La repubblica! Oggi, per uno che sacrificherebbe tutto al pubblico bene, ve ne sono migliaia e milioni che conoscono solo i loro interessi, la loro vanità. A Parigi si è stimati per la carrozza che si possiede, non per la virtù.
Napoleone, Memoriale di Sant’Elena
Il domestico entrò precipitoso annunciando: «Il signor duca di…».
«Tacete, non siete altro che uno sciocco» disse il duca entrando.
Pronunciò così bene quelle parole e con tanta maestosità che, senza volerlo, Julien pensò che tutte le virtù di quel grande personaggio consistessero nel sapersi arrabbiare con un domestico. Julien alzò gli occhi, ma subito li riabbassò. Avendo tanto bene intuito l’importanza del nuovo arrivato, temette che il suo sguardo potesse essere indiscreto.
Il duca era un uomo di cinquant’anni, vestito come un damerino e si muoveva a scatti. Aveva la testa stretta, un grosso naso, il volto prominente, tutto proteso in avanti; sarebbe stato difficile avere un aspetto più nobile e più insignificante. Il suo arrivo aprì la seduta.
Julien fu interrotto bruscamente nelle sue osservazioni fisionomiche dalla voce del signor De La Mole: «Vi presento l’abate Sorel» diceva. «È dotato di una memoria straordinaria; è solo un’ora che gli ho parlato della missione di cui poteva essere onorato e, per dare una prova delle sue capacità, ha imparato tutta la prima pagina di La Quotidienne.»
«Ah! Le notizie estere di quel povero N…» disse il padrone di casa. Prese immediatamente il giornale e, guardando Julien con aria che, a furia di voler essere importante, diventava comica, disse: «Parlate pure, signore».
Il silenzio era profondo: tutti gli occhi erano fissi su Julien. Lui lo ripeté così bene che, dopo venti righe, il duca disse: «Basta». L’uomo dallo sguardo di cinghiale si sedette. Era il presidente: infatti, appena accomodato, indicò a Julien un tavolino da gioco e gli fece cenno di portarlo accanto a lui. Julien vi prese posto con l’occorrente per scrivere. Contò dodici persone sedute intorno al tappeto verde.
«Signor Sorel,» disse il duca «ritiratevi nella stanza vicina. Vi faremo chiamare.»
Il padrone di casa assunse un’aria molto nervosa. «Le imposte non sono chiuse» disse a mezza voce al vicino. «Non guardate fuori» gridò poi stupidamente a Julien. “Eccomi implicato per lo meno in una congiura” pensò lui. “Fortunatamente, non è di quelle che conducono in place de Grève.1 Anche se vi fosse pericolo, devo questo e altro al marchese. Sarei felice se mi fosse concesso di riparare al dolore che le mie follie potranno procurargli un giorno!”
Mentre pensava alle sue pazzie e alla sua disgrazia, guardava quella casa in modo da non dimenticarla mai. Allora soltanto si ricordò che non aveva udito dire al cocchiere il nome della via e che il marchese aveva preso una carrozza a nolo, cosa che non capitava mai.
Per molto tempo Julien fu lasciato alle sue riflessioni. Era in un salotto tappezzato di velluto rosso con larghe frange d’oro. Sulla mensola c’era un grande crocifisso d’avorio e, sul camino, il libro Sul Papa di De Maistre, con gli orli dorati e rilegato magnificamente. Julien lo aprì per non aver l’aria di ascoltare. Di tanto in tanto, nella stanza attigua, si udiva qualcuno parlare a voce alta. Alla fine la porta si aprì e lo chiamarono.
«Pensate, signori,» diceva il presidente «che da questo momento è come sé stessimo parlando davanti al duca di… Il signore» aggiunse indicando Julien «è un giovane levita, devoto alla nostra santa causa e ripeterà facilmente, con l’aiuto della sua prodigiosa memoria, anche i minimi particolari dei nostri discorsi. La parola è al signore» disse poi indicando il personaggio dall’aria paterna, che indossava tre o quattro panciotti.
Julien pensò che sarebbe stato più naturale chiamarlo per nome. Prese dei fogli di carta e scrisse molto.
