Il lusso dei vestiti, lo splendore dei doppieri, i profumi: tante belle braccia e belle spalle; mazzi di fiori, commoventi musiche
di Rossini, quadri di Ciceri! Sono in estasi!
Viaggi di Uzeri1
«Siete di malumore,» le disse la marchesa De La Mole «vi avverto che è di cattivo gusto a un ballo.»
«Ho soltanto un po’ di mal di testa» rispose Mathilde in tono sdegnoso. «Fa troppo caldo, qui.»
In quel momento, come per giustificare le sue parole, il vecchio barone de Tolly fu preso da un malore e cadde a terra. Dovettero portarlo fuori. Si parlò di colpo apoplettico; fu un incidente sgradevole.
Mathilde non se ne occupò affatto. Di proposito non guardava mai né i vecchi né tutti quelli che avevano fama di dire cose tristi.
Ballò per sottrarsi alle conversazioni su quella apoplessia, che in realtà non era tale, perché, due giorni dopo, il barone riapparve in società.
“E Sorel non viene” pensò ancora dopo aver ballato. Stava quasi cercandolo con gli occhi, quando lo scorse in un altro salotto. Cosa stupefacente, sembrava aver perduto quel tono di freddezza impassibile che gli era tanto naturale: non aveva più l’aria inglese.
“Discorre con il conte Altamira, il mio condannato a morte!” disse tra sé Mathilde. “I suoi occhi son pieni di un cupo ardore. Ha l’aria di un principe travestito e nel suo sguardo l’orgoglio è raddoppiato.”
Julien si stava avvicinando a Mathilde, sempre parlando con Altamira. Lei lo guardava fissamente e studiava i tratti del suo volto per scoprire anche in lui quelle alte qualità che possono valere a un uomo l’onore di una condanna a morte.
Mentre passavano vicino a lei, lo udì che diceva al conte Altamira: «Sì, Danton era un uomo!».
“Cielo! Che sia un Danton?” pensò Mathilde. “Ma ha un volto così nobile, e quel Danton era così orribilmente brutto, così macellaio, credo.”
Julien era ancora abbastanza vicino e lei non esitò a chiamarlo. Aveva la coscienza e l’orgoglio di fare una domanda inusitata per una fanciulla.
«Non era un macellaio, Danton?» gli chiese.
«Sì, agli occhi di certa gente» le rispose Julien con l’espressione del più malcelato disprezzo e lo sguardo ancora ardente per il colloquio con Altamira. «Ma, disgraziatamente per le persone bennate, era avvocato a Mery-sur-Seine; vale a dire, signorina,» aggiunse con aria cattiva «che ha cominciato come molti pari che vedo qui. Però è vero che Danton aveva uno svantaggio enorme agli occhi di chi possieDe La bellezza: era bruttissimo.»
Queste ultime parole furono dette rapidamente, con un tono singolare e certo assai poco gentile.
Julien si fermò un momento, con il corpo atteggiato a un lieve inchino e l’aria orgogliosamente umile. “Sono pagato per rispondervi” pareva dicesse “e vivo della mia paga.” Non si degnava di alzare lo sguardo su di lei. Mathilde, con i suoi begli occhi azzurri spalancati e fissi su di lui, sembrava la sua schiava. Alla fine, poiché il silenzio continuava, lui la guardò come un domestico guarda il padrone per ricevere ordini. Sebbene gli occhi incontrassero in pieno quelli di Mathilde, sempre fissi su di lui con uno sguardo strano, si allontanò con ostentata premura.
“Lui, che è realmente così bello,” pensò infine Mathilde uscendo dalla sua fantasticheria “fa un elogio della bruttezza! Non si smentisce mai! Non è come Caylus o Croisenois. Quel Sorel ha qualcosa dell’atteggiamento che assume mio padre quando imita così bene Napoleone al ballo.” Aveva del tutto dimenticato Danton. “Decisamente, questa sera mi annoio.” Prese il braccio di suo fratello e, con molto dispiacere di quest’ultimo, lo costrinse a fare un giro per le sale. Le venne l’idea di ascoltare la conversazione tra Julien e il condannato a morte.
