3. Ancora sui riti cinesii

Documenti vecchi e nuovi

1. La ricerca di cui si parlerà qui è nata dal frammento di un frammento: una scatola di documenti provenienti dall’archivio Orsini, oggi purtroppo smembrato, e più precisamente dalla parte conservata presso le Special Collections della Research Library di UCLA. La scatola contiene lettere, relazioni e pareri, per un totale complessivo di 960 carte, connesse alla celebre disputa sui riti cinesi, ossia sulla strategia adottata dalle missioni gesuitiche in Cina nel tardo ’500. I documenti si riferiscono alla penultima fase della disputa, innescata dalla lettera pastorale promulgata a Macao il 4 novembre 1721 da monsignor Carlo Ambrogio Mezzabarba, patriarca di Alessandria e legato pontificio, al termine della propria missione in Cina. La pastorale di monsignor Mezzabarba provocò infatti un’inchiesta che si concluse nel 1742 con la bolla Ex quo singulari di papa Benedetto XIV, la quale pose fine all’esperienza dei missionari gesuiti in Cina.

La presenza di questi documenti nell’archivio Orsini va ricondotta con ogni probabilità a un commento sulla lettera di Mezzabarba firmato da uno «Stephanus de Orsis», consultore del Sant’Uffizio. Il nome Stefano, raro tra gli Orsini, è invece frequente nel ramo bosniaco della famiglia denominato Blagaj, che potrebbe aver preferito una variante più arcaica rispetto a quella corrente (de Ursinis).582 Questo Stephanus de Orsis – forse un Istvàn Orsini di Blagaj – potrebbe aver depositato negli archivi di famiglia l’incartamento sui riti cinesi ricevuto dal Sant’Uffizio.

Tanto la lettera pastorale di Mezzabarba quanto l’inchiesta che ne seguì sono ben note agli studiosi: basterà rinviare all’ottima, e ancora utilissima, voce «Chinois (rites)» del Dictionnaire de Théologie Catholique, redatta nel 1923 dal gesuita Joseph Brucker. Brucker citò tra le proprie fonti un’opera in due volumi, stampata nel 1741 in un’edizione «limitata alla curia Romana», che recava il titolo Acta in causa pastoralis epistolae Patriarchae Alexandrini olim legati apostolici in impernio Sinarum. Brucker informò che il primo volume degli Acta comprendeva i documenti che avevano dato origine all’inchiesta sulla lettera di Mezzabarba, seguiti da un riassunto dei voti e delle testimonianze presentati al Sant’Uffizio; il secondo includeva il testo integrale dei pareri forniti dai cardinali e dai consultori del SanťUffizio.583

La ricerca degli Acta in causa pastoralis epistolae menzionati da Brucker in una serie di biblioteche (tra cui la Biblioteca Apostolica Vaticana) risultò infruttuosa. Questo fantasma bibliografico si materializzò invece, com’era prevedibile, nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. In esso si trovano più di cinquanta esemplari degli Acta: prova che il libro era stato stampato dal Sant’Uffizio per un pubblico ristretto (una delle copie esibisce sul frontespizio il nome, scritto a penna, di uno dei consultori, il cardinal Lercaro) .584 Il secondo volume degli Acta contiene quattordici pareri reperibili, in forma manoscritta, nella scatola conservata a UCLA: tra questi, il votum firmato «Stephanus de Orsis». Il frammento da cui era cominciata questa ricerca veniva così inserito di colpo in un insieme molto più vasto.

 

 

