11. L’assenza di senso e la psicoterapia

Nel capitolo precedente ho affrontato la questione del senso della vita così come viene convenzionalmente presentato. Il senso della vita è un importante concetto psicologico che prima facie va a toccare profondamente tutti noi. Ho accettato questo concetto e, di conseguenza, ho discusso la gamma di attività umane in grado di offrire un senso, e ho anche descritto le manifestazioni cliniche patologiche della condizione fenomenologica dell’assenza di senso.

Adesso mi rivolgerò all’immediato problema quotidiano dei terapeuti che si trovano di fronte pazienti che affermano di non trovare un senso alla propria vita. Un terapeuta che accetti la formulazione del problema fatta dal paziente si ritroverà probabilmente a condividere il senso di blocco di quel paziente. A un terapeuta del genere verrà in mente la propria ricerca incompiuta di un senso nella vita. Com’è possibile, si chiede il terapeuta, che uno possa risolvere un problema per qualcun altro quando non è in grado di risolverlo per sé? Il terapeuta può così concludere che il problema sia insolubile e trovare modi per eluderlo nella terapia.

Per evitare questa sequenza di eventi poco terapeutici, il primo passo del terapeuta deve consistere nel non dare per buona la formulazione del problema fatta dal paziente. Deve invece esaminare con rigore la legittimità della lamentela che la vita non ha senso. Se si analizza il terreno su cui si fonda tale lamentela, ovvero il senso della domanda «Che senso c’è nella vita?», si viene a sapere che, spesso in grande misura, la domanda è primitiva e contaminata.

Da un lato, la domanda, così come viene convenzionalmente posta, presume che ci sia un senso nella vita che un particolare paziente non è in grado di individuare. La domanda è in conflitto con la concezione esistenziale dell’essere umano in quanto soggetto portatore di senso. Non c’è un disegno preesistente, non c’è uno scopo “là fuori”. Come potrebbe essercene uno quando ciascuno di noi costituisce il suo proprio “là fuori”?

Un altro problema importante inerente alle domande sul senso della vita è che sono così spesso confuse con una gran quantità di altre questioni. Quando queste altre preoccupazioni sono analizzate e scartate, la crisi primaria del senso del paziente è meno letale e molto più gestibile. Tenterò di affinare la questione clinica del senso della vita considerando dapprima il perché abbiamo bisogno di un senso e poi esaminando le varie preoccupazioni che spesso oscurano la questione.

Perché abbiamo bisogno di un senso?

Decenni di ricerca empirica hanno stabilito che la nostra organizzazione percettiva neuropsicologica è tale che noi elaboriamo istantaneamente gli stimoli aleatori che riceviamo. Il movimento della Gestalt in psicologia, fondato da Wolfgang Köhler, Max Wertheimer e Kurt Koffka, diede origine a un’enorme quantità di ricerca sia sulla percezione che sulla motivazione, dimostrando che organizziamo gli stimoli molecolari come pure i dati psicologici e comportamentali in Gestalt, ovvero in configurazioni o schemi. Così, quando ci vengono presentati dei puntini casuali su una carta da parati, li organizziamo in figure e sfondo; quando ci troviamo davanti un cerchio spezzato, automaticamente lo percepiamo come completo; quando ci troviamo al cospetto di diversi dati comportamentali (per esempio un rumore strano durante la notte, un’espressione facciale insolita, un avvenimento internazionale insensato), ne tiriamo fuori un “senso” facendolo rientrare in un quadro di riferimento esplicativo familiare. Quando uno qualsiasi di questi stimoli o situazioni non si presta all’adattamento, ci si sente tesi, infastiditi e insoddisfatti. Questa condizione di disforia persiste fino a quando una comprensione più completa ci permette di inserire la situazione in uno schema più ampio e riconoscibile.

Le implicazioni di queste tendenze ad attribuire un senso sono ovvie. Nello stesso modo in cui affrontiamo e organizziamo stimoli ed eventi casuali nel nostro mondo quotidiano, così ci accostiamo alla nostra situazione esistenziale. Sperimentiamo una disforia al cospetto di un mondo indifferente, che non corrisponde a schemi, e cerchiamo modelli, spiegazioni e il senso dell’esistenza.

Quando non si è in grado di trovare uno schema coerente, ci si sente non solo infastiditi e insoddisfatti, ma anche vulnerabili. La convinzione di avere un senso decodificato porta sempre con sé un senso di padronanza. Anche se lo schema significante che si è scoperto implica l’idea che si è deboli, vulnerabili o superflui, ciononostante è più confortante di una condizione di ignoranza.

