1. «Profezia o rivelazione [Prophetia sive revelatio] è la conoscenza certa di qualcosa, rivelata da Dio agli uomini». A queste parole, con cui si apre il Trattato teologico-politico di Spinoza, segue una definizione:
«Profeta è invece colui che interpreta le rivelazioni di Dio per coloro che non possono avere una conoscenza certa delle rivelazioni di Dio e che perciò possono accettare soltanto per mera fede le cose rivelate».681
Nel corso del Trattato questa definizione, presentata dal punto di vista degli attori, viene sottoposta a una stringente rilettura critica: «i profeti non percepivano la rivelazione di Dio se non tramite l’immaginazione, ossia mediante parole o immagini, vere o immaginarie».682
Mentre il termine «profeta» è accompagnato, nel testo e in una nota, da un rinvio alla parola ebraica nabi, che ne chiarisce il significato («oratore e interprete»),683 il termine «rivelazione» non viene mai sottoposto ad analisi. Questa asimmetria riguarda anche il significato dei due termini. La sinonimia profezia/rivelazione è di fatto smentita già nella prefazione, e poi nel corso del Trattato. «Dimostro poi» scrive Spinoza «come la parola rivelata di Dio non consista in un certo numero di libri, ma nel semplice concetto del pensiero divino rivelato ai profeti; consiste cioè nell’obbedire a Dio con animo puro, e nel coltivare la giustizia e la carità ... concludo infine che l’oggetto della conoscenza rivelata non è altro che l’obbedienza».684 In altre parole, ciò che viene messo in discussione non è la rivelazione divina (debitamente reinterpretata) ma ciò che la trasmette, o pretende di trasmetterla: i profeti, la Scrittura.
Nel capitolo VII del Trattato Spinoza spiega che l’interpretazione della Scrittura è resa possibile dalla «storia della Scrittura», di cui elenca le caratteristiche. Ecco la prima:
«Essa deve comprendere lo studio della natura e delle proprietà della lingua in cui i libri della Scrittura furono scritti, nonché della lingua che i loro autori parlavano abitualmente. Solo così potremo infatti penetrare tutti i significati che ciascun discorso può ammettere, in base alle consuetudini della lingua parlata. E poiché tutti gli scrittori, tanto dell’Antico quanto del Nuovo Testamento, erano Ebrei, è chiaro che la storia della lingua ebraica è necessaria più di ogni altra, non soltanto per la comprensione dei libri dell’Antico Testamento, che sono stati scritti in questa lingua, ma anche di quelli del Nuovo; per quanto, infatti, siano stati tradotti in altre lingue, hanno tuttavia un’impronta ebraica [hebraizant tamen]».685
Di qui la decisione di citare i passi del Nuovo Testamento secondo la versione in siriaco (una lingua del gruppo aramaico) tradotta in latino da Emanuele Tremellio: «ammesso», insinua Spinoza in una nota al capitolo XI, che «si tratti di una versione – cosa di cui si può dubitare, visto che non ne conosciamo l’autore, né l’epoca in cui venne pubblicata, ed anche considerando che la lingua parlata dagli apostoli non era altro che il siriaco».686
Se mettiamo temporaneamente da parte la traduzione latina di Tremellio per volgerci al testo greco del Nuovo Testamento, il silenzio di Spinoza sulla «rivelazione» diventerà più comprensibile.
2. L’origine del termine «rivelazione» è nascosta, perché è sotto gli occhi di tutti: di fatto, viene discussa molto raramente.687 Senza dubbio andrà cercata nelle lettere di Paolo, dove il verbo ἀπoϰαλύπτω («svelare», «rivelare», «manifestarsi») ricorre spesso. Prendiamo per esempio la Prima lettera ai Corinzi, 3, 10-13:
«Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento ... E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno, che si manifesta [ἀπoϰαλύπτεται] col fuoco...».688
«Quia in igne revelabitur» traduce la Vulgata. In altri passi delle lettere paoline il sostantivo derivato ἀπoϰαλύψις allude a un’esperienza individuale, come nella presentazione che Paolo fa di se stesso nella Lettera ai Galati, 1, 11-12:
«Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo [ἀλλὰ δι’ ἀπoϰαλύψες Ὶησoῦ Χϱιστoῦ]».