2. I documenti presentati qui sono scritti prevalentemente in latino; alcuni sono scritti in italiano. Tutti si riferiscono a questioni cinesi; la lingua cinese mi è ignota. Si tratta di un limite grave, condiviso dalla maggior parte di coloro a cui i documenti vennero rivolti, nonché da alcuni di coloro che li produssero; tra questi ultimi, Carlo Ambrogio Mezzabarba, il legato pontificio che con la propria lettera pastorale provocò, senza volerlo, l’inchiesta del papa.585 Ma nonostante questa convergenza di ordine negativo, il mio punto di vista è, com’è ovvio, molto diverso da quello degli attori. Cercherò di ricostruire una parte della disputa sui riti cinesi così come venne percepita da alcuni di coloro che, all’inizio del ’700, scrissero o lessero questi documenti. Ricostruire la prospettiva degli attori è un passo necessario, anche se insufficiente.586 La mia distanza, cronologica e culturale, dagli eventi è al tempo stesso un limite e un vantaggio. Sono molto meno informato degli attori, ma, nonostante la mia ignoranza del cinese, dispongo di fatto di una prospettiva molto più lunga – soprattutto perché so come la storia andò a finire. Ma è poi finita davvero?

Per il momento lascio da parte questa domanda; essa riemergerà più tardi.

 

 

3. Carlo Ambrogio Mezzabarba, nominato legato pontificio per le Indie orientali e l’Impero cinese nel 1720, era «nuovo in quelle missioni», come si legge spesso nei documenti dell’archivio Orsini. Alla sua ignoranza della lingua cinese ho già accennato. A Mezzabarba era stato assegnato il compito di ottenere dall’imperatore K’ang-hsi l’accettazione della costituzione apostolica Ex illa die (1715) con cui papa Clemente XI aveva vietato ai cinesi convertiti al cattolicesimo di partecipare al culto dei morti, in particolare al culto di Confucio. Il decreto di Clemente XI criticava implicitamente l’atteggiamento dei missionari gesuiti, che avevano sostenuto la legittimità di quelle cerimonie.

Una relazione dell’ambasceria di Mezzabarba, scritta in italiano dal suo confessore, il servita frate Viani, apparve a Parigi nel 1739.587 Un’altra testimonianza, molto più vivace, è conservata nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. Si tratta di un diario giornaliero scritto in latino da un missionario barnabita, Sigismondo Maria Calchi, che aveva seguito da vicino gli incontri pubblici e privati di Mezzabarba. Come risulta dal titolo del diario – Compendium eorum quae evenerunt in Sinis –ci troviamo di fronte al riassunto di una versione più lunga, che Calchi inviò a papa Clemente XI, insieme a una lettera che criticava Mezzabarba per la debolezza dimostrata di fronte alle pressioni dei gesuiti. (Una nota manoscritta informa che la lettera e il diario vennero consegnati al successore di Clemente, papa Innocenzo XIII).588

La versione abbreviata del diario di Calchi (l’unica che sono riuscito a reperire) è un documento straordinario. Mi limiterò a commentarne una pagina. Il 30 dicembre 1720 il legato pontificio Mezzabarba incontrò per la prima volta l’imperatore cinese K’ang-hsi. L’imperatore, scrive Calchi, era seduto «Tartarico more», al modo dei tartari, sotto un trono basso.589 Cominciò una lunga cerimonia, punteggiata da una serie di riverenze che Calchi descrisse fin nei minimi particolari. Poi Mezzabarba chiese all’imperatore di consentire ai cinesi convertiti di praticare la religione cristiana senza contaminazioni. (Tre gesuiti facevano funzione di interpreti). L’imperatore disse di «aver visto nelle pitture europee degli uomini con le ali» e domandò: che cosa sono? Si tratta di angeli, spiegò Mezzabarba, che aiutano gli esseri umani; per venire incontro al nostro modo di pensare li si raffigura come uomini alati; le ali alludono alla rapidità e leggerezza del loro spirito.

«In Cina questo è falso, rispose l’imperatore; sarebbe impossibile convincere i cinesi di questo; essi sanno bene che non esistono uomini con le ali. Ma un europeo potrebbe obiettare: se i cinesi leggessero i nostri libri per dieci anni e più, scoprirebbero che questo non è errato ma vero».