(Qui l’Autore avrebbe voluto mettere una pagina intera di puntini di sospensione. Ma l’editore dice che sarebbe una cosa priva di grazia e, per uno scritto così frivolo, mancare di grazia è lo stesso che morire. «La politica» ribatte l’Autore «è una pietra attaccata al collo della letteratura, e, in meno di sei mesi, la trascina a fondo. La politica in mezzo alle opere della fantasia è come un colpo di pistola durante un concerto. Quel rumore è lacerante senza essere energico, non si accorda con il suono di nessuno degli strumenti. Queste pagine di politica offenderanno mortalmente una metà dei lettori e annoieranno l’altra metà che ha trovato questi argomenti ben più interessanti ed efficaci nel giornale del mattino…»
«Ma se i vostri personaggi non parlano di politica,» riprende l’editore «non sono più dei francesi del 1830 e il vostro libro non è più uno specchio, come voi pretendete…»)
Il verbale di Julien era di ventisei pagine. Eccone un pallido estratto, perché è stato necessario, come sempre, sopprimere le ridicolaggini il cui eccesso sarebbe sembrato odioso o poco verosimile. (Vedi la Gazette des Tribunaux)
L’uomo dai panciotti e dall’aria paterna (era probabilmente un vescovo) sorrideva spesso e allora i suoi occhi, con le palpebre cascanti, assumevano una strana luce e un’espressione meno indecisa del solito. Sembrò a Julien che quel personaggio, che facevano parlare per primo davanti al duca (“Ma quale duca?” si chiedeva) apparentemente per esporre le opinioni e far la parte di pubblico ministero, cadesse nelle incertezze e nella mancanza di conclusioni precise che spesso vengono rimproverate a quei magistrati. Nel corso della discussione, il duca giunse perfino a rimproverarglielo.
Dopo molte frasi moralistiche e filosofeggianti, l’uomo dai panciotti disse: «La nobile Inghilterra, guidata da un grand’uomo, l’immortale Pitt, ha speso quaranta miliardi di franchi per ostacolare la rivoluzione. Se quest’assemblea mi permette di affrontare con una certa franchezza un argomento triste, dirò che l’Inghilterra non capì che, con un uomo come Bonaparte, specialmente quando vi era da opporgli solo una collezione di buone intenzioni, sarebbero stati decisivi soltanto i mezzi diretti…».
«Ah, ancora l’elogio dell’assassinio!» disse il padrone di casa con aria inquieta.
«Risparmiateci le vostre omelie sentimentali» esclamò di malumore il presidente. I suoi occhi da cinghiale brillarono di un lampo feroce. «Continuate» disse all’uomo dai panciotti. Le guance e la fronte del presidente divennero di porpora.
«La nobile Inghilterra» riprese il relatore «è oggi in condizioni disastrose, perché ogni inglese, prima di comperarsi il pane, è obbligato a pagare l’interesse dei quaranta miliardi di franchi che furono spesi contro i giacobini. E non ha più un Pitt…»
«Ha il duca di Wellington» disse un uomo in uniforme, assumendo un’aria di grande importanza.
«Silenzio, di grazia, signori!» esclamò il presidente. «Se continuiamo a discutere, sarà stato inutile aver fatto entrare il signor Sorel.»
«Si sa che il signore ha molte idee» disse il duca con aria irritata, guardando colui che aveva interrotto: un ex generale napoleonico.
Julien capì che quelle parole facevano allusione a qualcosa di personale e di molto offensivo. Tutti sorrisero e il generale disertore parve al colmo della collera.
«Non c’è più un uomo come Pitt, signori» continuò il relatore con l’aria scoraggiata di chi dispera di far intendere ragione a quelli che lo ascoltano. «E, anche se vi fosse un nuovo Pitt in Inghilterra, non si può ingannare due volte una nazione con gli stessi mezzi…»
«Perciò, un generale vittorioso, un Bonaparte, è ormai impossibile in Francia» esclamò l’uomo in uniforme di prima.
Questa volta né il presidente né il duca osarono adirarsi, quantunque Julien credesse di leggerne il desiderio nei loro occhi. Abbassarono gli sguardi e il duca si contentò di sospirare in modo da essere udito da tutti.
Ma il relatore diventava nervoso.
