensieri. La lettera del signor De La Mole fu per lui come l’apparizione del chirurgo incaricato di eseguire un’operazione crudele ma necessaria. La sua destituzione era certa. Fissò un appuntamento all’intendente per tre giorni dopo.
Per quarantott’ore ebbe la febbre per l’incertezza. Infine scrisse al signor De La Mole e compose per il vescovo una lettera, un po’ lunga, ma che era un capolavoro di stile ecclesiastico. Sarebbe stato difficile trovare frasi più irreprensibili e ispirate da un rispetto più sincero. E tuttavia, quella lettera, destinata a procurare un’ora difficile all’abate Frilair di fronte al suo superiore, esponeva tutti i motivi di gravi lagnanze e scendeva fino alle piccole e sporche angherie che, dopo essere state sopportate con rassegnazione per sei anni, costringevano l’abate Pirard a lasciare la diocesi. Gli rubavano la legna dalla legnaia, gli avvelenavano il cane eccetera eccetera.
Finita la lettera, fece svegliare Julien che, come tutti gli altri seminaristi, dormiva già alle otto di sera.
«Sapete dov’è il vescovado?» gli disse in bello stile latino. «Portate questa lettera a monsignore. Non vi nasconderò che vi mando in mezzo ai lupi. Siate tutt’occhi e tutt’orecchi. Nessuna bugia nelle vostre risposte; ma pensate che chi vi interroga proverebbe, forse, una vera gioia nel potervi nuocere. Sono lieto, figliolo mio, di procurarvi quest’esperienza prima di lasciarvi, perché, non ve lo nascondo, la lettera che recate contiene le mie dimissioni.»
Julien rimase immobile. Amava l’abate Pirard. La prudenza aveva un bel dirgli: “Dopo la partenza di quest’uomo onesto, il partito del Sacro Cuore mi degraderà e, forse, mi scaccerà”.
Non poteva pensare a sé stesso. Lo metteva in imbarazzo il fatto di trovare una risposta da formulare in maniera cortese, non si sentiva capace.
«Ebbene, amico mio, non andate?»
«Dicono, signore,» cominciò timidamente Julien «che durante la vostra lunga amministrazione non abbiate messo da parte nulla. Io ho seicento franchi.»
Le lacrime gli impedirono di continuare.
«Anche di questo si terrà conto» disse freddamente l’ex direttore del seminario. «Andate al vescovado: si fa tardi.»
Il caso volle che, quella sera, l’abate Frilair fosse di servizio nel salone del vescovado. Monsignore era a pranzo alla prefettura. Julien, dunque, consegnò la lettera proprio nelle mani dell’abate Frilair, senza conoscerlo.
Vide con meraviglia che quell’abate apriva arditamente la lettera indirizzata al vescovo. Il bel volto del gran vicario espresse subito una sorpresa mista a vivo piacere, poi si fece più serio. Mentre leggeva, Julien, colpito dal suo bell’aspetto, ebbe il tempo di esaminarlo. Quel volto avrebbe avuto maggiore gravità, senza l’eccessiva finezza che appariva in certi tratti fino a dimostrarne la falsità, se il possessore di quel bel viso avesse cessato per un attimo di sorvegliarsi. Il naso, assai pronunciato, formava una sola linea diritta e dava, sfortunatamente, a un profilo, del resto abbastanza nobile, una irrimediabile somiglianza con un muso di volpe. Quell’abate che pareva così preso dalle dimissioni di Pirard era vestito con un’eleganza che piacque molto a Julien: non l’aveva mai notata in nessun altro prete.
Solo più tardi, Julien apprese quale fosse l’abilità speciale dell’abate Frilair. Sapeva divertire il suo vescovo, amabile vecchio fatto per la vita parigina e che considerava Besançon come un esilio. Quel vescovo aveva una pessima vista e una vera passione per il pesce. L’abate Frilair toglieva le spine al pesce che veniva servito a monsignore.
Julien guardava in silenzio l’abate che rileggeva la lettera di dimissione, quando, all’improvviso, l’uscio si aprì rumorosamente. Un valletto, riccamente vestito, passò frettoloso. Julien ebbe appena il tempo di girarsi verso la porta; vide un vecchietto che portava una croce pettorale. Si inchinò: il vescovo gli rivolse un sorriso benevolo e passò oltre. Il bell’abate lo seguì e Julien rimase solo nel salone, del quale poté ammirare a suo piacere la magnificenza religiosa.