L’imperatore scoppiò a ridere, e tacque. Poi chiese che gli venissero portati tre pezzi di pane – uno bianco, uno giallo, uno rosso – e disse: qualcuno potrebbe sostenere che il pane bianco è giallo o rosso, oppure l’inverso. A chi dovremmo credere? Se uno in un certo momento dice una cosa, e un altro qualche tempo dopo ne dice un’altra, come potremmo fidarci di gente del genere?590

Il legato (osservò Calchi nel proprio diario) cercò sia di porre un freno a queste domande irrilevanti, sia di evitare di essere costretto a dire «qualcosa di vero, che sarebbe risultato spiacevole per i padri [cioè i gesuiti]» che assistevano alla cerimonia.591 La seconda parte della frase contraddice la prima: se mettevano a disagio il legato, le domande dell’imperatore non dovevano essere così irrilevanti. In maniera capricciosa, astuta, imprevedibile l’imperatore manifestava insofferenza per i mutamenti della politica papale verso la Cina, e al tempo stesso confermava implicitamente l’appoggio ai gesuiti, con cui aveva stabilito da tempo rapporti amichevoli. Nel suo libro su K’ang-hsi, Jonathan Spence descrisse un incontro tra l’imperatore e i gesuiti che si era verificato qualche tempo prima.592 Sarebbe interessante confrontare il racconto di Spence, che rielabora liberamente alcuni diari di gesuiti, con la relazione di Calchi, basata sulla mediazione costituita dagli interpreti gesuiti.

Mezzabarba spiegò che il papa, in quanto vicario di Cristo, aveva autorità sulla Chiesa. «Ma come può il papa» chiese l’imperatore «esprimere giudizi su riti cinesi che non ha mai visto e di cui non sa nulla?». E aggiunse: io non oserei dare giudizi su cose che non ho mai visto. Mezzabarba rimase in silenzio. Poi spiegò che «il papa non esprimeva giudizi su questioni cinesi, ma soltanto sulla religione cristiana».593

 

 

4. La risposta di Mezzabarba, scrisse Calchi, era stata formulata in maniera «intelligente ... e molto prudente» (acute ... el prudentissime). 594 Ma non era una risposta veritiera. Tanto l’atteggiamento flessibile dei gesuiti quanto quello rigido di Clemente XI implicavano giudizi, molto diversi tra loro, sui cosiddetti «riti cinesi» e la loro compatibilità con il cristianesimo. Di fronte alla minaccia dell’imperatore di espellere dalla Cina tutti i missionari e il tentativo dei gesuiti di ottenere la sospensione della costituzione apostolica di Clemente XI a loro ostile, Mezzabarba escogitò un compromesso.595 La prima parte della lettera pastorale confermava la validità del decreto di Clemente XI e le proibizioni sui «riti cinesi» (super ritibus Sinicis) in esso contenute. Poi, dichiarando di rispondere ai dubbi che sarebbero stati sollevati da certi missionari, Mezzabarba fece otto concessioni. Permise ai cinesi convertiti al cristianesimo di tenere in casa tavolette con i nomi dei loro antenati morti, purché ciò avvenisse senza superstizioni. Permise ai cinesi convertiti di assistere a tutte le cerimonie riguardanti i morti, a patto che non fossero «superstiziose o sospette, ma civili» (sed civiles). Permise il culto di Confucio, ma solo in quanto consuetudine civile (si civilis esset), e a condizione che tutte le iscrizioni superstiziose fossero state eliminate; era permesso accendere candele, bruciare profumi, e porre cibo di fronte a tavolette dedicate alla memoria di Confucio. Anche le cerimonie legate ai funerali o alla festa del Capodanno cinese erano consentite.596

Le concessioni, che Mezzabarba aveva formulato subito dopo la morte di papa Clemente XI, potevano essere intese come una mossa a favore dell’attività dei missionari gesuiti in Cina. A Roma il partito ostile ai gesuiti preparò un contrattacco. La Congregazione de Propaganda Fide inviò ai missionari in Cina una lettera che conteneva due domande: le concessioni elencate nella lettera pastorale di Mezzabarba erano compatibili 1) con la costituzione apostolica Ex illa die promulgata da papa Clemente XI? 2) con una vera attività missionaria? La maggior parte delle risposte, in cui s’intravede una più o meno esplicita animosità nei confronti dei gesuiti, diede un giudizio negativo a entrambe le domande. Il francescano Francesco Saraceni da Conca, vescovo di Lorima e vicario apostolico, fu particolarmente aggressivo. Val la pena di citare un ampio brano della lettera in italiano ch’egli inviò il 3 maggio 1744 alla Congregazione de Propaganda Fide:

