Non c’è più che una sola nobiltà, il titolo di duca; marchese è ridicolo, alla parola duca tutti si girano.
The Edinburgh Review1
Il marchese De La Mole ricevette l’abate Pirard senza nessuna di quelle affettazioni da gran signore, così cortesi, ma anche così impertinenti per chi le capisce. Sarebbe stato tempo perso, e il marchese era troppo immerso in affari importanti per avere tempo da perdere.
Da sei mesi si adoperava per fare accettare contemporaneamente al re e alla nazione un certo ministro che, per riconoscenza, lo avrebbe nominato duca.
Il marchese chiedeva da molti anni inutilmente al suo avvocato di Besançon un rendiconto chiaro e preciso sui processi nella Franca-Contea. Ma come avrebbe potuto spiegarglieli il celebre avvocato, se non li capiva neppur lui?
Il foglietto di carta che gli consegnò l’abate metteva tutto in chiaro:
«Mio caro abate,» gli disse il marchese, dopo aver liquidato in meno di cinque minuti tutte le formule di cortesia e di interessamento sulle cose personali «nella mia pretesa prosperità, mi manca il tempo di occuparmi di due piccole cose, tuttavia molto importanti: la mia famiglia e i miei affari. Amministro con ottimi risultati la fortuna del mio casato, posso portarlo lontano: curo i miei piaceri, ed è ciò che, almeno ai miei occhi, deve avere la precedenza su tutto» aggiunse, cogliendo un’espressione di sorpresa nello sguardo dell’abate Pirard. Per quanto uomo di buon senso, l’abate era stupito di udire un vecchio parlare con tanta franchezza dei suoi piaceri.
«Senza dubbio, a Parigi, il lavoro c’è,» continuò il gran signore «ma è confinato al quinto piano.2 E non appena io avvicino qualcuno, costui si trasferisce in un appartamento al secondo e la moglie si mette a ricevere. Di conseguenza, niente più lavoro, niente più sforzi, tranne che per essere o sembrare gente di mondo. Dal momento in cui sono tranquilli per il pane, questa diventa la loro unica preoccupazione. Per i miei processi, per essere più precisi, anzi per ognuna delle cause, ho degli avvocati che si ammazzano di lavoro; me ne è morto uno di crepacuore l’altro giorno. Tuttavia, per i miei affari in generale, credereste, signore, che da tre anni ho rinunciato a trovare un uomo il quale, mentre scrive per me, si degni di pensare un po’ seriamente a quello che fa? Del resto, tutto ciò non è altro che una premessa. Io vi stimo e oserei aggiungere, sebbene vi veda per la prima volta, che vi sono affezionato. Volete essere il mio segretario con ottomila franchi di stipendio o anche con il doppio? Ci guadagnerò sempre, ne sono certo. E mi incarico di conservarvi la vostra bella parrocchia per il giorno in cui non ci intendessimo più.»
L’abate rifiutò; ma, verso la fine della conversazione, il vero imbarazzo nel quale vedeva il marchese gli suggerì un’idea.
«Ho lasciato laggiù nel mio seminario un povero giovane che, se non mi inganno, sarà presto duramente perseguitato. Se non fosse che un semplice religioso, sarebbe già in pace.3 Finora questo ragazzo non conosce che il latino e le Sacre Scritture; ma non è impossibile che un giorno dimostri grandi attitudini sia per la predicazione sia per la direzione delle anime. Non so che cosa farà; ma ha il fuoco sacro, può andar lontano. Pensavo di darlo al nostro vescovo, se mai ne fosse arrivato uno con un po’ del vostro modo di vedere gli uomini e gli affari.»
«Da dove viene il vostro giovane?» domandò il marchese.
«Si dice che sia figlio di un carpentiere delle nostre montagne; ma io lo crederei piuttosto figlio naturale di un ricco. Gli ho visto ricevere una lettera anonima o firmata con uno pseudonimo contenente un vaglia bancario di cinquecento franchi.»
«Ah! È Julien Sorel» disse il marchese.
«Come sapete il suo nome?» chiese l’abate stupito. E, poiché arrossiva della sua domanda, il marchese rispose:
«Questo non ve lo dirò».
«Ebbene!» riprese l’abate. «Potreste tentare di fare di lui il vostro segretario. È energico, intelligente: insomma, è una chance da cogliere.»
«Perché no?» disse il marchese. «Ma non sarà forse uomo da farsi corrompere dal prefetto di polizia o da chiunque altro per far la spia in casa mia? Questa è la mia sola obiezione.»