È stato il Padre, come Paolo spiega subito dopo (Gal, 1, 15-16), che «si compiacque di rivelare [ἀπoϰαλύψαι] in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani».
È stato sostenuto che tra questa «rivelazione» individuale e il «significato recente e globale di Rivelazione» esisterebbe uno scarto, che solo la riflessione teologica può colmare.689 Il rischio di cadere nell’anacronismo è evidente. Per evitarlo, sarà opportuno ripartire dai testi.
3. Nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo, dopo aver annunciato il nuovo patto, basato non sulla lettera ma sullo spirito – «perché la lettera uccide, lo spirito dà vita» –, dice (3, 12-13):
«Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero».
Paolo allude a un passo dell’Esodo (34, 33-35). Mosè è salito sul monte Sinai, ha ricevuto dal Signore le tavole della legge, ed è disceso col volto raggiante:
«Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro [agli Israeliti], si pose un velo sul viso. Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando fosse uscito. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando fosse di nuovo entrato a parlare con lui [col Signore]».690
Il discorso di Paolo ai Corinzi continua così (2 Cor, 3, 12-18):
«... Mosè che poneva un velo [ϰάλυμμα] sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo [ϰάλυμμα] rimane, non rimosso [μὴ ἀναϰαλυπτóμενoν], alla lettura dell’antico patto, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo [ϰάλυμμα] è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo [ϰάλυμμα] sarà tolto. Il Signore è lo spirito e dove c’è lo spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto [ἀναϰεϰαλυμμένῳ πϱoσώπῳ], riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello spirito del Signore».
In questo passo densissimo il velo letterale di Mosè (ϰάλυμμα) diventa un velo metaforico non rimosso (μὴ ἀναϰαλυπτóμενoν), che impedisce ai figli di Israele la comprensione dell’antico patto.691 La rimozione, o svelamento, o rivelazione, avverrà solo con la conversione a Cristo. A rendere così pregnante la metafora della rimozione del velo, o rivelazione, è l’espressione «antico patto» (παλαιὰ διαθήϰη), che, nelle lettere di Paolo e nei vangeli, si incontra soltanto qui. La rivelazione in Cristo si appropria del significato della rivelazione sul monte Sinai, rimasto oscuro ai figli di Israele. Il nesso linguistico tra il sostantivo (ϰάλυμμα) e il verbo (ἀναϰαλύπτω) sottolinea la superiorità di Cristo su Mosè, del nuovo patto sull’antico: ma al tempo stesso riafferma il nesso inestricabile che li lega, e che apparirà in piena luce quando «il velo sarà tolto».692 La Vulgata trasferì questo intreccio verbale dal greco in latino: «usque in hodiernum enim diem idipsum velamen in lectione Veteris Testamenti manet non revelatum, quoniam in Christo evacuatur».
In poche frasi Paolo aveva condensato il rapporto, contrassegnato da continuità e discontinuità, tra la nuova fede e l’antica.693 Le implicazioni di quest’ambiguità emersero a poco a poco, attraverso una traiettoria lunga e tortuosa.