«Le condizioni poi con le quali sono state cautelate le toleranze della S. Sede e le permissioni di Mons. Mezzabarba, da noi chiamate in filosofia europea singolarmente conditio sine qua non, qui sono stimate come accidenti da nulla, cioè che possunt adesse et abesse praeter subiecti corruptione: e questa è un’altra nuova filosofia di questo regno. Onde la nostra povera teologia d’Europa, che non costuma termini di tolerare, se non a titolo di estrema necessità, né termini di permettere, se non a titolo di libertà, resta già svergognata dalla teologia cinese, che su le concessioni di pura toleranza e su l’uso di permissioni ad libitum, scarica precetti e fulmina sospensioni a suo talento. Le concessioni che vengono con la vanguardia di tante circostanze, si ricevono absolutamente a capriccio, e si tacciano di zelo indiscreto, anzi ribelli alla benignità della Santa Sede quelli che non s’uniformano ad una tal scuola commune. Bisogna dunque dire che o che la teologia d’Europa fallisca, o che li teologi di Cina non intendono ancor la distanza dal tolerare al permettere, e dal permettere al comandare, o che non sappino nemeno far la distinzione dal termine assoluto al condizionato. Or in tanta diversità di scuola, e in tanta confusione de’ termini, tutti opposti sopra un medesimo oggetto, che posso far io, povero ignorante fraticello francescano? Potrei dire, che non importano a me li disordini dell’altrui governo, ed infatti così dicevo a tempo di semplice missionario, ma adesso già decorato vescovo dalla S. Sede, a cui ho giurata tutta la mia fedeltà, non mi dà l’animo soffrir sconcerti sì grandi senza parlarne con risentimento».597

La modestia ironica («che posso far io, povero ignorante fraticello francescano») e l’ironia sui gesuiti e il loro lassismo morale rientravano in una strategia retorica collaudata. Ma non si può escludere che la contrapposizione tra teologia europea e teologia «cinese» riecheggiasse, in forma rovesciata, un’argomentazione che circolava tra i gesuiti stessi. Nella relazione sull’ambasceria di Mezzabarba redatta dal servita padre Viani si legge che un gesuita, criticato per la spregiudicatezza con cui si serviva di certi beni patrimoniali, avrebbe risposto: «Distinguo. Secondo la morale d’Europa, secondo la quale lei [il suo "accusatore"] si regola, è vero; ma secondo la morale della Cina, di cui io mi servo, non è così».598 L’aneddoto, forse inventato (non lo sapremo mai), mostra che i missionari gesuiti in Cina davano l’impressione di appartenere a un mondo diverso, lontanissimo dall’Europa. Dietro questo stereotipo ostile c’era qualcosa di vero? Per rispondere sarà opportuno guardare da vicino l’espressione «riti cinesi». Fautori ed avversari (seguiti dagli studiosi moderni) ripetevano quella formula come se il suo significato fosse trasparente. Non è così.

 

 

