Ammiro la sua bellezza, ma temo il suo spirito.
Mérimée1
Se Julien si fosse preoccupato di osservare ciò che avveniva in salotto invece di passare il tempo a magnificare a sé stessola bellezza di Mathilde, o ad accalorarsi contro l’alterigia di famiglia che lei dimenticava solo per lui, avrebbe capito in che cosa consisteva il dominio della giovane su ciò che la circondava. Se qualcuno era sgradito alla signorina De La Mole, lei lo sapeva punire con un’arguzia così misurata, così ben scelta, così lecita in apparenza, lanciata così a proposito, che la ferita si inaspriva, quanto più chi l’aveva ricevuta ci ripensava e ne sentiva a poco a poco tutta l’atrocità per l’amor proprio offeso. Poiché lei non dava nessun valore a cose che erano oggetto di vivissimi desideri per il resto della famiglia, appariva sempre fredda ai loro occhi. I salotti dell’aristocrazia sono piacevoli da nominare solo quando se ne esce, ma niente di più. La pura cortesia ha un valore intrinseco unicamente per i primi giorni. Julien lo stava sperimentando dopo il primo incanto, dopo il primo stupore. “La cortesia” pensava “non è altro che l’assenza di quella collera provocata dalle cattive maniere.” Mathilde si annoiava spesso, forse si sarebbe annoiata dovunque. E allora inventare degli epigrammi era per lei una distrazione e un vero piacere.
E, forse, per avere vittime un po’ più divertenti dei suoi nobili parenti, dell’accademico e dei cinque o sei subalterni che facevano la corte alla sua famiglia, lei aveva dato delle speranze al marchese de Croisenois, al conte de Caylus e a due o tre altri distintissimi giovani. Per lei non erano altro che nuovi bersagli dei suoi epigrammi.
Confesseremo con dispiacere, poiché amiamo Mathilde, che aveva ricevuto delle lettere da parecchi di loro e, qualche volta, aveva anche risposto. Ci affrettiamo ad aggiungere che questo personaggio fa eccezione ai costumi del secolo. In generale, non è l’avventatezza che si può rimproverare alle allieve del nobile convento del Sacro Cuore.
Un giorno il marchese de Croisenois restituì a Mathilde una lettera abbastanza compromettente, che lei gli aveva scritto il giorno prima. Credeva di spingere molto avanti i propri interessi con quel gesto di grande prudenza. Ma, quel che Mathilde amava nei suoi carteggi era appunto la mancanza di tale virtù. Le piaceva giocarsi la propria sorte. Stette sei settimane senza parlare con lui.
Si divertiva con le lettere di quei giovani, eppure le sembrava che si assomigliassero tutte. Si trattava sempre della passione più profonda, più malinconica.
«Sono tutti lo stesso uomo perfetto, pronto a partire per le crociate» diceva alla cugina. «Conoscete qualcosa di più insipido? Ecco le lettere che riceverò per tutta la vita! Credo che questo genere di lettere cambi ogni vent’anni, secondo la moda. Al tempo dell’Impero devono essere state meno scialbe. Allora tutti i giovani del gran mondo avevano visto o compiuto azioni che realmente erano grandi. Il duca di N…, mio zio, è stato a Wagram.»
«Che intelligenza occorre per dare una sciabolata? Eppure, quando ciò è accaduto loro, ne parlano così spesso!» ribatté la signorina de Sainte-Hérédité, la cugina di Mathilde.
«Ebbene! Quei racconti mi fanno piacere. Trovarsi in una battaglia vera, in una battaglia di Napoleone, nella quale venivano uccisi diecimila soldati, dimostra coraggio. Esporsi al pericolo innalza l’anima e la salva dalla noia, nella quale sembrano sprofondare i miei poveri adoratori. E come è contagiosa, la noia! Chi di loro vorrebbe compiere qualcosa di straordinario? Cercano di ottenere la mia mano, bella impresa! Sono ricca e mio padre farà far carriera a suo genero. Ah, potesse trovarmene uno un po’ divertente!»
Il modo di pensare vivace, chiaro, pittoresco di Mathilde guastava, come si vede, il suo linguaggio. Spesso le sue parole facevano arricciare il naso ai suoi amici così bene educati. Se lei fosse stata meno alla moda, avrebbero quasi confessato a sé stessi che il suo parlare aveva qualcosa di troppo colorito per la delicatezza femminile.
Dal canto suo, Mathilde era molto ingiusta verso i bei cavalieri che popolano il Bois de Boulogne. Vedeva l’avvenire non con terrore, sarebbe stato un sentimento troppo vivo, ma con un disgusto assai raro alla sua età.