Dopo le assicurazioni favorevoli dell’abate Pirard, il marchese gli porse un biglietto da mille franchi:
«Mandate questo viatico a Julien Sorel. Fatelo venire da me».
«Si vede bene» disse l’abate «che abitate a Parigi. Non conoscete la tirannia che pesa su noialtri poveri provinciali e, in modo particolare, sui preti non amici dei gesuiti. Non vorranno lasciar partire Julien Sorel; sapranno trovare i pretesti più abili; mi risponderanno che è malato; le poste smarriranno le lettere eccetera.»
«Allora uno di questi giorni mi procurerò una lettera del ministro per il vescovo» disse il marchese.
«Dimenticavo una precauzione» continuò l’abate. «Quel giovane, sebbene nato povero, ha il cuore altero. Non vi sarà di nessuna utilità se offenderete il suo orgoglio. Lo rendereste stupido.»
«Questo mi piace» disse il marchese. «Lo farò diventare il compagno di mio figlio: basterà?»
Qualche tempo dopo, Julien ricevette una lettera scritta da una mano sconosciuta, con il timbro di Châlon. Trovò un assegno da riscuotere presso un negoziante di Besançon e l’avviso di recarsi a Parigi senza indugio. La lettera era firmata con un nome immaginario; ma, nell’aprirla, Julien trasalì: una foglia era caduta ai suoi piedi. Era il segnale convenuto con l’abate Pirard.
Meno di un’ora dopo fu chiamato in vescovado, dove si vide accolto con una bontà tutta paterna.
Mentre citava Orazio, monsignore gli fece dei complimenti molto sottili sugli alti destini che lo attendevano a Parigi. Quei complimenti volevano come ringraziamento delle spiegazioni. Ma Julien non poté darne, per la buona ragione che non sapeva niente: ciò gli fruttò molta considerazione da parte di monsignore. Uno dei pretini del vescovado scrisse al sindaco, che si affrettò a portare personalmente un passaporto firmato, ma sul quale il nome del viaggiatore era stato lasciato in bianco.
La sera, prima di mezzanotte, Julien era da Fouqué, il quale, da uomo pratico, fu più stupito che entusiasta dell’avvenire che pareva si preparasse per il suo amico.
«Tutto ciò finirà per te» disse quell’elettore liberale «con una carica governativa, la quale ti costringerà a qualche passo che ti farà vilipendere nei giornali. Avrò tue notizie attraverso questa tua vergogna. Ricordati che, anche finanziariamente parlando, vale meglio guadagnare cento luigi in una buona azienda di legnami, di cui si sia padroni, che ricevere quattromila franchi da un governo, fosse anche quello del re Salomone.»
Julien non vide altro in quelle parole che la ristrettezza mentale di un borghese di campagna. Finalmente sarebbe apparso sulla scena dei grandi avvenimenti. La felicità di andare a Parigi, che si figurava popolata da gente di spirito molto intrigante, molto ipocrita, ma gentile come il vescovo di Besançon e il vescovo d’Agde, non gli permetteva di vedere nient’altro. Con l’amico si finse come privato del proprio libero arbitrio in seguito alla lettera dell’abate Pirard.
Il giorno seguente, verso mezzogiorno, andò a Verrières sentendosi il più felice degli uomini. Contava di rivedere la signora De Rênal. Dapprima si recò dal suo protettore, il buon abate Chélan. L’accoglienza fu severa.
«Credete di essermi obbligato in qualche modo?» gli disse l’abate senza rispondere al suo saluto. «Farete colazione con me. Intanto vi farò noleggiare un altro cavallo, e voi lascerete Verrières senza incontrare nessuno.»
«Intendere vuol dire obbedire» rispose Julien con aria da seminario. E non si parlò d’altro che di teologia e di buona latinità.
Montato a cavallo, Julien percorse un miglio. Dopo di che, visto un bosco e assicuratosi che nessuno poteva vederlo, vi si inoltrò. Al tramonto allontanò il cavallo. Più tardi si recò da un contadino che acconsentì a vendergli una scala e a seguirlo, portandola fino al boschetto che domina il CORSO DELLA FEDELTÀ, a Verrières.
«Sono un povero coscritto renitente…»
«O un contrabbandiere,» disse il contadino congedandosi da lui «ma che importa? La mia scala è ben pagata, e anch’io ho passato qualche brutto quarto d’ora nella mia vita.»
La notte era molto buia. Verso l’una, Julien, portando la scala, entrò a Verrières. Scese il più rapidamente possibile nel letto del torrente che attraversa i magnifici giardini del signor De Rênal a una profondità di dieci piedi, chiuso tra due muri. Poi si arrampicò facilmente con la scala. “Quale accoglienza mi faranno i cani da guardia?” pensava. “Il problema è tutto qui.” I cani abbaiarono e si lanciarono di corsa contro di lui, ma Julien fischiò dolcemente e le bestie gli fecero festa.