5. La figura di Matteo Ricci, l’uomo che guidò la prima missione dei gesuiti in Cina, è notissima. Le sue scelte ebbero un influsso durevole sulle strategie adottate dalle missioni gesuitiche in Cina e in India. I gesuiti, spiegò Ricci, dovevano imparare il cinese, vestirsi e comportarsi come i letterati cinesi, e cercare di rendersi ben accetti all’élite cinese. Per impressionare quest’ultima Ricci fece un uso accorto della scienza e della tecnologia europee (dalla matematica alle carte geografiche agli orologi) ed esibì la propria padronanza nell’arte della memoria.599 Questa multiforme attività s’ispirava ad un principio fondamentale: l’accommodatio.600 Nei libri sacri Dio ha parlato la lingua dell’uomo, adattandosi alle sue capacità; analogamente, i gesuiti dovevano trasmettere il messaggio cristiano ai cinesi, che ne erano del tutto ignari, in forme appropriate. Qualche compromesso era inevitabile. Ricci scrisse un trattato, Dell’amicizia, ispirandosi alla tradizione stoica, e una specie di catechismo, Il vero significato di «Signore del Cielo», che conteneva solo un rapido accenno a Gesù. (Successivamente alcuni trattati cinesi anticristiani si servirono della morte disonorevole di Gesù come di un’arma polemica).601 Ma rendere il cristianesimo accettabile ai cinesi era soltanto un aspetto della strategia di Ricci. Egli tradusse alcuni elementi della tradizione filosofica cinese per renderli accessibili a un pubblico europeo. Ricci era convinto che i cinesi, all’inizio della loro storia, avessero raggiunto la conoscenza del vero Dio, e che molti di loro si fossero salvati perché avevano vissuto conformemente alla legge di natura. Successivamente, con l’arrivo degli idolatri (ossia dei buddhisti) era cominciata la decadenza. Ma Matteo Ricci riteneva che i letterati seguaci di Confucio avessero preservato alcuni elementi della tradizione antica.

Questa strategia missionaria ebbe un successo limitato. Nell’autunno del 1608 Matteo Ricci cominciò a scrivere una storia della missione dei gesuiti in Cina. Nel 1610 morì a Pechino, lasciando un manoscritto incompiuto scritto in italiano. Nel 1614 un altro gesuita, Nicolas Trigault, che aveva una posizione importante nella missione, tornò in Europa con il manoscritto di Ricci, aggiunse alcuni capitoli scritti in portoghese e in latino, e tradusse tutta l’opera in latino.602 La traduzione latina di Trigault apparve ad Augusta nel 1615, con un titolo che riecheggiava le connotazioni militari della Compagnia di Gesù: De christiana expeditione apud Sinas. Il frontespizio avvertiva che l’opera si basava sulle relazioni di Matteo Ricci (ex P. Matthaei Ricij ... Comentarijs). Trigault, che figurava come curatore (auctore), inserì osservazioni che talvolta correggevano le affermazioni di Matteo Ricci.603 Questa versione latina venne tradotta in tedesco, spagnolo, francese, italiano e, in parte, inglese.604

Il manoscritto di Ricci, intitolato Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, venne pubblicato per la prima volta nel 1911, e poi ripubblicato due volte.605 Esso è conservato nell’archivio romano della Compagnia di Gesù. Sul verso della prima pagina una nota di Nicolas Trigault, datata 26 febbraio 1615, informa che il testo, ad eccezione dei capitoli in portoghese e in latino stesi da Trigault, era stato vergato dallo stesso Matteo Ricci. Questo manoscritto romano, ordinato anche se incompleto, appare molto diverso dal guazzabuglio menzionato da un gesuita a proposito della stesura originale vista subito dopo la morte di Matteo Ricci. Per questo qualcuno ha recentemente messo in dubbio la veridicità della nota di Trigault, sostenendo che la traduzione latina si baserebbe in realtà su una rielaborazione del manoscritto originale di Matteo Ricci compiuta da Trigault stesso e dal gesuita Niccolò Longobardo.606 Certo, senza l’intervento (benché in più punti deformante) di Nicolas Trigault, la fama europea di Ricci non sarebbe mai esistita.607

 

 

6. Queste vicende editoriali permettono di capire meglio le implicazioni di alcuni passi del libro primo dell’opera di Ricci e Trigault. La narrazione della missione di Matteo Ricci, che si estende per quasi tutto il De christiana expeditione apud Sinas, è preceduta da una prima parte che venne pubblicata nel 1639, in latino, come opera autonoma.608 Non del tutto a torto: si trattava di una concisa descrizione della Cina-del paese, degli abitanti, e dei loro costumi – che faceva da preludio alla relazione propriamente storica. Il capitolo VII del libro primo era intitolato «De Sinarum ritibus nonnullis». Nel manoscritto di Ricci il titolo appariva in forma lievemente diversa: «Delle cortesie et alcuni riti della Cina». Il contenuto del capitolo accentuava la divergenza tra i ritus della traduzione latina e le «cortesie e riti» dell’originale italiano. Il capitolo comincia osservando che i cinesi danno una straordinaria importanza all’etichetta; continua descrivendo minutamente in che modo i cinesi rispettabili si salutano quando s’incontrano; seguono notizie sul modo in cui i cinesi si vestono, sulla cerimonia del tè, sui banchetti, sul comportamento nei confronti dell’imperatore e dei propri genitori; il capitolo termina con una parte dedicata a funerali, matrimoni, e festività di vario genere. Un lettore moderno abituato a espressioni come «riti sociali» non si stupirà – a meno che non sia un lettore attento alle sfumature storiche.