Il vescovo di Besançon, il cui spirito era stato messo alla prova, ma non spento dalle lunghe miserie dell’emigrazione, aveva più di settantacinque anni e si preoccupava pochissimo di quello che sarebbe capitato di lì a dieci anni.
«Chi è quel seminarista dallo sguardo fine, che mi pare di aver visto passando?» domandò il vescovo. «Non devono essere a letto a quest’ora, secondo il mio regolamento?»
«Quello lì è molto desto, ve lo giuro, monsignore, e reca una grande notizia: le dimissioni del solo giansenista che rimanesse nella vostra diocesi. Quel terribile abate Pirard l’ha finalmente capita.»
«Ebbene!» disse il vescovo ridendo. «Vi sfido a sostituirlo con un uomo che valga quanto lui. E, per mostrarvi tutto il suo valore, lo inviterò a pranzo domani.»
Il gran vicario volle insinuare qualche parola sulla scelta del successore, ma il prelato, poco disposto a parlare d’affari, gli disse:
«Prima di farne arrivare un altro, cerchiamo di sapere come se ne va questo. Fate venire il seminarista. La verità è sulla bocca dei fanciulli».
Julien fu chiamato. “Mi troverò fra due inquisitori” pensò. Non si era mai sentito così coraggioso.
Nel momento in cui entrò, due valletti, più eleganti dello stesso signor Valenod, svestivano monsignore. Il prelato, prima di parlare dell’abate Pirard, ritenne di dover interrogare Julien sui suoi studi. Parlò un po’ di dogma e rimase meravigliato. Passò poi ai classici, a Virgilio, a Orazio, a Cicerone. “Questi nomi” pensò Julien “mi hanno fruttato il numero 198. Non ho niente da perdere. Tentiamo di essere brillante.” E vi riuscì. Il prelato, eccellente umanista, fu soddisfattissimo.
Al pranzo della prefettura una ragazzina, giustamente celebre, aveva recitato il poema della Maddalena.3
Il vescovo, intento a parlare di letteratura, dimenticò presto l’abate Pirard e tutti gli affari per discutere con il seminarista se Orazio fosse ricco o povero. Citò parecchie odi, ma, qualche volta, la sua memoria era pigra e, immediatamente, Julien recitava tutta l’ode, con aria modesta. Ciò che più colpì il vescovo fu che Julien non usciva mai dal tono della conversazione. Recitava i suoi venti o trenta versi latini come sé stesse parlando di ciò che avveniva in seminario. Chiacchierarono a lungo di Virgilio e di Cicerone e, alla fine, il prelato non poté esimersi dal congratularsi con il giovane seminarista.
«Non è possibile aver fatto studi migliori.»
«Monsignore,» rispose Julien «il vostro seminario può offrirvi centonovantasette alunni assai meno indegni della vostra alta approvazione.»
«Come mai?» disse il prelato, stupefatto da una simile cifra.
«Posso sostenere con prove ufficiali ciò che ho l’onore di dire davanti a monsignore. All’esame di fine anno, rispondendo proprio sugli argomenti che mi procurano ora l’approvazione di monsignore, ho ottenuto il numero 198.»
«Ah! È il beniamino dell’abate Pirard» esclamò il vescovo ridendo e guardando Frilair. «Avremmo dovuto aspettarcelo, ma è un bel tiro. Non è vero, amico mio, che vi hanno svegliato per mandarvi qui?» aggiunse rivolgendosi a Julien.
«Sì, monsignore. Sono uscito da solo dal seminario soltanto un’altra volta in vita mia, per andare ad aiutare l’abate Chas-Bernard ad addobbare la cattedrale il giorno del Corpus Domini.»
«Optime!» disse il vescovo. «Siete voi che avete dato prova di tanto coraggio, mettendo i pennacchi di piume sul baldacchino? Ogni anno mi fanno tremare. Temo sempre che mi costino la vita di qualcuno. Farete molta strada, ragazzo mio, ma non voglio fermare la vostra carriera che sarà brillante, facendovi morire di fame.»