Allora, risalendo di terrazza in terrazza, sebbene tutti i cancelli fossero chiusi, poté facilmente arrivare fin sotto la finestra della camera della signora De Rênal, che, dalla parte del giardino, è alta solo una decina di piedi da terra.
C’era nelle imposte una piccola apertura a forma di cuore che Julien conosceva bene. Con suo grande dispiacere quel pertugio non era rischiarato dalla luce interna di una lampada da notte.
“Mio Dio!” pensò. “Questa notte la camera non è occupata da lei! Dove dormirà? La famiglia è a Verrières, perché ho visto i cani; ma posso trovare in questa stanza senza lampada il signor De Rênal in persona o un estraneo, e allora che scandalo!”
La cosa più prudente era ritirarsi; ma quella soluzione fece orrore a Julien. “Se si tratta di un estraneo, me la darò a gambe abbandonando la scala; ma se è lei, quale accoglienza mi aspetta? È caduta nel pentimento e nella più profonda devozione, non ne dubito. Tuttavia ha ancora qualche ricordo di me, dal momento che mi ha appena scritto.” Questa ragione lo fece decidere.
Con il cuore tremante, ma risoluto a morire o a vederla, gettò dei sassolini contro le imposte. Nessuna risposta. Allora salì sulla scala appoggiata accanto alla finestra e picchiò lui stesso contro l’imposta, dapprima lievemente, poi più forte. “Per quanto profonda sia l’oscurità,” pensò “possono spararmi un colpo di fucile.” E quel pensiero ridusse la pazza impresa a una questione di coraggio.
“Questa camera è disabitata, stanotte,” disse tra sé “oppure, chiunque sia la persona che c’è, adesso si è certamente svegliata. Perciò non vi è più da aver riguardi. Bisogna soltanto cercare di non farsi udire da quelli che dormono nelle altre camere.”
Scese, risistemò la scala contro una delle imposte, risalì e, passando la mano nell’apertura a forma di cuore, ebbe la fortuna di trovare subito il filo di ferro attaccato all’uncino che teneva chiusa l’imposta. Lo tirò e, con inesprimibile gioia, sentì che l’anta, non più trattenuta, cedeva al suo sforzo. “Bisogna aprirla a poco a poco e far riconoscere la mia voce.” L’aprì quanto bastava per introdurre la testa, ripetendo sottovoce: È un amico.
Si assicurò, tendendo l’orecchio, che nulla turbava il profondo silenzio della camera. Ma, sul caminetto, non c’era proprio nessuna lampada da notte, nemmeno molto bassa. Era un brutto segno.
“Attento alle fucilate!” Rifletté un momento, poi, con un dito, osò picchiare contro il vetro. Nessuna risposta. Bussò più forte. “Anche se dovessi rompere il vetro, bisogna finirla.”
Mentre batteva più forte, credette di intravedere nell’oscurità un’ombra bianca che attraversava la camera. Alla fine, non ebbe più dubbio: scorse una sagoma che pareva avanzare con estrema lentezza. A un tratto vide una guancia che si appoggiava al vetro contro cui teneva l’occhio.
Trasalì e si allontanò un poco. Ma l’oscurità era tanto profonda che, anche a quella distanza, lui non poté distinguere se fosse la signora De Rênal. Temette un primo grido d’allarme. Sentiva i cani girare brontolando intorno alla scala. «Sono io, un amico» ripeteva a voce abbastanza alta. Nessuna risposta. Il fantasma bianco era scomparso. «Apritemi, vi prego: bisogna che vi parli. Sono troppo infelice!» E batteva da rompere il vetro.
Si sentì un lieve rumore: la maniglia della finestra stava cedendo. Julien spinse il vetro e saltò agilmente nella stanza.
Il fantasma bianco si stava allontanando; lui l’afferrò per un braccio; era una donna. Tutti i suoi pensieri coraggiosi svanirono: “Se è lei, che cosa mi dirà?”. Ma come rimase, quando, da un lieve grido, capì che era proprio la signora De Rênal!
La strinse tra le braccia; lei tremava e aveva appena la forza di respingerlo.
«Disgraziato! Che fate?»
La sua voce convulsa poteva solo articolare queste parole, in cui Julien sentì vibrare la più sincera indignazione.
«Vengo a vedervi dopo quattordici mesi di crudele separazione.»