Un confronto abbastanza esteso fra la traduzione latina e l’originale italiano mostra che generalmente Trigault semplificò il lessico di Ricci, usando la parola ritus come un termine riferibile a qualsiasi tipo di comportamento sociale, dal modo di salutare alle maniere che i cinesi osservavano in occasione dei funerali (anche se i «riti superstiziosi» erano descritti in un capitolo a parte).609 Ricci parlò di un tribunale di corte (Lijpu), che si occupava dei sacrifici pubblici, dei templi e dei sacerdoti, dei matrimoni reali, delle congratulazioni, degli onori, delle scuole, degli esami dei dottori e dei matematici, delle lettere regie. Questo tribunale era chiamato, osservò Ricci, «delle cortesie e riti»: un’espressione che, si direbbe, cercava di comunicare una sfumatura che Trigault, ancora una volta, nella propria traduzione lasciò cadere: rituum tribunal, il tribunale dei riti.610 E tuttavia si potrebbe sostenere che la scelta di Trigault era in un certo senso già inclusa nella prospettiva di Ricci. Nel passo appena ricordato Ricci notò che il tribunale di corte deve fare in modo che gli esami «si faccino a suo tempo e secondo il rito». Sia Ricci sia Trigault sapevano che il significato originario della parola latina ritus era prossimo a mos («usanza»), dato che non era limitato all’ambito religioso. Rite significava semplicemente «secondo le regole».611 Messi di fronte ad una società alla quale non si potevano applicare le consuete categorie europee, i gesuiti guardarono la Cina attraverso una lente di tipo antiquario, servendosi di un linguaggio che era per loro, al tempo stesso, distante e familiare. La conoscenza approfondita dell’antica Roma consentì ai gesuiti di gettare uno sguardo neutro, distaccato, etnografico sulla Cina a loro contemporanea.612

 

 

7. La ridefinizione del confine tra sfera profana e sfera religiosa proposta da Ricci, poi mediata e semplificata da Trigault, influì in maniera decisiva sul dibattito successivo attorno ai «riti cinesi». I gesuiti permisero ai cinesi convertiti al cristianesimo di partecipare al culto dei morti, e in particolare al culto di Confucio, ritenuto un comportamento civile o politico, privo di connotazioni religiose. In questo processo di ridefinizione dei confini la nozione di «cortesia» ebbe una parte fondamentale. Dopo aver descritto in che modo i cinesi si salutano, Matteo Ricci osservò: «Questa stessa cortesia fanno ai loro Idoli e in Casa o nei tempi avanti all’altare».613 Trigault rovesciò l’analogia, traducendo «cortesia» con una parola dalle connotazioni religiose, cultus: «Hoc eodem cultu ipsi sua simulacra, vel domi vel in templis, coram ara venerantur» («Con lo stesso culto venerano i loro idoli, a casa o nei templi» ecc.).614 Per Matteo Ricci l’omaggio agli idoli era un gesto paragonabile al saluto rivolto a qualcuno incontrato per la strada: un rito civile, sociale. «The same rites they performe to their Idols» si legge nella traduzione abbreviata del primo libro del De christiana expeditione apud Sinas preparata dal pastore anglicano Samuel Purchas.615 Nel 1622 il traduttore italiano Antonio Sozzini si avvicinò senza saperlo al testo originale, ancora inedito, di Matteo Ricci: «Con le stesse ceremonie riveriscono in Casa o nel Tempio i loro Idoli».616

Cortesie, cerimonie, culti, riti: per noi queste parole non sono equivalenti.617 Per Matteo Ricci e chi lo tradusse esse facevano parte di una gamma di alternative, di un continuum verbale che cercava di dare un senso a una società che contraddiceva ogni aspettativa, ogni dicotomia tradizionale, a cominciare dalla più ovvia: l’opposizione tra loro e noi, tra barbari e civilizzati. Con tutta evidenza i cinesi non erano barbari; erano diversi.