La folla era enorme. Tuttavia, Mathilde riuscì a raggiungerli nel momento in cui Altamira, due passi davanti a lei, si avvicinava a un vassoio per prendere un gelato. Il conte, mentre parlava a Julien con il corpo voltato a metà, scorse la manica ricamata di un braccio che prendeva un gelato accanto al suo. Quel ricamo parve attirare la sua attenzione: si girò completamente per vedere la persona alla quale apparteneva e subito i suoi occhi così nobili e così ingenui assunsero una lieve espressione di sdegno.
«Vedete quell’uomo?» disse sottovoce a Julien. «È il principe d’Araceli, ambasciatore di… Questa mattina ha chiesto la mia estradizione al vostro ministro degli Esteri, il signor de Nerval. Guardate: eccolo laggiù che gioca a wisth. Il signor de Nerval è ben disposto a consegnarmi, perché noi vi abbiamo dato due o tre cospiratori nel 1816. Se mi rendono al mio re, sarò impiccato in ventiquattro ore. E sarà qualcuno di questi bei signori coi baffi che mi agguanterà.»
«Infami!» esclamò Julien quasi ad alta voce.
Mathilde non perdeva una sillaba della loro conversazione. La noia era scomparsa.
«Non tanto infami» rispose il conte Altamira. «Vi ho parlato di me solo per impressionarvi con un’immagine reale. Osservate il principe d’Araceli: ogni cinque minuti sbircia il suo Toson d’oro. Non riesce a dominare la gioia di vedersi quel gingillo sul petto. Il pover’uomo, in fondo, non è altro che un anacronismo. Cento anni fa, il Toson d’oro era un’onorificenza insigne, ma allora lui non avrebbe potuto nemmeno sognarsela. Oggi, tra le persone bennate, bisogna essere un Araceli per esserne estasiati. Avrebbe fatto impiccare tutta una città per ottenerlo.»
«Ed è a questo prezzo che l’ha avuto?» chiese Julien con ansia.
«Non precisamente» rispose, freddo, Altamira. «Forse ha fatto gettare nel fiume una trentina di ricchi proprietari del suo paese che passavano per liberali.»
«Che mostro!» disse ancora Julien.
La signorina De La Mole, tendendo il collo con il più vivo interesse, gli era così vicina che i suoi bei capelli gli toccavano quasi la spalla.
«Siete molto giovane!» rispose Altamira. «Vi dicevo che ho una sorella sposata in Provenza. È ancora bella, buona, dolce; è un’ottima madre di famiglia, fedele a tutti i suoi doveri, pia e non bigotta.»
“Dove vuole arrivare?” pensava la signorina De La Mole.
«È felice,» continuò il conte Altamira «o almeno lo era nel 1815. Allora stavo nascosto da lei, nella sua proprietà nei pressi di Antibes: ebbene, quando apprese la notizia dell’esecuzione del maresciallo Ney, si mise a ballare!»
«È possibile?» domandò Julien dolorosamente stupito.
«È lo spirito di parte» continuò Altamira. «Non ci sono più vere passioni nel secolo XIX ed è per questo che, in Francia, ci si annoia tanto. Si compiono le cose più crudeli, ma senza crudeltà.»
«Tanto peggio! Quando si commettono dei delitti, bisogna almeno commetterli con piacere: non hanno altro di buono e solo così possono essere, almeno in parte, giustificati.»
La signorina De La Mole, dimenticando completamente ciò che le imponeva il suo grado, si era quasi del tutto insinuata tra Altamira e Julien. Suo fratello, che le dava il braccio, assuefatto a obbedirle, guardava da un’altra parte della sala e, per darsi un contegno, fingeva di essere trattenuto dalla folla.