«Andatevene, lasciatemi immediatamente. Ah, padre Chélan, perché mi avete impedito di scrivergli? Avrei evitato questo orrore.»
Lo respinse con una forza straordinaria.
«Mi pento della mia colpa; il cielo si è degnato di illuminarmi» ripeteva con voce rotta. «Uscite! Andatevene!»
«Dopo quattordici mesi di infelicità, non vi lascerò certamente senza avervi parlato. Voglio sapere tutto ciò che avete fatto. Vi ho amata abbastanza per meritare questa confidenza… Voglio sapere tutto.»
Quel tono autorevole aveva un potere sul cuore della signora De Rênal, contro la sua volontà.
Julien, che la teneva abbracciata con passione, resistendo ai suoi sforzi per liberarsi, cessò di stringerla tra le braccia. Ciò la rassicurò un poco.
«Vado a ritirare la scala perché non ci comprometta, se qualche domestico, svegliato dal rumore, fa un giro d’ispezione.»
«Ah, no! Uscite, uscite invece» gli disse lei davvero in collera. «Che importano gli uomini? Dio vede questa scena spaventosa e mi punirà. Abusate vilmente del sentimento che provai per voi, ma che non ho più. Avete capito, signor Julien?»
Lui ritirava la scala molto lentamente per non fare rumore.
«Tuo marito è in città?» le chiese, non per sfidarla, ma per vecchia abitudine.
«Non parlatemi così, di grazia, o lo chiamo. Sono già fin troppo colpevole per non avervi scacciato, qualunque cosa potesse capitare. Ho pietà di voi» aggiunse, cercando di ferire il suo orgoglio, che sapeva tanto irritabile.
Quel rifiuto di dargli del tu, quel modo brusco di spezzare un vincolo così tenero e sul quale contava ancora, portarono fino al delirio le effusioni d’amore di Julien.
«Come! È possibile che non mi amiate più?» le disse con uno di quegli accenti accorati che non si possono ascoltare freddamente.
Lei non rispose; lui, dal canto suo, piangeva con amarezza. In realtà, non aveva più la forza di parlare.
«Così, sono completamente dimenticato dal solo essere che mi abbia mai amato! A che scopo vivere, ormai?»
Tutto il suo coraggio l’aveva abbandonato dal momento in cui non aveva più avuto da temere il pericolo di incontrare qualcuno. Tutto era scomparso dal suo cuore, tranne l’amore.
“Che differenza con quanto avveniva quattordici mesi or sono!” pensò Julien, e le sue lacrime raddoppiarono. “Dunque la lontananza distrugge irrimediabilmente tutti i sentimenti umani!”
«Degnatevi di dirmi quello che vi è capitato» disse infine lui, imbarazzato dal proprio silenzio e con voce rotta dalle lacrime.
«I miei smarrimenti erano conosciuti in città quando voi partiste» rispose lei con asprezza, e con un tono in cui si sentiva la durezza e il rimprovero per Julien. «C’era stata tanta imprudenza nel vostro contegno! Qualche tempo dopo, ero allora in preda alla disperazione, il rispettabile abate Chélan venne a trovarmi. Tentò lungamente, ma sempre invano, di ottenere una confessione. Un giorno ebbe l’idea di condurmi in quella chiesa di Digione dove ho fatto la prima comunione. Là osò parlare per primo…» Fu interrotta dalle lacrime. «Che momento di vergogna! Confessai tutto. Quell’uomo così buono non volle farmi sentire il peso della sua indignazione: si afflisse con me. In quel tempo vi scrivevo ogni giorno lettere che non ardivo spedirvi; le nascondevo con cura e, quando mi sentivo troppo infelice, mi chiudevo in camera e le rileggevo. Alla fine l’abate Chélan ottenne che gliele consegnassi… Qualcuna, scritta con maggiore prudenza, vi era stata inviata. Voi non mi rispondevate.»
«Ti giuro che non ho mai ricevuto alcuna lettera tua in seminario.»
«Mio Dio! Chi le avrà intercettate?»
«Immagina il mio dolore: prima del giorno in cui ti vidi nella cattedrale, non sapevo nemmeno se eri ancora viva.»
«Dio mi fece la grazia di farmi capire quanto peccavo verso di lui,» riprese la signora De Rênal «verso i miei figli, verso mio marito che non mi ha mai amato come credevo allora che voi mi amaste.»