 

 

8. Ma lo sguardo antiquario dei gesuiti poteva funzionare all’incontrario. Le implicazioni di quest’atteggiamento emergono chiaramente nello scritto, redatto da un gruppo di gesuiti nel 1699, in risposta a un documento diffuso nel 1693 dal missionario francese Charles Maigrot, vicario apostolico in Cina.618

Maigrot aveva criticato il modo in cui i gesuiti avevano affrontato la questione dei riti cinesi. In una serie di «observationes» presentate al Sant’Uffizio i gesuiti fecero una considerazione di carattere generale: «gli occhi non sono sufficienti a giudicare se un rito sia religioso o puramente civile».619 Seguiva un esempio:

«Immaginiamo due cinesi o due idolatri che arrivino in Europa. Con occhi abituati all’idolatria guardano innumerevoli immagini sacre e statue di Cristo, della Beata Vergine, degli angeli, dei santi Pietro e Paolo, e così via, sparse nelle chiese cattoliche. I due cinesi penseranno immediatamente che quelle immagini sono idoli, e che i cattolici credono che esse debbano essere venerate perché posseggono un potere divino».620

I due cinesi potrebbero imparare delle lingue europee, e imbattersi in eretici provenienti dall’Inghilterra o dall’Olanda, che confermerebbero che i cattolici sono in effetti degli idolatri. Se i due cinesi interrogassero dei cattolici superstiziosi, riceverebbero un’altra impressione falsa. Al pari dei cinesi immaginari in Europa, gli europei che vanno in Cina possono benissimo fraintendere il significato dei riti ai quali assistono.621

La storia dei due ingenui cinesi che guardano i riti europei fraintendendone il significato può sembrare innocente. Ma la conclusione – il confronto tra riti cinesi e riti europei – non lo era affatto. Il confronto non aveva alcuna implicazione relativistica: quei riti erano paragonabili, ma al tempo stesso profondamente diversi. O forse dovremmo dire: erano profondamente diversi, ma al tempo stesso paragonabili. Il punto di vista rovesciato, il cinese che viene in Europa, era una mossa preparata da un romanzo come L’esploratore turco di Giovanni Paolo Marana (1684).622 Pochi decenni dopo, quest’idea venne ripresa e sviluppata, anche qui nel contesto di un’opera di immaginazione, da Montesquieu nelle Lettere persiane. Ma accanto e dietro questi scritti d’immaginazione c’era qualcosa di reale: l’esperienza dei missionari gesuiti in Cina. Come si è detto, essi guardavano all’Europa come a un mondo estraneo, in cui anche i gesti più comuni della fede religiosa avevano cessato di essere ovvi.

 

 

9. Fin qui si è parlato del dibattito sui riti cinesi senza menzionarne le implicazioni teologiche. Il primo a portarle alla luce fu, come si è detto, Matteo Ricci: la religione cinese, nella sua fase più antica e più pura, era stata caratterizzata da una conoscenza del vero Dio. Quest’ipotesi, basata su argomentazioni linguistiche, rafforzò l’atteggiamento favorevole dei gesuiti nei confronti dei riti funebri cinesi e del culto dei morti. Ma dopo la morte di Matteo Ricci, Niccolò Longobardo scrisse un trattato che confutava in maniera particolareggiata le presunte prove linguistiche della conoscenza di Dio da parte degli antichi cinesi. La reazione degli ambienti gesuitici fu durissima: il trattato di Longobardo doveva essere bruciato. Molto tempo dopo la morte del suo autore esso ricomparve, e venne pubblicato prima in spagnolo, poi in francese. Quest’ultima traduzione, apparsa nel 1701, venne letta e annotata da Leibniz, che rimase profondamente colpito dalle ipotesi di Matteo Ricci, trasmesse e confutate dal suo oppositore: uno dei molti aspetti paradossali di questa vicenda.623