4. Il commento di Paolo al passo dell’Esodo (2 Cor, 3, 12-18) è stato definito da Hans Windisch un «Midrash cristiano»: un «pensiero geniale» nato dalla lettura di Esodo, 34, 33-35.694 «Midrash», ossia ricerca, interrogazione: un testo ispirato all’esegesi tradizionale della Scrittura, qui rielaborata da un punto di vista innovatore, e poi inserita nella seconda lettera ai Corinzi.695 La proposta interpretativa di Windisch ha avuto un’eco profonda. L’uso dell’espressione «antico patto» non è l’unica anomalia di 2 Cor, 3, 12-18. Il «pensiero geniale» di Paolo potrebbe essere nato da una combinazione tra il passo dell’Esodo (34, 33-35) e un divieto, di tutt’altro genere, enunciato in un passo del Deuteronomio (23, 1): «Nessuno sposerà una moglie del padre, né solleverà il lembo del mantello [ϰαὶ oὐϰ ἀναϰαλύψει συνϰάλυμμα] paterno».696 Ma il verbo ἀναϰαλύπτω compare in altri passi della traduzione dei Settanta. Eccoli:
Giobbe, 12, 22: «Strappa dalle tenebre i segreti / e porta alla luce l’ombra della morte» (ἀναϰαλύπτων βαθέα ἐϰ σϰóτoυς, ἐξήγαγεν δὲ εἰς φῶς σϰιὰν θανάτoυ); Vulgata: «Qui revelat profunda de tenebris / et producit in lucem umbram mortis».
Salmi, 18, 16: «Allora apparve il fondo del mare, / si scoprirono le fondamenta del mondo» (ϰαὶ ὤφθησαν αἱ πηγαὶ τῶν ὑδάτων, ϰαὶ ἀνεϰαλύφθη τὰ θεμέλια τῆς oἰϰoυμένης). Vulgata: «Et apparuerunt fontes aquarum / et revelata sunt fundamenta orbis terrarum».
Isaia, 26, 21: «la terra ributterà fuori il sangue assorbito e più non coprirà i suoi cadaveri» (ϰαὶ ἀναϰαλύψει ἡ γῆ τὸ αἷμα αὐτῆς, ϰαὶ oὑ ϰαταϰαλύψει τoὺς ἀνῃϱημένoυς). Vulgata: «et revelabit terra sanguinem suum et non operiet ultra interfectos suos».
In questi passi l’atto del rivelare (ἀναϰαλύπτω) è attribuito al Signore. Nel riprendere il proprio commento midrashico, imperniato su quel verbo non frequente, Paolo avrà voluto sottolineare implicitamente (una sfumatura certo sfuggita ai più) che l’appropriazione dell’antico patto da parte della nuova fede era opera del Signore.
5. Commentando la Lettera ai Galati (1, 12), Girolamo osservò che la parola ἀπoϰαλύψις, ossia revelatio, «è propria delle Scritture, e nessuno dei sapienti greci l’ha usata».697 I traduttori della Settanta, volgendo l’ebraico in greco, avevano meritoriamente creato parole nuove per esprimere concetti nuovi: per esempio, qualcosa di velato che viene portato alla luce quando si toglie l’involucro che lo ricopre. A questo punto Girolamo citò Mosè che, dopo aver parlato con Dio faccia a faccia, si era velato il volto (Es, 34, 33-34): una conferma indiretta, ma eloquente, dell’importanza decisiva di 2 Cor, 3, 12-18 per la storia del termine «rivelazione».