Julien si gettò tra le braccia di lei, realmente fuori di sé e senza una precisa intenzione. Ma la signora De Rênal lo respinse e continuò con molta fermezza:
«Il mio rispettabile amico, l’abate Chélan, mi fece capire che, sposando il signor De Rênal, avevo impegnato tutti i miei affetti, anche quelli che non conoscevo e che non avevo mai provato prima di quella relazione fatale… Dopo il grande sacrificio delle lettere, che mi erano così care, la mia vita è trascorsa, se non felice, almeno abbastanza serena. Non la turbate; siate un amico per me… Il migliore dei miei amici».
Julien le coprì le mani di baci; lei sentì che piangeva ancora.
«Non piangete; mi fate tanta pena… Ditemi, ora, che cosa avete fatto voi.» Lui non poteva parlare.
«Voglio conoscere la vostra vita in seminario» ripeté. «Poi ve ne andrete.»
Senza pensare a ciò che raccontava, Julien parlò degli intrighi e delle invidie innumerevoli che aveva dapprima incontrato; poi della vita più tranquilla da quando era stato nominato ripetitore.
«Fu allora che,» aggiunse «dopo un lungo silenzio, destinato certo a farmi capire ciò che vedo oggi, ossia che non mi amavate più e che vi ero diventato indifferente…» la signora De Rênal gli strinse le mani «fu allora che ricevetti da voi cinquecento franchi.»
«Mai» disse lei.
«Era una lettera con il timbro di Parigi e firmata Paul Sorel, per allontanare ogni sospetto.»
Sorse una piccola discussione sull’origine possibile di quella lettera. Il loro atteggiamento cambiò. Senza accorgersene, la signora De Rênal e Julien avevano abbandonato il tono solenne: erano tornati a quello di una tenera amicizia. Non si vedevano, tanto l’oscurità era profonda, ma il suono delle voci diceva tutto. Julien passò il braccio intorno alla vita della sua amica. Quel gesto era molto pericoloso. Lei cercò di allontanarlo, ma il giovane, con molta abilità, attirò l’attenzione di lei su una circostanza interessante del suo racconto. Il braccio fu come dimenticato e rimase dov’era.
Dopo molte congetture sull’origine della lettera con i cinquecento franchi, Julien aveva ripreso il suo racconto. Diventava un po’ più padrone di sé, parlando della sua vita passata che, paragonata a ciò che gli accadeva in quel momento, lo interessava così poco. La sua attenzione si rivolse tutta al modo con il quale si sarebbe conclusa la sua visita.
«Andatevene, ora» gli ripeteva lei, di tanto in tanto, in tono asciutto.
“Che vergogna per me, se mi lascio mandare via! Sarà un rimorso che avvelenerà tutta la mia vita” pensava Julien. “Non mi scriverà mai. Sa Dio quando tornerò in questo paese!” Da quel momento, tutto ciò che vi era di romantico nella sua situazione scomparve rapidamente dal suo cuore. Seduto accanto a una donna adorata, stringendola quasi tra le braccia, in quella camera dove era stato così felice, in mezzo a un’oscurità profonda, scorgendo chiaramente che, da qualche momento, lei piangeva, sentendo dai sussulti del suo petto che singhiozzava, lui ebbe la disgrazia di diventare un freddo politico, quasi altrettanto calcolatore di quando, nel cortile del seminario, si vedeva esposto a qualche brutto scherzo da parte di un compagno più forte di lui. Prolungava il suo racconto e parlava della vita infelice che aveva condotto dopo la sua partenza da Verrières. “Dunque,” pensava la signora De Rênal “dopo un anno di assenza, quasi completamente privo di qualcosa che aiutasse il mio ricordo, mentre io lo dimenticavo, lui non pensava ad altro che ai giorni felici trascorsi a Vergy.” I suoi singhiozzi raddoppiavano. Julien intravide il successo del suo racconto e comprese che bisognava tentare l’ultima risorsa: arrivò bruscamente alla lettera che aveva ricevuto da Parigi.
«Mi sono congedato da monsignor vescovo.»
«Come! Non tornate a Besançon? Ci lasciate per sempre?»
«Sì» rispose con risolutezza. «Lascio un paese nel quale sono dimenticato perfino da chi ho più amato nella mia vita, e lo lascio per non ritornarvi più. Vado a Parigi…»
«Vai a Parigi!» esclamò a voce abbastanza alta la signora De Rênal.
Le sue parole erano quasi soffocate dalle lacrime e rivelavano tutto il suo turbamento. Julien aveva bisogno di questo incoraggiamento: stava per tentare un passo che poteva rivolgersi tutto contro di lui; e prima di quell’esclamazione, non vedendoci, ignorava completamente l’effetto che riusciva a produrre. Non esitò più; il timore del rimorso gli dava il pieno dominio su sé stesso; aggiunse freddamente, alzandosi:
«Sì, signora, vi lascio per sempre. Siate felice, addio».