Questi problemi teologici, usati come arma polemica nei confronti dei gesuiti, quasi non compaiono nell’inchiesta della Congregazione de Propaganda Fide, conservata, insieme ai pareri rilasciati dai consultori del Sant’Uffizio e altri documenti, nell’archivio Orsini oggi a Los Angeles. Ma i riti, data la loro contiguità con la vita quotidiana, erano un’altra faccenda. Le preoccupazioni pratiche dei missionari in Cina affiorano anche in documenti spesso stereotipati. Il 17 settembre 1713 il francescano Antonio Laghi da Castrocaro, vescovo di Lorima e vicario apostolico di Shensi e Shansi, compilò un «elenco di dubbi» che sembra un commento anticipato alla costituzione apostolica Ex illa die che sarebbe stata emanata due anni dopo.624

La Santa Sede, scrisse il vescovo Laghi, «ha dichiarato, che se oltre li riti condannati vi fossero altri esenti da superstizione, e riducibili al politico, si rimettesse alli vicarii apostolici la decisione. Non han mancato li padri missionari, abbattuti da un sì gran rigore, e dalle pene fulminate nel mandato pontificio per serenità delle loro conscienze ricorrere a me, con propormi varii dubbi circa la praxi della constituzione, che ad essi pare non siino chiari, a quali ho risposto secondo il mio tenue intendimento, e secondo la cognizione acquisita de loro costumi per il corso di 18 anni che vivo tra questa nazione Sinica».

E aggiunse: «... mi è parso di poter rispondere ai missionarii a me soggetti, tra tante angustie che soprattutto proviamo per il culto degli avi, che vicino a trecento anni è cotanto in questo regno, che il voler di un colpo e del tutto sbarbicarlo, è un tentare l’impossibile, ed esporre la missione ad evidente pericolo, tanto più che i poveri christiani hanno parenti, amici, tutti Gentili, non per questo dico si devino permettere superstizioni, ma lasciarli quanto si puole, che non sii contrario agl’ordini della Santità Sua, e purità della nostra S. Religione».625

Anche un francescano poteva trovarsi d’accordo con i gesuiti. Ma la stategia modesta e realistica proposta da Antonio Laghi non aveva futuro. La condanna dei riti cinesi emanata da papa Benedetto XIV nel 1742 colpì in maniera irrimediabile i missionari in generale, e in maniera particolare i gesuiti. La Compagnia di Gesù, soppressa nel 1773, rinacque nel 1814: ma si trattava di un’istituzione diversa, che si muoveva in un mondo completamente mutato.

 

 

10. Nel corso di due millenni una piccola setta imperniata sulla memoria di Gesù crebbe fino a diventare una religione mondiale. Questo sviluppo implicò adattamenti, accomodamenti, trasformazioni. Il fallimento dell’adattamento religioso, proposto con tanto vigore dai gesuiti in Cina, era inevitabile? Questa domanda è stata riproposta un’infinità di volte. Oggi [2011] essa riemerge in un contesto diverso, che vede la Chiesa cattolica divisa tra una prospettiva tradizionalmente eurocentrica – riaffermata da papa Benedetto XVI nel discorso tenuto a Ratisbona – e un atteggiamento più audace, e più aperto, nei confronti delle religioni non europee. Si potrebbe sostenere che per i cattolici la discussione sui riti cinesi non solo non si è conclusa, ma è, in un certo senso, più attuale che mai. E tuttavia le domande che essa ha posto toccano anche chi si proponga di analizzare criticamente fenomeni religiosi da un punto di vista non religioso. Fino a che punto una categoria come quella di «religione», nata in Europa, ci aiuta a capire fenomeni non europei?626

Si tratta di domande di portata globale, nate da un frammento minuscolo di un archivio di famiglia oggi smembrato. Ancora una volta c’imbattiamo in un’ovvietà: le vie della ricerca sono imprevedibili.627