È evidente che bramiamo di trovare un senso e che siamo a disagio per la sua assenza. Uno trova uno scopo e ci si aggrappa per salvarsi la pelle. Tuttavia, lo scopo che uno si crea non mitiga lo sconforto in modo efficace se si continua a ricordare di averlo forgiato. (Frankl paragonava la fede nei significati della vita costruiti, o “inventati”, personalmente all’arrampicarsi sulla corda di un fachiro lanciata in aria.) È di gran lunga più confortante credere che il senso sia “là fuori” e che uno lo abbia scoperto. Frankl insisteva nell’affermare che «il senso è quello che si intende con una situazione che implica una domanda e chiede una risposta […] C’è una soluzione soltanto a ciascun problema, quella giusta; e c’è un solo significato per ciascuna soluzione, ed è il suo vero significato»1. Si opponeva alla concezione sartriana che uno dei pesi dell’essere liberi è che ci si deve inventare un senso. Nei suoi scritti affermò: «Il senso è qualcosa che deve essere trovato e che non può essere dato. L’uomo non può inventarlo, ma deve scoprirlo»2. La sua posizione era fondamentalmente religiosa e poggiava sul presupposto che ci sia un Dio che ha decretato l’esistenza di un senso per ciascuno di noi, che deve essere scoperto e realizzato. Anche se non possiamo comprendere il senso nella sua completezza, secondo Frankl dobbiamo accettare sulla fiducia che esiste uno schema coerente che spiega la vita e uno scopo per la sofferenza dell’uomo. Proprio come per l’animale cavia, che non può comprendere la ragione del suo dolore, così è per gli esseri umani, che non sono in grado di scoprire il loro senso perché si trovano in una dimensione al di là della loro comprensione. Tuttavia, è possibile sostenere le premesse di base di quest’argomentazione? Dopo tutto, se ci fosse un Dio, perché ne dovrebbe conseguire che aveva uno scopo per la vita e, soprattutto, uno scopo per ciascuno di noi? Non dimentichiamoci che è l’uomo, non Dio, a essere ossessionato dal problema dello scopo.

Il senso della vita e i valori

Così, un senso del senso è addolcire l’angoscia: viene in essere per alleviare l’angoscia che proviene dal fronteggiare una vita e un mondo senza una struttura ordinata, confortante. Tuttavia, c’è un’altra ragione vitale per cui abbiamo bisogno del senso. Una volta che un sentimento del senso della vita si è sviluppato, dà origine ai valori che, a loro volta, agiscono sinergicamente per acuire il proprio sentimento del senso.

Quali sono i valori e perché ne abbiamo bisogno? Nel corso della sua crisi del senso Tolstoj non solo si poneva domande sul perché, ma anche domande sul come («Come dovrò vivere? Su cosa fonderò la mia vita?») e tutte esprimevano un bisogno di valori, un qualche insieme di linee guida o principi che gli dicessero come vivere.

Una definizione antropologica standard di valore è: Un concetto, esplicito o implicito, distintivo di un individuo o caratteristico di un gruppo, di ciò che è “desiderabile” e che influenza la selezione delle modalità, dei mezzi e delle finalità tra quelle disponibili3 (corsivo mio). In altre parole, i valori costituiscono un codice secondo il quale un sistema di azione può essere formulato. I valori ci permettono di sistemare possibili modi di comportarsi in una gerarchia di approvazione-disapprovazione. Per esempio, se lo schema di senso di un individuo pone l’accento sul servizio agli altri, allora questi sarà facilmente in grado di sviluppare le proprie linee guida, o valori, in modo che gli permettano di dire «Questo comportamento è giusto o questo comportamento è sbagliato». Nei capitoli precedenti ho sottolineato come ci si costituisca grazie a una serie di decisioni successive. Ma non si può continuare a prendere ogni decisione de novo per tutta la vita; certe metadecisioni devono essere prese affinché procurino un principio organizzativo per le decisioni successive. Se così non fosse, gran parte della vita sarebbe consumata nel vortice del prendere decisioni.

I valori non solo procurano all’individuo un quadro di riferimento per l’azione personale, ma rendono anche possibile la coesistenza degli individui nei gruppi: Clyde Kluckhohn diceva: «La vita sociale sarebbe impossibile senza di loro […] I valori aggiungono una componente di prevedibilità alla vita sociale»4. Coloro che appartengono a una cultura particolare, sviluppano un sistema di credenze condiviso su “ciò che deve essere fatto”. Le norme sociali sono emanate da uno schema di senso che gode del consenso del gruppo e procurano la prevedibilità necessaria per la fiducia e la coesione sociale. Un sistema di credenze condiviso non si limita a dire agli individui che cosa dovrebbero fare, ma anche quello che gli altri probabilmente faranno.