Che cosa poteva desiderare? Ricchezza, nobiltà di nascita, intelligenza, bellezza, a quanto dicevano e a quanto lei stessa credeva, tutto era stato già ben distribuito su di lei dal destino.
Ecco quali erano i pensieri della più ricca e invidiata ereditiera del Faubourg Saint-Germain, quando cominciò a provare un certo piacere nelle passeggiate con Julien. Fu stupita dell’orgoglio di lui; ammirò l’abilità di quel piccolo borghese, e pensava: “Saprà diventare vescovo, come l’abate Maury”.
Ben presto la resistenza sincera e non simulata con la quale il nostro eroe accoglieva molte idee di lei ne attrasse l’attenzione. Mathilde ci ripensava; raccontava alla sua amica i minimi particolari delle conversazioni e le pareva di non riuscire mai a esprimerne tutto il carattere.
Un’idea la illuminò all’improvviso. “Ho la felicità di amare” disse a sé stessa un giorno, con un trasporto di gioia incredibile. “Amo: è evidente! Alla mia età, una ragazza giovane, bella, intelligente, dove può trovare delle sensazioni se non nell’amore? Che cosa posso farci, non proverò mai amore per Croisenois, Caylus e tutti quanti.2 Sono perfetti, troppo perfetti, forse: insomma, mi annoiano.”
Rievocò nella sua mente i racconti delle passioni lette in Manon Lescaut, nella Nuova Eloisa,3 nelle Lettere di una monaca portoghese eccetera. E queste, beninteso, erano solo grandi passioni; l’amore leggero era indegno di una ragazza della sua età e della sua condizione. Lei chiamava amore solo quel sentimento eroico che si incontrava in Francia al tempo di Enrico III e di Bassompierre. Quell’amore non cedeva bassamente agli ostacoli; ma anzi faceva compiere grandi cose. “Che disgrazia per me che non vi sia una vera corte come quella di Caterina de’ Medici o di Luigi XIII! Mi sento all’altezza di quanto vi può essere di più ardito e di più grande. Che cosa non farei di un re coraggioso come Luigi XIII, che sospirasse ai miei piedi! Lo condurrei in Vandea, come dice spesso il barone de Tolly, e così riconquisterebbe il suo regno: e allora niente più Costituzione… e Julien mi asseconderebbe. Che cosa gli manca? Un nome e la ricchezza. Si farebbe un nome e acquisterebbe una fortuna. A Croisenois non manca nulla e, per tutta la vita, non sarà che un duca per metà reazionario e per metà liberale, un essere indeciso, sempre lontano dagli estremi e, di conseguenza, sempre secondo dovunque.
“Qual è la grande azione che non sia un estremo nel momento in cui la si intraprende? Solo quand’è compiuta, essa sembra possibile agli esseri comuni. Sì, l’amore con tutti i suoi miracoli sta per regnare nel mio cuore. Lo sento dall’ardore che mi rianima. Il cielo mi doveva questo favore. Non avrà invano accumulato su una persona sola tutti i privilegi. La mia felicità sarà degna di me. Ognuna delle mie giornate non assomiglierà pedissequamente a quella che l’ha preceduta. Nell’amare un uomo così lontano da me per condizione sociale occorrono grandezza e audacia. Vediamo un po’: continuerà a meritarmi? Alla prima debolezza che scorgo in lui, lo abbandono. Una ragazza della mia nobiltà e con il carattere cavalleresco che mi si riconosce (era un’espressione di suo padre) non deve comportarsi come una sciocca. E non è questa la parte che dovrei sostenere, se amassi il marchese de Croisenois? Avrei una nuova edizione della felicità delle mie cugine, che disprezzo così profondamente. So già in anticipo tutto quello che mi direbbe il povero marchese e tutto quello che dovrei rispondergli. Che cos’è mai un amore che fa sbadigliare? Tanto varrebbe essere bigotta. Avrei una cerimonia di fidanzamento come quella della mia cugina minore, durante la quale i parenti si commuoverebbero, sempre che non fossero di cattivo umore per qualche clausola aggiunta al contratto, il giorno prima, dal notaio della parte avversa.”
1 – Mérimée: sebbene Stendhal attribuisca questa epigrafe allo scrittore Prosper Mérimée (1803-1870), nelle opere di quest’ultimo non compare.
2 – tutti quanti: in italiano nel testo.
3 – Manon Lescaut… Nuova Eloisa: sono rispettivamente romanzi di Antoine François Prévost (Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut, 1731) e di Jean-Jacques Rousseau (Giulia o la nuova Eloisa, 1761).