XVII
Una vecchia spada

I now mean to be serious; – it is time,

Since langhter now-a-days is deem’d too serious

A jest at vice by virtue’s called a crime.

Don Juan, c. XIII1

Mathilde non si fece vedere a pranzo. La sera si mostrò un momento in salotto, ma non guardò Julien. Quel contegno sembrò strano al giovane. “Io non conosco i loro usi” pensò. “Mi darà qualche buona ragione per spiegarmi questo comportamento.” Tuttavia, mosso da un’acutissima curiosità, studiava l’espressione del volto di Mathilde. Non poté nascondersi che lei aveva un’aria dura e cattiva. Evidentemente non era la stessa donna che, la notte prima, aveva o fingeva di avere slanci di felicità troppo eccessivi per essere veri.

Il giorno dopo e quello che seguì, ancora la stessa freddezza da parte di lei: non lo guardava, non si accorgeva della sua esistenza. Divorato dalla più viva inquietudine, Julien era lontanissimo dal senso di trionfo che da solo lo aveva animato il primo giorno. “Che sia, per caso,” pensava “un ritorno alla virtù?” Ma questa parola era troppo borghese per l’altera Mathilde.

“Nelle situazioni normali della vita, lei non si affida alla religione” pensava Julien. “La trova solo molto utile agli interessi del suo ceto. Può darsi che, per semplice delicatezza, si rimproveri vivamente la colpa commessa?” Julien pensava di essere il suo primo amante.

“Bisogna ammettere che non c’è nulla di ingenuo, di semplice, di tenero in tutto il suo modo di comportarsi” rimuginava in altri momenti. “Non l’ho mai vista più altera. Che mi disprezzi? Sarebbe degno di lei rimproverarsi tutto ciò che ha fatto per me, soltanto a causa della mia origine.”

Mentre Julien, pieno dei suoi pregiudizi attinti dai libri e dai ricordi di Verrières, perseguiva la chimera di un’amante tenera, che non pensi più alla propria esistenza dal momento in cui ha fatto la felicità del suo amante, la vanità di Mathilde era furibonda contro di lui.

Poiché da due mesi non si annoiava più, lei non temeva più la noia, e così Julien, senza poterlo minimamente sospettare, aveva perduto il suo più grande vantaggio.

“Mi sono data un padrone” pensava la signorina De La Mole in preda al più cupo dolore. “Per fortuna, lui è un uomo d’onore; ma se io spingo all’estremo la sua vanità, può vendicarsi rivelando la natura della nostra relazione.”

Mathilde non aveva mai avuto amanti e, in questa circostanza della vita, che dà illusioni tenere perfino alle anime più aride, era in preda alle più amare riflessioni.

“Egli ha su di me un potere immenso, perché regna con il terrore e può infliggermi una pena atroce, se lo spingo agli estremi.” Questo solo pensiero bastava per indurre la signorina De La Mole a oltraggiarlo. Il coraggio era la principale qualità del suo carattere. Nulla poteva rianimarla e guarirla da un fondo di noia, che rinasceva continuamente, tranne il pensiero che stava giocando a testa e croce tutta la sua esistenza.

Il terzo giorno, poiché Mathilde si ostinava a non guardarlo, Julien la seguì dopo pranzo contro l’evidente volontà di lei, nella sala del biliardo.

«Ebbene, signore, credete dunque di aver acquisito su di me diritti molto solidi» gli si rivolse con ira appena contenuta «se, in opposizione al mio desiderio assai nettamente dichiarato, pretendete di parlarmi?… Sapete che nessuno al mondo ha mai osato tanto?»

Nulla fu più ridicolo del dialogo tra quei due amanti. Senza sospettarlo, erano animati l’uno contro l’altra dall’odio più vivo. Poiché né l’uno né l’altra erano d’indole tollerante, e, d’altra parte, avevano entrambi abitudini da persone civili, giunsero in breve a dichiararsi che avrebbero rotto definitivamente.

«Vi giuro il segreto eterno» promise Julien. «Aggiungerei anche che non vi rivolgerei mai più la parola, se un mio mutamento troppo evidente non danneggiasse la vostra reputazione.»

Salutò con rispetto e si allontanò.

Compiva senza troppa pena ciò che riteneva un dovere. Era molto lontano dal credersi innamoratissimo della signorina De La Mole. Senza dubbio non l’amava tre giorni prima, quando lei lo aveva nascosto nel grande armadio di mogano. Ma tutto cambiò nel suo animo quando si vide allontanato per sempre da lei. La sua memoria crudele cominciò a rievocargli le minime circostanze di quella notte che, in realtà, lo aveva lasciato tanto freddo.

Nella stessa notte che seguì la dichiarazione di rottura definitiva, Julien credette di impazzire, vedendosi costretto ad ammettere che amava la signorina De La Mole.

Lotte spaventose seguirono quella scoperta: tutti i suoi sentimenti erano sconvolti.