Il senso della vita e le altre preoccupazioni ultime

I nostri bisogni umani di un quadro di riferimento percettivo globale e di un sistema di valori sui quali fondare le nostre azioni costituiscono le ragioni “pure” della nostra ricerca di un senso della vita. In generale, tuttavia, la questione del senso è contaminata: elementi diversi dal senso per se vi si attaccano e lo confondono.

Torniamo per un attimo a Tolstoj, che chiedeva spesso: «La mia vita ha un qualche senso che non verrà distrutto dalla morte che mi attende ineluttabile?»5. E: «Le mie azioni prima o poi verranno tutte dimenticate, e io non ci sarò più. E allora perché affannarsi tanto?»6 Queste domande non riguardano il senso, ma delle preoccupazioni relative a un metasenso, e ruotano attorno alla questione della transitorietà: lasceremo qualcosa dietro di noi? Svaniamo senza lasciare una traccia e, se è così, come può la nostra vita avere una qualche importanza? È tutto insensato se, come lamentava Bertrand Russell, «tutte le fatiche dei secoli, tutta la devozione, tutta l’ispirazione, tutto lo splendore del genio umano sono destinati all’estinzione nella vasta morte del sistema solare, e l’intero tempio della conquista dell’uomo deve inevitabilmente essere sepolto sotto ai detriti di un universo in rovina»7?

Ernest Becker ipotizzava in modo convincente che la nostra «ambizione umana» sia la «prosperità» (un’esperienza persistente), e che la morte sia il principale nemico contro il quale dobbiamo lottare. Gli esseri umani cercano di trascendere la morte nei molti modi trattati nella prima sezione di questo libro, ma anche attraverso il contare o l’avere importanza o il lasciare qualcosa dietro di sé:

L’uomo trascende la morte non solo continuando a nutrire i propri appetiti (ovvero con una beata e banale visione del paradiso) ma trovando esplicitamente un senso per la propria vita, un qualche schema più ampio al quale adattarsi […] È un’espressione della volontà di vivere, il desiderio ardente della creatura di contare, di fare la differenza sul pianeta perché è vissuta, è emersa sulla sua superficie e ha lavorato, e sofferto, ed è morta8 (corsivo mio).

Così, ipotizzerebbe Becker, il desiderio di lasciare alle proprie spalle qualcosa di importante, qualcosa che faccia la differenza, è l’espressione di uno sforzo di trascendere la morte. Il senso, considerato come il sentimento che la propria vita possa fare la differenza, che in qualche modo si possa avere importanza, che si è lasciato qualcosa di sé alla posterità, sembra derivare dal desiderio di non perire. Quando Tolstoj lamentava che non ci fosse un senso nella sua vita che non potesse essere distrutto dalla morte inevitabile che lo attendeva, stava affermando non che la morte distrugge il senso, ma che non era riuscito a trovare un senso che distruggesse la morte.

Troppo facilmente presumiamo che morte e senso siano del tutto interdipendenti. Se tutto deve perire, allora che senso può avere la vita? Se il nostro sistema solare alla fine dovrà essere incenerito, perché lottare per una qualsiasi cosa? Tuttavia, anche se la morte aggiunge una dimensione al senso, morte e senso non sono fusi. Se potessimo vivere per sempre, saremmo comunque preoccupati per il senso. Che sarebbe se le esperienze andassero davvero a finire nella memoria per poi, in conclusione, svanire? Che rilevanza ha questo fatto per il senso? Questa è la natura delle esperienze. Come potrebbe essere altrimenti? Le esperienze sono temporali, e non si può esistere fuori dal tempo. Quando sono finite, sono finite, e non ci si può fare niente. Il passato svanisce? È vero, come diceva Schopenhauer, che «quello che è stato esiste tanto quanto non fosse mai stato»? Il ricordo non è “reale”? Frankl ipotizzava che il passato sia reale e permanente. Gli dispiaceva per il pessimista che si dispera quando vede il calendario che si fa più sottile col passare dei giorni, e ammirava l’uomo che riflette con gioia sulla ricchezza sperimentata nei giorni rappresentati da quel calendario. Una persona del genere penserà: «Invece di possibilità, ho la realtà del mio passato»9.