Gli echi delle parole di Paolo durarono a lungo: nella diffusissima immagine della Sinagoga velata (fig. 18), contrapposta alla Chiesa, riconosciamo in controluce l’immagine di Mosè.698
6. Torniamo a Spinoza. Nella versione siriaca del Nuovo Testamento tradotta da Tremellio il passo di 2 Cor, 3, 13-14 suonava così:
«13. Et non sicut Musche, super cujus faciem positum erat velamen, ne intuerentur filij Israel in finem ejus quod aboletur. 14. Sed excaecati sunt in mentibus suis: nam usque in hodiernum diem, quando testamentum vetus legitur, illud ipsum velamen manet super eos, neque discooperitur, quoniam per Christum aboletur».699
«Velamen/discooperitur»: nella traduzione latina di Tremellio il nesso linguistico ϰάλυμμα/ἀναϰαλύπτω non è percepibile. Ma questo non basta a spiegare la mancata analisi, da parte di Spinoza, del termine «rivelazione» e delle sue radici paoline. Ad ostacolare quell’analisi avrà contribuito la contrapposizione, su cui s’impernia il capitolo XI del Trattato, tra la rivelazione rivendicata da Mosè e dai profeti, e le argomentazioni svolte da Paolo e dagli apostoli. Spinoza sottolineò la superiorità di queste ultime:
«... da ciò soprattutto si riconosce che i profeti hanno una conoscenza soprannaturale, dal fatto cioè che essi affermano puri dogmi, o decreti, o sentenze; e che perciò il sommo profeta Mosè non elaborò alcuna argomentazione legittima. Non concedo affatto, invece, che le articolate deduzioni e argomentazioni di Paolo, quali troviamo nella Epistola ai Romani, siano state scritte a seguito di una rivelazione soprannaturale».700
Qui l’appropriazione dell’«antico patto» da parte di Paolo viene ignorata. Ciò che Spinoza sottoscrive è invece il passo, di poco precedente (2 Cor, 3, 3), che esalta lo «spirito» contro la «lettera»: ciò gli permette di dichiarare irrilevante la distinzione tra i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, in quanto non «diversi per dottrina, né perché siano stati scritti come documenti originali dell’alleanza».701 Una dichiarazione come questa potrebbe essere stata dettata dalla cautela di Spinoza nei confronti del contesto cristiano (calvinista) in cui viveva.702 In ogni caso, per decifrare le implicazioni dell’appropriazione paolina dell’«antico patto» sarà necessario seguire un’altra strada.
1. Una digressione. Molti anni fa mi resi conto che le radici dell’idea di prospettiva storica vanno cercate nel rapporto ambivalente, fatto di continuità e discontinuità, del cristianesimo nei confronti del giudaismo.703 Un nesso inquietante, se si pensa che il senso di superiorità, nato dall’autorappresentazione del cristianesimo come verus Israel, ha nutrito anche l’antigiudaismo, nelle sue molteplici versioni.704
La riflessione su questo tema mi ha condotto verso l’appropriazione del significato dell’«antico patto» annunciata da Paolo (2 Cor, 3, 12-18). E subito dopo, al passo del discorso sulla montagna (Mt, 5, 17) in cui Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento». Nel primo caso, un superamento (diremmo oggi); nel secondo, un compimento; entrambi implicano una conservazione. Esiste un rapporto tra questi due passi?
2. In uno dei cosiddetti «scritti teologici giovanili», Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, redatto nel 1798-1799, Hegel commentò a lungo il discorso sulla montagna di Gesù. A un certo punto ne citò rapidamente alcuni passi, a cominciare dall’inizio del Vangelo secondo Matteo, 5, 17: «Meinet nicht, ich wolle das Gesetz aufheben» («Non pensiate che io voglia abolire la Legge...»).705 Hegel citava a memoria, come mostra il confronto con la traduzione di Lutero: «Ihr sollt nicht meinen, daß ich gekommen bin, das Gesetz oder die Propheten aufzulösen; ich bin nicht gekommen aufzulösen, sondern zu erfüllen».706 Al posto di aufzulösen (Lutero), aufheben: un termine tratto dal linguaggio quotidiano, che Hegel usa qui in un’accezione negativa, preceduta da una negazione («Non pensiate che io voglia abolire la Legge...»), alla quale segue immediatamente, nel passo di Matteo, una frase affermativa: «non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (πληϱῶσαι, che Lutero traduce erfüllen). La citazione monca di Mt, 5, 17 permette di cogliere in atto il lavorio della mente di Hegel, tesa verso l’elaborazione di una dialettica imperniata sulla Aufhebung. Il verbo aufheben era già emerso, sempre a proposito del discorso sulla montagna, in un abbozzo dello Spirito del cristianesimo e il suo destino: il luogo di nascita della dialettica hegeliana, come lo definì Emilio Mirri.707 Per esprimere l’atteggiamento di Gesù nei confronti della legge, Hegel si era servito di un termine intrinsecamente ambivalente: «uno dei più importanti concetti della filosofia», come l’avrebbe definito nella Scienza della logica.708 Di qui una critica a Kant («ha molto torto») sviluppata in un altro abbozzo dello stesso scritto:
«In generale, alla legge Gesù contrappone il soggetto.