«Si ha fretta di vedermi concludere» disse con calore, lasciando da parte completamente quella cortesia e quel linguaggio misurato che Julien credeva l’espressione del suo carattere. «Non si tiene nessun conto degli sforzi che faccio per non offendere le orecchie di nessuno, per quanto lunghe siano. Ebbene, signori, sarò breve. E vi dirò parole molto semplici: l’Inghilterra non ha più un soldo per la buona causa. Anche se tornasse Pitt in persona, con tutto il suo genio non riuscirebbe a ingannare i piccoli proprietari inglesi, perché sanno che la breve campagna di Waterloo è costata loro, da sola, un miliardo di franchi. Poiché volete parole precise» aggiunse il relatore animandosi sempre più «vi dirò: Aiutatevi da soli, perché l’Inghilterra non ha più una ghinea per voi, e se l’Inghilterra non paga più, l’Austria, la Russia, la Prussia, che hanno coraggio ma non denaro, non possono sostenere contro la Francia più di una o due campagne. Si può sperare che i soldati reclutati dal partito giacobino siano sconfitti alla prima battaglia, alla seconda forse, ma, alla terza, e lo dico anche se dovessi passare per rivoluzionario ai vostri occhi prevenuti, alla terza avrete i soldati del 1794, e quelli non erano più i contadini reclutati del 1792.»
A questo punto fu interrotto contemporaneamente da tre o quattro voci.
«Signore,» disse il presidente a Julien «andate a ricopiare nella stanza vicina l’inizio del verbale che avete scritto.»
Julien uscì con grande dispiacere. Il relatore aveva affrontato alcuni argomenti che costituivano il soggetto delle sue abituali meditazioni. “Hanno paura che mi burli di loro” pensò.
Quando lo richiamarono, il signor De La Mole diceva con un tono di serietà che, a Julien, il quale lo conosceva bene, parve molto comico: «… Sì, signori, è soprattutto di questo disgraziato popolo che si può dire: “Sarà dio, tavola o catino?”2
«“Sarà dio” scrive il favolista. Sembra, signori, che questa frase tanto nobile e profonda si addica proprio a voi. Agite da soli, e la nobile Francia riapparirà quasi quale i nostri avi l’avevano fatta e i nostri occhi l’hanno vista prima della morte di Luigi XVI. L’Inghilterra, o almeno i suoi nobili lord, odia quanto noi l’ignobile giacobinismo: senza il denaro inglese, l’Austria, la Russia e la Prussia non possono affrontare altro che due o tre battaglie. Basterà questo per provocare un’occupazione fortunata come quella che il signor di Richelieu sciupò così stupidamente nel 1817? Non credo».
A questo punto vi fu un’interruzione, ma soffocata dagli zittii di tutti. Questa partiva ancora dall’ex generale dell’impero, che aspirava al nastrino azzurro e voleva distinguersi tra i redattori di quella nota segreta.
«Io non lo credo» ripeté il signor De La Mole dopo il tumulto, marcando quell’Io con un’insolenza che incantò Julien. “Ben giocato!” pensava, facendo scorrere la penna quasi con la stessa velocità delle parole del marchese. “Con una frase così precisa, il signor De La Mole annienta le venti campagne di quel disertore.”
«Una nuova occupazione militare» continuò il marchese con tono più misurato «non può venire solo dall’estero. Tutta questa gioventù che scrive articoli incendiari su Le Globe3 vi darà tre o quattromila giovani capitani, tra i quali possono trovarsi un Kléber, un Hoche, un Jourdan, un Pichegru, ma meno ben disposti.»
Non abbiamo saputo dargli la gloria» disse il presidente. «Dovevamo mantenerlo immortale.»
Bisogna, infine, che vi siano in Francia due partiti» continuò il marchese. «Ma due partiti non solo di nome, due partiti ben netti, ben distinti. Dobbiamo sapere quale bisogna schiacciare. Da un lato i giornalisti, gli elettori, l’opinione pubblica, in una parola i giovani e tutti quelli che li ammirano. E mentre questi si stordiscono al rumore delle loro vane parole, noi abbiamo il sicuro vantaggio di consumare il bilancio dello Stato.»
A questo punto vi fu un’altra interruzione.
«Voi, signore,» ribatté il marchese De La Mole con un’alterigia e una disinvoltura ammirevoli «non consumate, se la parola vi urta, ma divorate quarantamila franchi registrati nel bilancio dello Stato, e ottantamila che ricevete dalla lista civile.
