Servizievoli? Capaci? Meritevoli? Macché: affiliatevi a una consorteria.
Le avventure di Telemaco1
Così l’idea dell’episcopato si associava per la prima volta al nome di Julien nella mente di una donna che, presto o tardi, avrebbe distribuito le migliori cariche ecclesiastiche di Francia. Eppure la possibilità di questo privilegio non sarebbe bastata a commuovere Julien; in quel momento non pensava ad altro che alla propria disgrazia. Tutto la accresceva; per esempio, la vista della sua camera gli era diventata insopportabile. La sera, quando vi entrava con la candela, ogni mobile, ogni piccolo ornamento pareva trovare una voce per annunciargli crudamente qualche nuovo particolare del suo dolore.
“Mi aspetta un lavoro forzato!” pensò quella notte entrando in camera, con una vivacità che da molto tempo non gli accadeva più di avere. “Speriamo che la seconda lettera sia noiosa quanto la prima.”
Lo era di più. Ciò che copiava gli sembrava così assurdo, che finì col trascrivere riga per riga senza fare attenzione al significato.
“È più enfatica” pensava “dei documenti ufficiali del trattato di Münster, che il mio professore di diplomazia mi faceva copiare a Londra.”
Si ricordò soltanto allora delle lettere scritte dalla signora de Fervaques, che aveva dimenticato di restituire all’austero spagnolo don Diego Bustos. Le cercò. Erano realmente oscure quanto quelle del giovane signore russo. La loro nebulosità era completa. Dicevano tutto e niente. “È l’arpa eolia dello stile” pensò Julien. “In mezzo ai più elevati pensieri sul nulla, sulla morte, sull’infinito eccetera, non vedo, di reale, altro che una terribile paura del ridicolo.”
Questo monologo, che abbiamo riassunto, si rinnovò per quindici giorni di seguito. Addormentarsi copiando una specie di commento dell’Apocalisse; il giorno dopo andare a portare una lettera con aria malinconica; ricondurre il cavallo alla scuderia con la speranza di scorgere il vestito di Mathilde; lavorare; la sera farsi vedere all’Opera, quando la signora de Fervaques non andava al palazzo La Mole: questi erano i monotoni avvenimenti della vita di Julien. Le sue giornate diventavano un po’ più interessanti quando la marescialla si recava dalla marchesa. Allora Julien poteva intravedere gli occhi di Mathilde al di sotto dell’ala del cappello della signora de Fervaques e diventava eloquente. Le sue frasi pittoresche e sentimentali cominciavano a prendere una forma più vivace e, al tempo stesso, più elegante.
Capiva bene che ciò che diceva doveva apparire assurdo a Mathilde, ma lui voleva impressionarla con l’eleganza della dizione. “Più quello che dico è falso, più devo piacerle” pensava. E allora, con perfido ardimento, si lasciava andare a eccessive esagerazioni. Si accorse ben presto che, per non sembrare volgare agli occhi della marescialla, bisognava soprattutto evitare le idee chiare e razionali. Continuava così oppure abbreviava le sue amplificazioni secondo l’interesse o l’indifferenza che notava negli occhi delle due signore alle quali voleva piacere.
In conclusione, la sua vita era meno orribile di quando le giornate trascorrevano inattive.
“Eccomi qui” pensava una sera “a copiare la quindicesima di queste orrende dissertazioni: le prime quattordici sono state fedelmente consegnate al portiere della marescialla. Avrò l’onore di riempire tutti i cassetti della sua scrivania. E, tuttavia, lei mi tratta come se non le scrivessi! Come andrà a finire tutta questa faccenda? L’annoia, forse, la mia costanza, come annoia me? Bisogna convenire che questo russo, amico di Korasoff e innamorato della bella quacchera di Richmond, fu ai suoi tempi un uomo terribile: non si può essere più asfissianti di così.”
Come tutte le persone mediocri che il caso mette di fronte alle manovre di un grande generale, Julien non capiva nulla dell’attacco sferrato dal giovane russo al cuore della bella inglese. Le prime quaranta lettere erano destinate solo a farsi perdonare l’ardimento di scrivere. Bisognava abituare quella dolce creatura che, forse, si annoiava infinitamente, a ricevere lettere un po’ meno insipide della sua vita quotidiana.
Una mattina Julien ricevette un biglietto. Riconobbe lo stemma della signora de Fervaques e ruppe il sigillo con una premura che, alcuni giorni prima, gli sarebbe sembrata impossibile. Non era altro che un invito a pranzo.
Si precipitò a leggere le istruzioni del principe Korasoff. Disgraziatamente, il giovane russo aveva voluto essere vago come Dorat, là dove sarebbe stato necessario essere precisi e chiari; Julien non riuscì a capire come avrebbe dovuto comportarsi al pranzo della marescialla. Il salotto era magnifico, dorato come la galleria di Diana alle Tuileries, e con quadri a olio alle pareti. Nei dipinti si notavano delle macchie più chiare. Julien seppe, più tardi, che i soggetti erano sembrati poco decenti alla padrona di casa, che li aveva fatti correggere. “Secolo moralista!” pensò.
In quel salotto notò tre dei personaggi che avevano partecipato alla redazione della nota segreta. Uno di essi, monsignor vescovo di…, zio della marescialla, era arbitro dei benefici ecclesiastici e, a quanto si diceva, non sapeva rifiutare nulla alla nipote. “Che gran passo ho fatto,” diceva tra sé Julien sorridendo con malinconia “e quanto però mi è indifferente! Eccomi a tavola con il famoso vescovo di…”
Il pranzo fu mediocre e la conversazione irritante.
“È come l’indice di un brutto libro” pensava Julien. “Vengono affrontati con sicurezza tutti i più grandi temi del pensiero umano. Se però si ascolta per tre minuti, ci si chiede se sia maggiore l’enfasi di chi parla o la sua spaventosa ignoranza.”
Il lettore ha certamente dimenticato quello scribacchino di nome Tanbeau, nipote dell’accademico e futuro professore, che, con le sue basse calunnie, sembrava incaricato di avvelenare il salotto di casa La Mole.
Fu quell’ometto a suggerire a Julien per la prima volta l’idea che molto probabilmente la signora de Fervaques, pur non rispondendo alle sue lettere, giudicava con indulgenza il sentimento che le dettava. L’anima nera del signor Tanbeau era straziata dalla prospettiva dei successi di Julien; ma, poiché, d’altra parte, un uomo di valore, come uno sciocco qualunque, non può essere in due posti contemporaneamente, il futuro professore pensava: “Se Sorel diventa l’amante della sublime marescialla, lei lo sistemerà in qualche maniera vantaggiosa nella carriera ecclesiastica, e io mi libererò di lui a palazzo La Mole”.
Anche l’abate Pirard rivolse a Julien lunghe prediche sui suoi successi in casa Fervaques. Tra il severo giansenista e il salotto gesuitico, rigeneratore e monarchico dell’austera marescialla, c’era gelosia di setta.
1 – Le avventure di Telemaco: citazione dal romanzo pedagogico scritto da Fénelon, pseudonimo di François de Salignac de la Mothe-Fénelon (1651-1715), tra il 1696 e il 1696.