Abbiamo a che fare con dei giudizi di valore e non con dei dati di fatto. Non è affatto una verità oggettiva che nulla sia importante a meno che non duri in eterno o alla fine conduca a qualcos’altro che persiste in eterno. Di certo ci sono delle finalità che sono complete in sé senza richiedere un’infinita serie di giustificazioni al di fuori di noi. Come sostenuto da David Hume, «è impossibile che ci possa essere un progresso ad infinitum, e che una cosa possa essere sempre una ragione per cui un’altra è desiderata. Qualcosa deve essere desiderabile di per sé e per via del suo accordo o armonia immediati con il sentimento o l’affetto umano»10 (corsivo mio). Se nessuna finalità fosse completa in sé, se tutto dovesse essere giustificato da qualcos’altro al di fuori di sé che a sua volta dovesse essere anch’esso giustificato, allora ci sarebbe un infinito regresso: la catena delle giustificazioni non terminerebbe mai.

Non solo l’angoscia della morte spesso si maschera da assenza di senso, ma l’angoscia che si genera dalla coscienza della libertà e dell’isolamento è anch’essa di frequente confusa con l’angoscia dell’assenza di senso. Il considerare l’esistenza come parte di un qualche grande disegno che esiste “là fuori” e nel quale a ciascuno è assegnato un qualche ruolo è un modo di negare la propria libertà e responsabilità per il disegno e la struttura della propria vita e un modo di evitare l’angoscia dell’assenza di fondamento. La paura della solitudine assoluta contribuisce anch’essa a spingere alla ricerca di un’identificazione con qualcuno o con qualcosa. Essere parte di un gruppo più ampio o dedicarsi a un qualche movimento o causa sono modi efficaci per negare l’isolamento.

Il senso della vita: un artefatto culturale?

La questione del senso della vita non è solo resa confusa da elementi che appartengono a preoccupazioni ultime quali la morte, la libertà e l’isolamento, ma è anche straordinariamente difficile da comprendere al di fuori dei preconcetti tipici di una determinata cultura. Una vignetta che mi è capitato di vedere illustra molto bene il problema. Rappresenta uno stuolo di viaggiatori americani che ascoltano avidamente le parole di un sant’uomo tibetano con tanto di barba, sul picco di una montagna scoscesa. La didascalia dice: «Il senso della vita? Se lo sapessi sarei ricco!»

Il preconcetto culturale illustrato dalla vignetta influenzò le opinioni di un eminente psichiatra che, quando scrisse del senso della vita, affermò con piena convinzione:

Nessun essere umano può sempre riuscire, sempre creare. Nessun essere umano può avere costantemente successo nelle sue imprese. Ma andare nella giusta direzione, non il dover riuscire ma il semplice riuscire, non arrivare alla locanda ma incamminarsi verso di essa, non riposare sugli allori ma muoversi verso gli allori, utilizzare i propri talenti nel modo più costruttivo, produttivo e creativo: questo è forse il senso principale della vita e l’unica possibile risposta alla nevrosi esistenziale che storpia gli sforzi umani e ne mutila le menti11.

Con la stessa convinzione Frankl descrisse due altri principi del senso della vita: «Il primo, la via del raggiungimento e conseguimento, è piuttosto ovvio. Il secondo e il terzo richiedono ulteriori spiegazioni»12.

Ma è davvero ovvio? Il lottare, creare, raggiungere o progredire sono parti dell’esistenza, parti degli strati più profondi della motivazione umana? La risposta è senza dubbio no. Ci sono state altre epoche nella nostra cultura in cui l’aspirazione verso un obiettivo non era affatto comunemente accettata come una modalità per trovare un senso nella vita. Un’inscrizione su di una meridiana molto antica dice: Horas non numero nisi serenas (“Le ore non contano a meno che non siano serene”). Fromm notava che l’ambizione umana divorante per fama e risultati durevoli è comune a partire dal Rinascimento ai giorni nostri, mentre era poco presente nell’uomo medievale. Inoltre, nei paesi del Nord Europa, non fu che dal XVI secolo in avanti che la brama ossessiva per il lavoro fece la sua comparsa13. La fede nel progresso, nel fatto che la civilizzazione sia inesorabilmente diretta in una direzione desiderabile è, allo stesso modo, una nozione di origine relativamente recente che non prese forma riconoscibile fino alla fine del XVII secolo.

Altre culture dissentono non solo con un senso della vita orientato verso la realizzazione, ma con il concetto stesso di “scopo della vita”. Uno dei portavoce più brillanti di una visione alternativa fu D.T. Suzuki, un maestro zen. In un saggio straordinariamente luminoso, Suzuki illustrò due atteggiamenti opposti nella vita mettendo a confronto due poesie. La prima, un haiku del XVII secolo di Bashō, dice:

Quando io guardo attentamente

vedo il nazuna in fiore

presso alla siepe!