E, per ordine del prelato, furono portati biscotti e vino di Malaga, ai quali Julien fece onore, e ancor più l’abate Frilair, cui era noto il piacere che il suo vescovo provava nel veder mangiare allegramente e con buon appetito.
Sua Eccellenza, sempre più contento della fine di quella serata, parlò un po’ di storia ecclesiastica. Vide che Julien non capiva. Passò alle condizioni morali dell’impero romano sotto gli imperatori del secolo di Costantino. La fine del paganesimo era accompagnata da quello stato di inquietudine e di dubbio che, nel XIX secolo, tormenta gli spiriti tristi e annoiati. Monsignore notò che Julien ignorava quasi anche il nome di Tacito.
Allo stupore del prelato, Julien rispose candidamente che le opere di quell’autore non si trovavano nella biblioteca del seminario.
«Ne sono veramente molto contento» disse allegramente il vescovo. «Mi togliete dall’imbarazzo. Da dieci minuti cerco il modo di ringraziarvi per la piacevole serata che mi avete procurato in maniera così imprevista. Non mi aspettavo di trovare un dottore in un allievo del mio seminario. Sebbene il dono non sia troppo canonico, vi voglio offrire l’opera di Tacito.»
Il prelato fece portare otto volumi finemente rilegati e volle scrivere di suo pugno, sul titolo del primo, un complimento in latino per Julien Sorel. Il vescovo si vantava di essere buon latinista. Finì con il dirgli, in tono serio, che era in contrasto assoluto con quello di tutta la conversazione: «Giovanotto, se sarete giudizioso, avrete un giorno la migliore parrocchia della mia diocesi e non a cento miglia dal mio palazzo episcopale; ma bisogna essere giudiziosi».
Julien, carico dei suoi volumi, uscì dal vescovado molto stupito, mentre suonava mezzanotte.
Monsignore non gli aveva detto una sola parola sull’abate Pirard. Julien era soprattutto meravigliato della cortesia estrema del vescovo. Non aveva idea di una simile urbanità di modi, aggiunta a un’aria di dignità tanto naturale. Fu specialmente colpito dal contrasto, nel rivedere il cupo abate Pirard, che lo attendeva impaziente.
«Quid tibi dixerunt?»4 gli gridò appena lo vide da lontano.
Julien si imbrogliava un po’ a tradurre in latino i discorsi del vescovo.
«Parlate in francese e ripetete le precise parole di monsignore, senza aggiungere né togliere nulla» disse l’ex direttore del seminario con il tono aspro e i modi profondamente ineleganti che gli erano abituali.
«Che strano dono da parte di un vescovo a un giovane seminarista!» diceva sfogliando la magnifica edizione di Tacito i cui orli dorati pareva gli facessero orrore.
Suonavano le due, quando, dopo una relazione assai particolareggiata, permise all’allievo favorito di tornarsene nella sua camera.
«Lasciatemi il primo volume del vostro Tacito sul quale c’è la dedica di monsignore» gli disse. «Questa frase in latino sarà il vostro parafulmine in questo istituto, dopo la mia partenza. Erit tibi, fili mi, successor meus tamquam leo quaerens quem devoret.»5
La mattina seguente, Julien notò qualcosa di strano nel modo con il quale i suoi compagni gli parlavano. Perciò si mantenne anche più riservato del solito. “Ecco l’effetto delle dimissioni dell’abate Pirard” pensò. “Tutti ne sono a conoscenza e io passo per il suo preferito. Deve esserci qualcosa di offensivo in queste maniere.” Ma non riusciva a scorgervelo. Vi era, invece, assenza di odio negli occhi di tutti quelli che incontrava lungo i dormitori: “Che significa ciò? È un tranello, di sicuro. Giochiamo con prudenza”. Alla fine, il piccolo seminarista di Verrières gli disse, ridendo: «Cornelii Taciti opera omnia».6
All’udire quelle parole, tutti, a gara, si congratularono con Julien, non solo per il magnifico dono che aveva ricevuto da monsignore, ma anche per la conversazione di due ore della quale era stato onorato. Se ne conoscevano perfino i minimi particolari. Da quel momento non vi fu più invidia. Gli fecero bassamente la corte: l’abate Castanède, che, fino al giorno prima, era con lui della massima arroganza, andò a prenderlo per un braccio e lo invitò a colazione.