«Avete ragione,» diceva Altamira «si fa tutto senza piacere e senza ricordarsene: perfino i delitti. Vi posso mostrare qui, questa sera, dieci uomini che saranno dannati come assassini. Loro l’hanno dimenticato e anche gli altri. Molti di costoro si commuovono fino alle lacrime se il loro cane si rompe una zampa. Al cimitero del Père-Lachaise, quando si gettano fiori sulle loro tombe, come dite così comicamente a Parigi, i presenti ci informano che avevano tutte le virtù dei prodi cavalieri e si parla delle grandi imprese di quei loro bisavoli che vivevano al tempo di Enrico IV. Se, nonostante i buoni uffici del principe d’Araceli, non sarò impiccato – e se mai potrò usufruire della mia ricchezza a Parigi –, vi farò pranzare con otto o dieci assassini onorati e senza rimorsi. Soltanto voi e io, in quel pranzo, non saremo macchiati di sangue; ma io sarò disprezzato e quasi odiato come un mostro sanguinario e giacobino, e voi disprezzato semplicemente come un uomo del popolo, un intruso nella buona società.»
«Nulla di più vero» disse la signorina De La Mole.
Altamira la guardò stupefatto; Julien non la degnò di uno sguardo.
«Badate che la rivoluzione della quale mi sono trovato a capo» continuò il conte «non è riuscita unicamente perché io non ho voluto far cadere tre teste, né distribuire ai nostri partigiani sette o otto milioni che si trovavano in una cassa della quale avevo la chiave. Il mio re, che oggi arde dal desiderio di farmi impiccare e che, prima della rivolta, mi dava del tu, mi avrebbe insignito del gran cordone del suo ordine se avessi fatto cadere quelle tre teste e distribuito quel denaro, perché avrei ottenuto almeno un mezzo successo e il mio Paese avrebbe avuto una Costituzione qualunque… Così va il mondo: è una partita a scacchi.»
«Allora voi non conoscevate il gioco,» riprese Julien con lo sguardo ardente «ma adesso…»
«Sacrificherei delle persone, volete dire, e non sarei un girondino, come mi avete fatto capire l’altro giorno?… Vi risponderò» riprese Altamira con aria triste «quando avrete ucciso un uomo in duello, che è dopo tutto molto meno infame che farlo ammazzare da un carnefice.»
«In fede mia!» disse Julien. «Il fine giustifica i mezzi. Se, invece di essere un’inezia, avessi un certo potere, farei impiccare tre uomini, per salvare la vita a quattro.»
Il suo sguardo esprimeva la fiamma della coscienza e il disprezzo per gli inutili giudizi umani; i suoi occhi incontrarono quelli della signorina De La Mole vicinissima a lui, e quel disprezzo, invece di mutarsi in un atteggiamento garbato e cortese, parve raddoppiare.
Lei ne rimase profondamente ferita, ma non le fu più possibile dimenticare Julien. Si allontanò con dispetto, trascinando il fratello.
“Bisogna che beva un punch e che balli molto” pensò. “Voglio scegliere ciò che vi è di meglio e fare colpo a ogni costo. Bene, ecco quel famoso impertinente del conte de Fervaques.”
Accettò il suo invito. Ballarono.
“Si tratta di vedere chi di noi due sarà il più irriverente” pensò. “Ma, per burlarmi in pieno di lui, devo farlo parlare.” Ben presto tutte le altre coppie della contraddanza ballarono soltanto per convenienza. Non volevano perdere nessuna delle risposte pungenti di Mathilde. Il conte de Fervaques era nervoso e trovando solo frasi eleganti invece di idee, si irritava. Mathilde, che era di cattivo umore, fu crudele con lui e se ne fece un nemico. Ballò fino all’alba e si ritirò terribilmente stanca. Ma, in carrozza, quel po’ di energia che le rimaneva serviva ancora a renderla triste e infelice. Era stata disprezzata da Julien e non poteva ricambiarlo con uguale disprezzo.
Julien era al colmo della felicità. In estasi, senza rendersene conto, per la musica, i fiori, le belle donne, l’eleganza generale e, soprattutto, per la sua immaginazione che sognava distinzioni per sé e la libertà per tutti, disse al conte Altamira: «Che ballo riuscito; non manca niente».
«Manca il pensiero» rispose Altamira. E il suo volto tradiva quel disprezzo che è ancora più pungente perché si vede che l’educazione impone il dovere di nasconderlo.
«Ci siete voi, signor conte. Il pensiero è ancora costretto a cospirare, non è vero?»