«Forse che vi contrappone la moralità? Moralità è, secondo Kant, l’assoggettamento del singolare all’universale, la vittoria dell’universale sul singolare a lui contrapposto; piuttosto: innalzamento del singolare all’universale, unificazione, superamento [Aufhebung] nell’unificazione dei due opposti».709
Gesù, debitamente reinterpretato, contro Kant.
3. Giorgio Agamben ha identificato il fondamento della dialettica di Hegel nell’uso di Aufheben da parte di Lutero nella sua traduzione della Lettera ai Romani, 3, 31 (e in altri passi delle lettere di Paolo):
«Togliamo [ϰαταϱγoῦμεν] dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge» («Wie? Heben wir denn das Gesetz auf durch den Glauben? Das sei ferne! Sondern wir richten das Gesetz auf»).
E Agamben commenta: «Se la genealogia della Aufhebung qui proposta è corretta, allora non soltanto il pensiero hegeliano, ma tutta la modernità – intendendo con questo termine l’epoca che sta sotto il segno della Aufhebung dialettica – è impegnata in un corpo a corpo ermeneutico col messianico, nel senso che tutti i suoi concetti decisivi sono interpretazioni e secolarizzazioni più o meno consapevoli di un tema messianico».710
Mettiamo subito da parte la «modernità», categoria priva di qualsiasi valore analitico. L’allusione a Carl Schmitt («tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»)711 consente di confrontare l’ipotesi di Agamben con ciò che è stato detto nel paragrafo precedente. La citazione a memoria di Mt, 5, 17 da parte di Hegel presuppone certamente l’uso di Aufhebung in altri passi della traduzione di Lutero, ma suggerisce di estendere la genealogia proposta da Agamben al di là del termine ϰαταϱγεῖν.712 Inoltre, va sottolineato che il «tema messianico» evocato a proposito di Rm, 3, 31 si accompagna (come in Mt, 5, 17) al rifiuto dell’abolizione della Legge. Ancora una volta, ci troviamo di fronte al rapporto, in diversa misura ambivalente, di Paolo e di Gesù, con l’«antico patto»: ambivalenza che l’antigiudaismo (e antisemitismo) cattolico di Carl Schmitt cercò in ogni modo di cancellare.
4. «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento [πληϱῶσαι]» (Mt, 5, 17). Di «compimento» (πλήϱωμα) della Legge, identificato con l’amore, aveva parlato Paolo nella lettera ai Romani (13, 10). Il compimento non abolisce la Legge, ma ne svela il significato. Tutto ciò ci riporta al passo della Seconda lettera ai Corinzi (3, 12-18) in cui Paolo formula il tema della rivelazione in rapporto all’«antico patto». E qui si ritrova il termine ϰαταϱγεῖν:
«... Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso (μή ἀναϰαλυπτóμενoν), alla lettura dell’antico patto, perché è in Cristo che esso viene eliminato (ὅτι ἐν Xϱιστῶ ϰαταϱγεῖται)».713
La convergenza tra i due verbi – ἀναϰαλύπτωe ϰαταϱγέω, in rapida successione – è sottolineata nella traduzione di Girolamo: «usque in hodiernum enim diem idipsum velamen in lectione Veteris Testamenti manet non revelatum, quoniam in Christo evacuatur».714 La rivelazione, nella sua formulazione originaria, e il superamento/ conservazione (Aufhebung) dell’«antico patto» nel nuovo, sono nozioni strettamente legate.