Per una peculiarità del carattere di Julien, l’insolenza di quegli esseri volgari gli aveva procurato molto dispiacere; la loro bassezza gli procurò disgusto e nessun piacere.
Verso mezzogiorno, l’abate Pirard lasciò i suoi allievi non senza rivolgere loro una severa allocuzione: «Volete» disse «gli onori del mondo, tutti i vantaggi sociali, il piacere di comandare, quello di prendervi gioco delle leggi e di essere impunemente prepotenti con tutti? Oppure volete la salvezza eterna? Anche i meno perspicaci di voi non hanno che da aprire gli occhi per distinguere le due strade».
Appena se ne fu andato, i devoti del Sacro Cuore di Gesù intonarono un Te Deum nella cappella. In seminario nessuno prese sul serio l’esortazione dell’ex direttore. «È molto irritato per la destituzione» si diceva da ogni parte. Neppure uno dei seminaristi ebbe la semplicità di credere alle dimissioni volontarie da un posto che offriva tante relazioni con fornitori importanti. L’abate Pirard andò a stabilirsi nel più bell’albergo di Besançon e, con il pretesto di affari che non aveva, volle passarvi due giorni.
Il vescovo lo aveva invitato a pranzo e, per prendersi gioco del suo gran vicario, cercava di valorizzarne la personalità. Erano alla frutta quando giunse da Parigi l’inaspettata notizia che l’abate Pirard era stato nominato nella magnifica parrocchia di N…, a quattro miglia dalla capitale. Il buon prelato si congratulò sinceramente con lui. Vide, in tutta la faccenda, un gioco ben riuscito che lo mise di buonumore, confermandogli la più alta opinione sulle capacità dell’abate. Gli rilasciò dunque un bel certificato in latino e impose silenzio all’abate Frilair, che si permetteva di fare delle rimostranze.
La sera, monsignore portò la sua ammirazione in casa della marchesa di Rubempré. Fu una grande notizia per l’alta società di Besançon. Tutti si perdevano in congetture su quel favore straordinario e vedevano già l’abate Pirard vescovo. I più perspicaci pensarono alla nomina a ministro del signor De La Mole, e si permisero, quel giorno, di sorridere degli atteggiamenti imperiosi che l’abate Frilair esibiva in società.
La mattina dopo, l’abate Pirard fu quasi seguito per strada e, quando si recò a sollecitare i giudici del marchese, i negozianti apparvero sulle soglie delle botteghe. Per la prima volta fu ricevuto con cortesia. Il severo giansenista, indignato da tutto ciò che vedeva, lavorò a lungo con gli avvocati che aveva scelto per il marchese De La Mole, quindi partì per Parigi. Ebbe la debolezza di dire a due o tre amici del collegio, che lo accompagnavano fino al calesse del quale ammirarono gli stemmi, che, dopo avere amministrato il seminario per quindici anni, lasciava Besançon con cinquecentoventi franchi di economie. Gli amici lo abbracciarono piangendo, e dissero tra loro: «Il buon abate avrebbe potuto risparmiarsi questa bugia: è troppo ridicola».
Gli spiriti volgari, accecati dall’amore del denaro, non erano fatti per capire che l’abate Pirard, proprio nella sua sincerità, aveva trovato la forza necessaria per lottare da solo per sei anni contro Marie Alacoque,7 il Sacro Cuore di Gesù, i gesuiti e il vescovo.
1 – Le Précurseur: giornale di Lione, molto letto negli ambienti liberali.
2 – Il solo… ricordi: verso del drammaturgo francese Paul Gudin De La Brenellerie (1738-1812), riferito nell’originale a Enrico IV.
3 – una ragazzina… Maddalena: allusione alla giovane poetessa Delphine Gay (1804-1855).
4 – Cosa ti hanno detto? [N.d.A.]
5 – Figlio mio, per te, il mio successore sarà come un leone feroce in cerca di qualcuno da divorare. [N.d.A.]
6 – Le opere complete di Cornelio Tacito. [N.d.A.]
7 – Marie Alacoque: monaca francese (1647-1690), poi santificata, le cui rivelazioni portarono allo sviluppo del culto e della festa del Sacro Cuore di Gesù.