Ebbene, poiché mi ci obbligate, vi porto senza indugio a esempio. Come i vostri nobili antenati che seguirono san Luigi alla crociata, voi dovreste, per questi centoventimila franchi, esibire almeno un reggimento, una compagnia, che dico?, una mezza compagnia, fosse anche di soli cinquanta uomini, pronti a combattere e devoti alla buona causa per la vita e per la morte. Invece non avete che servi, i quali, in caso di rivolta, farebbero paura anche a voi.
Il trono, l’altare, la nobiltà potranno morire domani, se non avrete creato in ogni dipartimento una forza di cinquecento uomini devoti; ma dico devoti non solo con tutto il coraggio francese, ma anche con la costanza spagnola.
La metà di questo esercito dovrà essere composta dai nostri figli, dai nostri nipoti, da veri gentiluomini, insomma. Ognuno avrà accanto, non un piccolo borghese chiacchierone pronto a inalberare la coccarda tricolore se dovesse ritornare un nuovo 1815, ma un buon contadino semplice e franco come Cathelineau:4 il nostro gentiluomo lo avrà istruito, sarà il suo fratello di latte, se possibile. Ognuno di voi sacrifichi un quinto delle sue rendite per costituire questo piccolo esercito di cinquecento uomini fedeli in ogni dipartimento. Solo allora potrete fare assegnamento su un’occupazione straniera. Mai un soldato straniero arriverà nemmeno fino a Digione, se non sarà sicuro di trovare cinquecento soldati amici in ogni dipartimento.
I regnanti europei vi ascolteranno soltanto quando annuncerete di avere ventimila gentiluomini pronti a prendere le armi per aprir loro le porte della Francia. Questo servizio è troppo oneroso, direte. Signori, la nostra testa è a questo prezzo. Tra la libertà di stampa e la nostra esistenza come nobili c’è guerra mortale. O diventate industriali, contadini, o prendete il fucile. Siate timidi, se volete, ma non siate stupidi: aprite gli occhi.
Formate i vostri battaglioni, vi dirò con la canzone dei giacobini; allora si troverà qualche nobile GUSTAVE-ADOLPHE5 che, commosso dall’imminente pericolo in cui versa il principio monarchico, si precipiterà a trecento miglia dal suo paese e farà per voi ciò che Gustave fece per i principi protestanti. Volete continuare a parlare senza agire? Tra cinquant’anni vi saranno in Europa soltanto presidenti di repubbliche e nemmeno un re. E con queste due lettere R, E, se ne vanno anche i preti e i gentiluomini. Vedo solo candidati, che faranno la corte a maggioranze plebee.
Avete un bel dire che la Francia non ha in questo momento un generale popolare, conosciuto e amato da tutti, che l’esercito è organizzato solo nell’interesse del trono e dell’altare, che sono stati eliminati tutti i vecchi soldati, mentre ogni reggimento prussiano o austriaco conta cinquanta sottufficiali che hanno già visto il fuoco.
«Duecentomila giovani appartenenti alla piccola borghesia sono innamorati della guerra…»
Basta con le verità spiacevoli» disse con tono di sufficienza un personaggio autorevole, che doveva occupare un’alta carica nella gerarchia ecclesiastica, poiché il signor De La Mole sorrise piacevolmente invece di adirarsi, cosa che, per Julien, fu un grande indizio.
Basta con le verità spiacevoli. Riassumiamo, signori. L’uomo al quale è necessario tagliare una gamba incancrenita farebbe molto male a dire al chirurgo: “Questa gamba malata è sanissima”. Perdonatemi l’espressione, signori, il nobile duca di… è il nostro chirurgo.»6
“Ecco, finalmente, pronunciato il grande nome” pensò Julien. “Questa notte galopperò verso di lui.”
1 – place de Grève: l’odierna Place de l'Hôtel-de-Ville, fino al 1803 chiamata place de Grève,luogo deputato fin dal XII secolo alle esecuzioni capitali.
2 – Sarà dio, tavola o catino: la citazione di La Fontaine è tratta dalla favola Lo scultore e la statua di Giove.
3 – Le Globe: giornale di ispirazione liberale, a cui collaborava Stendhal.
4 – Cathelineau: Jacques Cathelineau (1759-1793), generale francese dell’armata vandeana che si oppose alla Rivoluzione.
5 – Gustave-Adolphe: re di Svezia fino al 1809, ostile a Napoleone e contro la Rivoluzione, si alleò con l’Inghilterra e la Russia.
6 – il nostro chirurgo: allusione ad Arthur Wellesley (1769-1852), duca di Wellington.