1. Verso la metà del II secolo Marcione respinse l’identificazione tra il Dio padre di Gesù e il Dio creatore del cielo e della terra: e a sostegno della propria tesi, che negava qualunque rapporto tra cristianesimo e giudaismo, citò vari passi dalle lettere di Paolo, che riteneva parzialmente falsificate, censurandole e riscrivendole.715 Adolf von Harnack (1851-1930), il maggiore studioso di Marcione, vide in lui il simbolo di un cristianesimo futuro, finalmente degiudaizzato perché liberato dall’Antico Testamento.716 Questa degiudaizzazione aveva per Harnack un carattere esclusivamente religioso, come mostra la sua ferma opposizione all’antisemitismo razzista di Houston Stewart Chamberlain. Harnack dava per scontato che Gesù e Paolo fossero ebrei – anche se quest’ultimo gli pareva «poco simpatico e incomprensibile».717
Durante il nazismo i tentativi di arianizzazione di Gesù e di Paolo si moltiplicarono.718 Nel novembre 1933 un gruppo evangelico luterano nazista, denominato Cristiani tedeschi (Deutsche Christen), dichiarò che l’Antico Testamento doveva essere rimosso dalla Scrittura. In questo contesto Hans Windisch, l’autore del già ricordato commento alla seconda Lettera ai Corinzi, scrisse un denso libretto su Paolo e l’ebraismo (Paulus und das Judentum) pubblicato nell’anno della sua morte (1935).719 Windisch comincia esponendo, da un lato, le tesi di studiosi «völkisch» (nazisti) e di ideologi razzisti come Houston Stewart Chamberlain e Alfred Rosenberg, che avevano condannato il giudaismo di Paolo; dall’altro, le tesi di studiosi giudeo-cristiani o ebrei, come Claude Montefiore, secondo cui nella teologia di Paolo non esistono tracce di giudaismo. Paolo è insomma un enigma, commenta Windisch: per decifrarlo è necessario distinguere tra giudaismo e Antico Testamento. Paolo era lontano dal giudaismo del suo tempo, ma profondamente legato alla Scrittura. Nelle sue lettere Paolo sembra anticipare Marcione, perché contrappone la nuova fede alla Legge: ma, a differenza di Marcione, sostiene che il superamento (Aufhebung) della religione della Torah si trova nella Torah stessa. Due tesi «apparentemente contrapposte».720 Ma la risposta a questa «apparente contrapposizione» è data dal termine Aufhebung, che Windisch usa ripetutamente nel senso della dialettica di Hegel (pur senza menzionarlo).
2. In uno studio recente Michael Cover ha ricordato la definizione di 2 Cor, 3, 12-18 come «Midrash cristiano», proposta da Hans Windisch, e ne ha preso le distanze in quanto «categoria etic».721 A maggior ragione si potrebbe definire etic l’interpretazione, proposta da Windisch in termini di Aufhebung, del rapporto, fatto di continuità e discontinuità, di Paolo con l’Antico Testamento. Ma una conclusione del genere sarebbe troppo sbrigativa. Il rapporto etic/ emic può essere inteso come un esercizio di traduzione.722 E anche la lettura hegeliana di Paolo, e in generale della Bibbia, è stata filtrata dalla traduzione di Lutero.723 L’interpretazione (etimologicamente, la traduzione) dell’ambivalente rapporto tra cristianesimo e giudaismo contribuì all’elaborazione di una dialettica imperniata sull’Aufhebung.