Due giorni dopo, invece di mostrarsi orgoglioso con il marchese de Croisenois, lo avrebbe abbracciato scoppiando in lacrime.

L’abitudine all’infelicità gli dette un lampo di buon senso; si decise a partire per la Linguadoca, fece il baule e andò alla stazione di posta.

Lì si sentì mancare quando gli dissero che, per un caso fortuito, c’era un posto libero, il giorno seguente, nella corriera per Tolosa. Lo fissò e tornò a casa per annunciare la sua partenza al marchese.

Il signor De La Mole era uscito. Più morto che vivo, Julien si recò ad aspettarlo in biblioteca. E come rimase stupito, quando vi trovò Mathilde!

Nel vederlo apparire, lei assunse un’aria cattiva sulla quale era impossibile ingannarsi.

Trascinato dalla sua infelicità, smarrito per la sorpresa, ebbe la debolezza di dirle con il tono più tenero che gli scaturiva dal cuore: «Dunque, non mi amate più?».

«Ho orrore di essermi concessa al primo venuto» disse Mathilde, piangendo di rabbia contro sé stessa.

«Al primo venuto!» esclamò Julien e si gettò su una vecchia spada medievale, conservata in biblioteca come una curiosità.

Il suo dolore, che lui credeva già enorme al momento in cui aveva rivolto la parola alla signorina De La Mole, si era centuplicato alle lacrime di vergogna che le vedeva versare. Sarebbe stato il più felice degli uomini se avesse potuto ucciderla.

Mentre estraeva con un certa fatica la lama dal suo fodero antico, Mathilde, felice di provare una sensazione nuova, avanzò fieramente verso di lui; le sue lacrime si erano asciugate.

All’improvviso, Julien pensò al marchese De La Mole, suo benefattore. “E io ucciderei sua figlia!” pensò. “Che orrore!” Fece un movimento per gettare la spada. “Certamente” si disse “lei scoppierà a ridere vedendo questo gesto melodrammatico.” E quel pensiero gli ridiede tutto il suo sangue freddo. Guardò la lama della vecchia spada, curiosamente, come se vi cercasse delle macchie di ruggine, poi la rimise nel fodero e, con la più grande tranquillità, la riappese al chiodo di bronzo dorato che la sosteneva.

Tutta quella manovra, sempre più lenta, durò almeno un minuto. Mathilde lo osservava stupefatta. “Sono stata, dunque, sul punto di essere uccisa dal mio amante?” pensava.

Questo pensiero la trasportava ai bei tempi del secolo di Carlo IX e di Enrico III.

Era immobile di fronte a Julien, che rimetteva a posto la spada, e lo guardava con occhi nei quali non vi era più odio: in quel momento, era molto seducente. Certo, mai donna aveva somigliato meno a una bambola parigina (questo termine era la maggiore critica di Julien contro le donne di Parigi).

“Sto per lasciarmi riprendere da un sentimento di debolezza per lui” pensò Mathilde. “Adesso, dopo avergli parlato con tanta fermezza, si crederebbe davvero mio signore e padrone, a causa di questa mia ricaduta.”

E fuggì via.

“Dio mio, com’è bella!” pensò Julien vedendola correre. “Ecco la creatura che, meno di otto giorni fa, si gettava tra le mie braccia con tanto impeto… E quei momenti non torneranno mai più! Ed è colpa mia! E io che rimanevo insensibile a un avvenimento così straordinario, così importante per me!… Bisogna riconoscere che sono nato con un carattere molto debole e disgraziato.”

Entrò il marchese. Julien si affrettò ad annunciargli la sua partenza.

«Per dove?»

«Per la Linguadoca.»

«No. Se non vi dispiace, siete destinato a un più alto avvenire. Se partirete, andrete al nord… Anzi, in termini militari, siete consegnato nel palazzo. Mi farete cosa grata se non vi allontanerete per più di due o tre ore. Posso aver bisogno di voi da un momento all’altro.»

Julien si inchinò e si ritirò in silenzio, lasciando il marchese molto stupito, ma il giovane non si sentiva in condizione di parlare. Si chiuse nella sua camera e là poté abbandonarsi a ingigantire liberamente tutta l’atrocità della sua sorte.

“Così non posso neppure allontanarmi!” pensava. “Dio sa per quanti giorni il marchese mi tratterrà a Parigi! Che sarà di me, buon Dio? E non un amico al quale chiedere consiglio! L’abate Pirard non mi lascerebbe terminare la prima frase; il conte Altamira mi proporrebbe di affiliarmi a qualche setta di cospiratori.

“E, intanto, divento pazzo; lo sento; divento pazzo! Chi potrà aiutarmi? Che ne sarà di me?”

 

1 – “Don Juan”: «Ora voglio essere serio; è tempo / persino il riso oggi è ritenuto troppo serio / uno scherzo contro il vizio, dalla virtù è chiamato colpa.». (George Byron, Don Giovanni, canto XIII, strofa 58)