Fece qualche passo verso la finestra. La stava già aprendo quando la signora De Rênal corse verso di lui, gettandosi tra le sue braccia.
Così, dopo tre ore di colloquio, Julien ottenne ciò che aveva desiderato con tanta passione nelle prime due. Il ritorno ai sentimenti teneri, la scomparsa dei rimorsi nella signora De Rênal, un po’ prima sarebbero stati per lui una gioia divina; ottenuti invece con l’arte, non furono altro che un piacere. Julien, nonostante le proteste della sua amica, volle accendere la lampada da notte.
«Vuoi dunque» le diceva «che non mi resti alcun ricordo di averti veduta? L’amore in questi occhi affascinanti sarà, dunque, perduto per me? Il candore di questa bella mano mi sarà invisibile? Pensa che ti lascio per molto tempo, forse!»
La signora De Rênal, a quel pensiero che la faceva scoppiare in lacrime, non poteva rifiutare nulla. Ma già l’alba cominciava a disegnare nettamente i profili degli abeti sui monti a oriente di Verrières. Invece di andarsene, Julien, ebbro di voluttà, le chiese di passare tutta la giornata nascosto nella sua camera e di partire solo la notte seguente.
«E perché no?» rispose lei. «Questa fatale ricaduta mi toglie ogni stima verso me stessa e crea per sempre la mia infelicità.» E se lo stringeva al cuore. «Mio marito non è più lo stesso: ha dei sospetti; crede che lo abbia raggirato in tutta questa faccenda e si mostra molto irritato con me. Se ode il minimo rumore, sono perduta. Mi scaccerà, da quella sciagurata che sono.»
«Ah! Ecco una frase dell’abate Chélan!» disse Julien. «Non avresti parlato così prima di quella crudele partenza per il seminario. Allora mi amavi!»
Julien fu ricompensato del sangue freddo che aveva messo in quelle parole: viDe La sua amica dimenticare improvvisamente il pericolo che le faceva correre la presenza del marito per pensare all’altro più grande di veder Julien dubitare del suo amore. La luce del giorno aumentava rapidamente e rischiarava la camera; Julien ritrovò tutte le voluttà dell’orgoglio quando poté rivedere fra le sue braccia e quasi ai suoi piedi quella donna affascinante, la sola che avesse amato e che, poche ore prima, era tutta presa dal timore di un Dio terribile e dall’amore per i propri doveri. Le risoluzioni rafforzate da un anno di fermezza non avevano potuto resistere di fronte al coraggio di lui.
Ben presto si udirono rumori nella casa; un pensiero inatteso turbò la signora De Rênal.
«Quella maligna di Elisa entrerà in camera. Che fare di questa enorme scala?» disse all’amico. «Dove nasconderla? La porterò in granaio» aggiunse a un tratto, con una specie di gaiezza.
«Ma bisogna passare per la camera del domestico» disse Julien stupito.
«Lascerò la scala nel corridoio, chiamerò il domestico e lo allontanerò con un incarico.»
«Pensa a preparare un pretesto nel caso in cui il domestico si accorgesse della scala passando per il corridoio.»
«Sì, angelo mio» disse la signora De Rênal dandogli un bacio. «Tu pensa a nasconderti subito sotto il letto, se, durante la mia assenza, Elisa entrerà qui.»
Julien fu meravigliato per quella gioia improvvisa. “Ecco,” pensò “l’avvicinarsi di un pericolo materiale, invece di turbarla, le ridona la sua allegria, perché dimentica i rimorsi! Donna davvero superiore! Ecco un cuore sul quale è glorioso regnare.”
Julien era in estasi.
La signora De Rênal prese la scala, che, evidentemente, era troppo pesante per lei. Julien stava per aiutarla, ammirando quell’elegante figura così lontana dal sembrare forte, quando, a un tratto, senza aiuto, lei sollevò la scala come se fosse stata una sedia. La portò rapidamente nel corridoio del terzo piano e lì la appoggiò lungo il muro. Chiamò il domestico e, per lasciargli il tempo di vestirsi, salì nella colombaia. Cinque minuti dopo, ritornata nel corridoio, non trovò più la scala. Dove era finita? Se Julien fosse stato fuori di casa, quel fatto non l’avrebbe minimamente toccata. Ma, in quel momento, se suo marito avesse visto la scala! L’incidente poteva avere terribili conseguenze. Corse dappertutto e, alla fine, la trovò sotto il tetto, dove il domestico l’aveva portata e anche nascosta. La circostanza era strana; in altri tempi l’avrebbe messa in allarme.