«Mi trovo qui per il nome che porto. Ma nei vostri salotti il pensiero è odiato. Bisogna che esso non si innalzi oltre l’ironia di una strofa d’operetta: solo allora è ricompensato. Ma l’uomo che pensa, se ha un po’ di energia e di novità nelle sue trovate, lo chiamate cinico. Non è così che un vostro giudice ha definito Courier?2 Lo avete chiuso in prigione come Béranger. Nel vostro paese, tutto ciò che intellettualmente vale qualcosa è consegnato dalla Congregazione alla polizia correzionale, e la buona società applaude. Ciò avviene perché la vostra società invecchiata apprezza soprattutto le convenienze… Non vi eleverete mai al di sopra del valore militare: avrete dei Murat, ma mai dei Washington. In Francia non vedo altro che vanità. Un uomo che inventa, parlando, arriva con facilità a qualche uscita imprudente, e il padrone di casa si crede disonorato.»
Mentre il conte faceva quest’ultima considerazione, la sua carrozza – con la quale riaccompagnava Julien – si fermò davanti al palazzo De La Mole. Julien era affascinato dal suo cospiratore. Altamira gli aveva rivolto questo bel complimento, frutto, senza dubbio, di una profonda convinzione: «Voi non avete la leggerezza dei francesi e capite il principio dell’utilità».
Proprio due giorni prima il giovane aveva visto la tragedia di Casimir Delavigne, Marin Faliero.
“Israel Bertuccio non ha, forse, più carattere di tutti quei nobili veneziani?” pensava il nostro plebeo ribelle. “Eppure si tratta di gente la cui nobiltà documentata risale all’anno 700, un secolo prima di Carlo Magno; mentre tutto ciò che vi era di più nobile, questa sera, al ballo del duca de Retz, risale solo, e un po’ zoppicando, al secolo XIII. Ebbene, in mezzo a tanti nobili veneziani così illustri per nascita, ci si ricorda soltanto di Israel Bertuccio. Una congiura annulla tutti i titoli assegnati dai capricci della società: un uomo assume di colpo il posto che gli assegna il suo modo di guardare in faccia la morte. Lo stesso spirito perde il suo potere… Che sarebbe Danton, oggi, in questo secolo dei Valenod e dei Rênal? Nemmeno un sostituto procuratore del re… Che dico? Si sarebbe venduto alla Congregazione; sarebbe ministro, perché, in fondo, questo grande Danton ha rubato. Anche Mirabeau si è venduto. Napoleone aveva rubato parecchi milioni in Italia, senza di che sarebbe stato bloccato dalla povertà, come è accaduto a Pichegru. Solo Lafayette non ha mai rubato. Bisogna rubare? Bisogna vendersi?” pensò. E quelle domande lo bloccarono. Passò il resto della notte a leggere la storia della Rivoluzione.
Il giorno dopo, scrivendo le sue lettere in biblioteca, non pensava ad altro che alla conversazione con il conte Altamira.
“In realtà,” diceva tra sé dopo una lunga fantasticheria “se quei liberali spagnoli avessero compromesso il popolo con dei delitti, non li avrebbero spazzati via con tanta facilità. Sono stati dei ragazzi orgogliosi e chiacchieroni… e anch’io!” esclamò improvvisamente, come svegliandosi di soprassalto.
“Che cosa ho fatto di difficile per avere il diritto di giudicare dei poveri diavoli i quali, infine, una volta nella vita, hanno osato, hanno cominciato ad agire? Sono come un uomo che, alzandosi da tavola, esclama: ‘Domani non mangerò, e questo non m’impedirà di essere forte e allegro come sono oggi’. Chi può immaginare ciò che si prova a metà strada di una grande azione?…”
Quei pensieri profondi furono interrotti dall’arrivo imprevisto della signorina De La Mole, che entrava in biblioteca. Julien era talmente eccitato dalla sua ammirazione per Danton, Mirabeau e Carnot, i quali hanno saputo non essere dei vinti, che il suo sguardo si fermò su Mathilde, ma senza ch’egli pensasse a lei, senza che le rivolgesse un saluto, quasi senza vederla. Quando, finalmente, i suoi grandi occhi spalancati si accorsero della presenza di lei, lo sguardo si spense. La signorina De La Mole osservò questo fatto con amarezza.