E però, dagli scritti giovanili di Hegel, risulta chiaro che a sollecitare la sua riflessione non fu 2 Cor, 3, 12-18, bensì il discorso di Gesù sulla montagna. In particolare, il passo (Mt, 5, 17) in cui Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento». Secondo Rudolf Bultmann questo passo, «se messo a confronto con altri di Gesù e con il suo comportamento effettivo, si rivela inautentico; esso è una creazione della comunità nel contesto del successivo periodo di polemica attorno a questo tema. Una cosa è però chiara: questo atteggiamento conservatore della comunità non sarebbe stato possibile, se Gesù avesse messo in discussione il valore dell’AT».724
Un teologo che decida quale sia la fisionomia autentica di Gesù a partire dalle proprie tesi rischia, come minimo, di cadere in un circolo vizioso.725 Lo ha sottolineato, da un punto di vista generale, E.P. Sanders, che tuttavia è arrivato alle stesse conclusioni di Bultmann: Mt, 5, 17 «si indirizza verso uno stretto legalismo che nessuno attribuirà mai a Gesù».726
La posta in gioco è chiara: il rapporto di Gesù con la tradizione giudaica. «In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure uno iota o un segno della legge, senza che tutto sia compiuto» (Mt, 5, 18): la possibilità che queste siano parole autentiche di Gesù, forse anteriori al suo conflitto col «rabbinismo», venne avanzata cautamente da Hans Windisch.727 A una conclusione convergente è arrivato Klaus Wengst, reinterpretando, in via ipotetica, le antitesi che secondo la tradizione cristiana punteggerebbero il discorso sulla montagna: «Fu detto ... ma io vi dico» (’Eϱϱέθη ... ἐγὼ δὲ λέγω ὑμῖν). Forse il δὲ della versione greca non aveva un valore avversativo, e magari riecheggiava una formula rabbinica del tipo «e io vi dico». Quest’ipotesi interpretativa appare plausibile, osserva Wengst, se riferita a un discorso che si proponeva di portare a compimento la Legge anziché distruggerla (Mt, 5, 17).728 E tuttavia, come ha osservato Windisch, i seguaci giudeo-cristiani di Gesù avranno percepito il discorso sulla montagna come una polemica contro Paolo, e il suo superamento della Legge. 729 Qui si può dare ragione a Bultmann quando dice: «Ciò che per Gesù è futuro, Paolo lo considera come presente, come presente iniziatosi nel passato».730
3. E con questo torniamo alla rivelazione: una categoria (quasi) emic, frutto della contiguità linguistica tra ϰάλυμμα e ἀναϰαλύπτω, che Girolamo, patrono dei traduttori, rese col termine revelatio. L’idea di prospettiva storica ne è la versione secolarizzata.731 Quest’affermazione non va confusa con la tesi proposta da Karl Löwith, secondo cui «la visione cristiana e post-cristiana della storia è essenzialmente rivolta al futuro: essa inverte il significato classico di ἱστoϱεῖν, che si riferisce al divenire presente e passato ... Conseguentemente, l’interpretazione del passato diviene una profezia retrospettiva, che lo rappresenta come una "preparazione" significativa del futuro».732 Si tratta di una conclusione inaccettabile. La connotazione escatologica della rivelazione «in Cristo» di cui parla Paolo in 2 Cor, 3, 12-18 affonda le sue radici nel passato, nell’appropriazione dell’«antica legge». Nel discorso di Paolo, presente passato e futuro coesistono, strettamente intrecciati. Ma nel corso dei secoli, dei millenni, il loro rapporto cambiò. Il mancato verificarsi del secondo avvento di Gesù, ritenuto imminente, portò a una riformulazione dell’elemento escatologico. E anche il nesso tra presente e passato ne risultò modificato. L’ambiguo legame con l’Antico Testamento aprì la strada, paradossalmente, alla possibilità di leggere il testo sacro a distanza, in chiave potenzialmente storica, come testimoniano le riflessioni di Agostino sulla poligamia dei patriarchi.733 Mille anni dopo, Tucidide venne tradotto in latino da un lettore spregiudicato del Pentateuco come Lorenzo Valla: un esempio che mostra come visione cristiana e post-cristiana della storia e il significato classico di ἱστoϱεῖν greco non fossero percepiti come incompatibili.
4. Quest’intreccio proseguì, com’è noto, nei secoli successivi. È dunque lecito interpretare l’idea di prospettiva storica come una versione secolarizzata della rivelazione? Sì, a patto di vedere la secolarizzazione come un fenomeno di lunghissima durata e di esito incerto. Ma la minaccia che incombe, legata alla fragilità dell’ambiente, ripropone una versione secolarizzata dell’escatologia? A questa domanda non so rispondere.