“Che cosa mi importa” pensò “di quello che può accadere tra ventiquattr’ore, quando Julien sarà partito? Non sarà tutto orrore e rimorso, per me, allora?”
Aveva come un’idea vaga di dover morire; ma che importava? Dopo una separazione che aveva creduto eterna, lui le veniva restituito, lo rivedeva e ciò che aveva fatto per giungere fino a lei rivelava tanto amore!
«Che risponderò a mio marito» gli disse «se il domestico gli racconta di averla trovata?» Rifletté un momento. «Occorreranno ventiquattr’ore perché possano scoprire il contadino che te l’ha venduta.» E, gettatasi tra le braccia di lui, stringendolo convulsamente: «Ah, morire, morire così!» esclamò mentre lo copriva di baci. «Ma non è necessario che tu muoia di fame!» aggiunse, poi, ridendo. «Vieni, ti nasconderò nella camera della signora Derville, che è sempre chiusa a chiave.»
Andò a mettersi di guardia all’estremità del corridoio e Julien passò di corsa.
«Bada di non aprire, se bussano» gli disse chiudendo l’uscio a chiave. «In ogni caso, non potrebbe essere che uno scherzo dei ragazzi, durante uno dei loro giochi.»
«Falli andare in giardino, sotto la finestra,» disse Julien «perché io possa avere il piacere di vederli. Falli parlare.»
«Sì, sì» gli gridò la signora De Rênal allontanandosi.
Tornò subito dopo con arance, biscotti e una bottiglia di vino di Malaga. Non le era stato possibile rubare del pane.
«Che fa tuo marito?» chiese Julien.
«Prepara progetti di contratti con alcuni contadini.»
Le otto erano già suonate e si udivano molti rumori in casa. Se non avessero visto la signora De Rênal, l’avrebbero cercata dappertutto; fu obbligata a lasciarlo. Poco dopo tornò ancora, contro ogni prudenza, portandogli una tazza di caffè; temeva che morisse di fame. Dopo colazione riuscì a condurre i bambini sotto la finestra della camera della signora Derville. Lui li trovò molto cresciuti, ma gli parve che avessero assunto un’aria comune, oppure il suo modo di guardarli era cambiato.
La signora De Rênal parlò loro di Julien. Il maggiore rispose con sentimenti d’amicizia e di rimpianto per l’antico precettore; ma si vide che il più piccolo lo aveva quasi dimenticato.
Quella mattina il signor De Rênal non uscì. Andava continuamente su e giù per la casa, occupato a concludere affari con certi contadini ai quali vendeva il suo raccolto di patate. Fino all’ora del pranzo, la signora De Rênal non trovò un attimo da dedicare al suo prigioniero. Quando il pranzo fu servito, ebbe l’idea di rubare per lui una scodella di minestra calda. Mentre si avvicinava senza fare rumore alla porta della camera in cui stava Julien, portando il piatto con precauzione, si trovò faccia a faccia con il domestico che aveva nascosto la scala la mattina. In quel momento anche lui avanzava nel corridoio senza fare rumore e come ascoltando. Probabilmente, Julien aveva camminato con imprudenza. Il domestico si allontanò un po’ confuso. La signora De Rênal entrò audacemente da Julien; e, sentendo di quell’incontro, lui fremette.
«Tu hai paura!» gli disse lei. «Io invece sfiderei tutti i pericoli del mondo senza battere ciglio. Non ho paura d’altro che del momento in cui rimarrò sola dopo la tua partenza.» E corse via.
“Ah!” pensò Julien esaltandosi. “Quest’anima sublime teme solo il rimorso!”
Finalmente giunse la sera. Il signor De Rênal andò al Circolo.
La moglie aveva accusato un’atroce emicrania. Si ritirò in camera, si affrettò a mandar via Elisa e si alzò subito dopo per aprire a Julien.
Lui moriva realmente di fame. La signora De Rênal andò nella dispensa a cercare del pane. Julien udì un grido acuto. Lei tornò e gli disse che, entrando nella dispensa al buio e avvicinandosi a una credenza, aveva toccato un braccio di donna. Era Elisa che aveva lanciato il grido sentito da Julien.
«Che faceva là?»
«Rubava qualche dolciume o ci spiava» rispose lei con assoluta indifferenza. «Per fortuna ho trovato un po’ di pasticcio e una grossa pagnotta.»
«Che cos’hai lì?» chiese Julien indicando le tasche del suo grembiule.
Lei aveva dimenticato che, dall’ora del pranzo, erano piene di pane.