Inutilmente gli chiese un volume della Storia di Francia di Vély, sistemato sullo scaffale più alto, il che obbligava Julien a prendere la più grande delle due scale. Il giovane aveva avvicinato la scala, aveva preso il volume e glielo aveva porto, senza riuscire ancora a pensare a lei. Mentre rimetteva a posto la scala, assorto com’era, urtò con il gomito uno degli specchi della biblioteca e il rumore del vetro che si infrangeva al suolo finalmente lo risvegliò. Si affrettò a fare delle scuse a Mathilde; volle essere gentile: e non fu niente di più. Mathilde si avvide con chiarezza che lo aveva disturbato e che lui avrebbe preferito continuare con i suoi pensieri, piuttosto che discorrere con lei. Dopo averlo osservato a lungo, si allontanò lentamente. Julien la guardava camminare e godeva del contrasto fra la semplicità del suo attuale abbigliamento e la magnifica eleganza di quello della sera prima. La differenza tra le due espressioni era altrettanto sorprendente. Quella ragazza così altera al ballo del duca de Retz aveva in quel momento uno sguardo quasi supplichevole. “Quel vestito nero mette ancora più in risalto la bellezza del suo corpo” pensò Julien. “Ha un portamento da regina; ma perché è in lutto? Se chiedo a qualcuno la causa di quel lutto, si penserà che commetto un’altra goffaggine.”
Era ormai disceso dalle altezze del suo entusiasmo: “Bisogna che rilegga tutte le lettere che ho scritto questa mattina. Sa Dio quante parole saltate e quante balordaggini vi troverò!”. Mentre leggeva con un’attenzione forzata la prima di quelle lettere, udì vicinissimo il fruscio di una veste di seta. Si voltò. La signorina De La Mole era a due passi dalla scrivania. Rideva. Quella seconda interruzione lo infastidì.
In quanto a Mathilde, aveva sentito poco prima molto chiaramente di non essere nulla per quel giovane. Il suo riso serviva a nascondere l’imbarazzo e ci riuscì.
«Evidentemente, signor Sorel, state pensando a qualcosa di molto interessante. Non si tratta, forse, di qualche aneddoto curioso sulla cospirazione del conte Altamira? Ditemi di che cosa si tratta; ardo dal desiderio di saperlo: sarò discreta, ve lo giuro!»
Lei si meravigliò di queste sue parole, mentre le udiva uscire dalla sua bocca. “Come? Supplicare un subalterno?”
Poiché il suo imbarazzo aumentava, aggiunse in tono leggero:
«Che cosa mai ha potuto trasformare voi, di solito così freddo, in un essere ispirato, una specie di profeta michelangiolesco?».
Quella domanda indiscreta e vivace colpì profondamente Julien e gli ridiede tutta la sua arroganza.
«Danton ha fatto bene a rubare?» le chiese bruscamente e con un tono che diventava sempre più aspro. «I rivoluzionari piemontesi e spagnoli dovevano compromettere il popolo con dei delitti? Dovevano dare a persone anche prive di merito tutti i gradi nell’esercito, tutte le decorazioni? Coloro che ne erano insigniti non avrebbero, forse, temuto il ritorno del re? Bisognava mettere a sacco il tesoro di Torino? Insomma, signorina,» continuò avvicinandosi a lei con piglio terribile «l’uomo che vuole scacciare dal mondo l’ignoranza e il delitto, deve passare come la tempesta e seminare il male?»
Mathilde si spaventò, non seppe sostenere il suo sguardo e indietreggiò di due passi. Lo osservò un attimo, poi, vergognosa della sua paura, uscì dalla biblioteca con passo leggero.
1 – Viaggi di Uzeri: risultano ignoti sia quest’opera sia il suo autore.
2 – Courier: Paul-Louis Courier (1772-1825), autore di numerosi libelli polemici, anche contro il governo della Restaurazione.