Julien la strinse tra le braccia con la passione più ardente: non gli era mai sembrata così bella. “Neppure a Parigi” pensava confusamente “potrei trovare un più grande carattere.” Lei aveva tutta la goffaggine di una donna poco avvezza a quel genere di faccende e, al tempo stesso, il vero coraggio di chi teme solo pericoli di altra natura e ben più terribili.
Mentre Julien cenava con grande appetito e la sua amica scherzava sulla semplicità di quel pasto, perché aveva orrore di parlare seriamente, l’uscio della camera fu scosso all’improvviso con violenza. Era il signor De Rênal.
«Perché ti sei chiusa dentro?» gridava.
Julien ebbe appena il tempo di scivolare sotto il divano.
«Come? Siete completamente vestita!» disse il signor De Rênal entrando. «State cenando e avete chiuso la porta a chiave!»
In un giorno qualunque, quella domanda, fatta con tutta la durezza coniugale, avrebbe turbato la signora De Rênal; ma lei sapeva che al marito sarebbe bastato abbassarsi un po’ per scorgere Julien. Il sindaco si era infatti seduto sulla sedia che Julien occupava un momento prima, di fronte al divano.
L’emicrania servì da scusa a tutto. Mentre a sua volta il marito le raccontava a lungo le fasi della partita a biliardo che poco prima aveva vinto al Circolo – «Una partita da diciannove franchi, nientemeno!» aggiungeva –, lei vide sopra una sedia, a tre passi da loro, il cappello di Julien. Il suo sangue freddo raddoppiò; comincio a svestirsi e, a un certo momento, passando rapidamente dietro il marito, gettò l’abito sulla sedia dove c’era il cappello.
Finalmente il signor De Rênal se ne andò. Lei pregò Julien di ripeterle il racconto della sua vita in seminario: «Ieri non ti ascoltavo: mentre tu parlavi, non pensavo ad altro che a trovare in me stessa la forza di mandarti via».
Era l’imprudenza in persona. Parlavano a voce alta. Potevano essere le due, quando furono interrotti da un violento colpo alla porta. Era ancora il signor De Rênal.
«Apritemi subito: vi sono dei ladri in casa!» diceva. «Stamani Saint Jean ha trovato la loro scala.»
«Tutto è finito!» esclamò la signora De Rênal gettandosi tra le braccia di Julien. «Ci ucciderà entrambi. Non crede ai ladri. Morirò fra le tue braccia, più felice nella morte di quanto sia stata in vita.»
Non rispondeva affatto al marito che si infuriava, baciava Julien con passione.
«Salva la madre di Stanislas» le disse lui con uno sguardo di comando. «Salterò nel cortile dalla finestra dello spogliatoio e fuggirò in giardino: i cani mi hanno riconosciuto. Fa’ un pacchetto dei miei abiti e gettameli appena potrai. Intanto, lascia che tuo marito sfondi l’uscio e, soprattutto, nessuna confessione: te lo proibisco. Meglio che abbia dei sospetti che delle certezze.»
«Ti ucciderai, saltando!» fu la sua sola risposta e la sua sola inquietudine.
Andò con lui alla finestra dello spogliatoio: prese, poi, il tempo per nascondere gli abiti di lui e, alla fine, aprì al marito, furibondo di collera. Lui guardò nella camera, nello spogliatoio, senza dire nulla, e scomparve. Gli abiti di Julien gli furono gettati, lui li afferrò e si allontanò rapidamente verso la parte bassa del giardino, dal lato del Doubs.
Mentre correva, udì fischiare un proiettile e subito dopo la detonazione di un fucile. “Non è il signor De Rênal,” pensò “tira troppo male per essere lui.” I cani correvano silenziosi accanto a lui. Un secondo colpo dovette spezzare la zampa di uno di loro, perché si mise a guaire lamentosamente. Julien saltò il muro di una terrazza, fece al coperto una cinquantina di passi e si rimise a correre in un’altra direzione. Udì delle voci che si chiamavano e vide distintamente il domestico, suo nemico, tirare una fucilata; anche un fittavolo sparò dall’altra parte del giardino; ma Julien, raggiunta la sponda del Doubs, si rivestiva.
Un’ora dopo era a un miglio da Verrières, sulla strada di Ginevra. “Se hanno dei sospetti,” pensò “mi cercheranno sulla strada di Parigi.”
1 – The Edinburgh Review: rivista intellettuale scoperta da Stendhal a Milano nel 1816, della quale lo scrittore divenne un assiduo lettore.
2 – quinto piano: la servitù e le persone di ceto basso che abitavano generalmente i piani più alti dei palazzi.
3 – in pace: così era chiamata nei conventi la cella di rigore.