La seconda è di Alfred Tennyson:

Fiore che spunti dal muro screpolato,

io ti colgo dalla fessura;

– ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,

piccolo fiore – ma se potrò capire

ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,

saprò che cosa sono Dio e l’uomo14.

Bashō si limita a osservare con attenzione un nazuna (una pianta modesta, senza pretese, quasi insignificante) che fiorisce accanto a una siepe. L’haiku comunica (sebbene Suzuki ci dica che la sua raffinatezza non è resa appieno dalla traduzione) una relazione tenera, umile, stretta e armoniosa con la natura. Bashō è tranquillo; percepisce molto, ma con dolcezza permette alle due ultime sillabe (chiamate kana in giapponese, e rese da un punto esclamativo) di comunicare quello che prova.

Tennyson è eloquente e attivo. Coglie il fiore, lo strappa alla natura, radici e tutto (il che significa che la pianta deve morire), e lo ispeziona con attenzione (come se lo stesse sezionando). Tennyson tenta di analizzare e di capire il fiore; assume una posizione scientifica e se ne distacca. Usa il fiore per conoscere qualcos’altro. Trasforma il suo incontro con il fiore in una forma di conoscenza e, in ultima analisi, in una forma di potere.

Secondo Suzuki questo contrasto illustra molto bene l’atteggiamento orientale e quello occidentale nei confronti della natura e, di conseguenza, nei confronti della vita. L’occidentale è analitico e oggettivo e tenta di capire la natura analizzandola e quindi soggiogandola e sfruttandola. L’orientale è soggettivo, integrativo, totalizzante e non tenta di analizzare e controllare la natura, quanto piuttosto di sperimentarla e di armonizzarsi a essa. Il contrasto, quindi, è tra una modalità di ricerca e azione e una di armonizzazione e unione, e spesso viene espresso in termini di fare vs essere.

Se lasciamo da parte la nostra componente contemporanea e guardiamo indietro, vedremo rapidamente che la nostra posizione nei confronti dello “scopo” è stata sottoposta a una graduale evoluzione. I primi cristiani davano valore alla contemplazione sopra ogni cosa. Rammentiamo le parole di Cristo a proposito degli uccelli del cielo: «Non seminano, né mietono, né ammassano nei granai: eppure il Padre vostro celeste li nutre»15. O ancora: «Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano»16. I primi cristiani consideravano il lavoro e la ricchezza non come degli obiettivi da perseguire ma come degli ostacoli che appesantivano la mente di preoccupazioni e consumavano il tempo che avrebbe dovuto essere utilizzato al servizio di Dio; l’espressione artistica (sotto forma di illustrazione di manoscritti) era molto più considerata, mentre la contemplazione rappresentava l’impresa più santa. Questa gerarchia è evidente nelle incisioni in pietra sulle facciate delle cattedrali romaniche.

Nel tardo Medioevo gli esseri umani cominciarono a desiderare di conoscere le leggi della natura e a lavorare per ottenere un soggiogamento del mondo fisico. Un motivo centrale dei trattati di astrologia del XIII secolo era: «Il saggio dominerà le stelle». L’uomo del Rinascimento assumeva in modo esplicito una posizione attiva nei confronti del mondo. Uomini come Leonardo da Vinci, Giordano Bruno e Benvenuto Cellini credevano che il mondo esistesse per essere trasformato, e recuperarono il concetto di lavoro (e di artigianato) dall’abbandono in cui era stato lasciato cadere.

Nel XVI secolo Giovanni Calvino propose un sistema teologico che influenzò profondamente gli atteggiamenti occidentali nei confronti dello scopo della vita. Calvino credeva che gli umani fossero predestinati dalla grazia di Dio a essere eletti o dannati. Gli eletti conoscevano intuitivamente la loro salvezza preordinata e, per desiderio di Dio, dovevano partecipare attivamente alle cose del mondo. Infatti Calvino affermava che un segno dell’essere eletti da Dio consisteva nel proprio successo mondano. I dannati, d’altro canto, erano dei falliti nella vita terrena.

La tradizione puritana, dalla quale ancora non ci siamo interamente liberati, dava valore al sacrificio, al duro lavoro, all’ambizione e alla posizione sociale. Il lavoro era considerato come qualcosa di divino; meglio non starsene mai con le mani in mano. La propria nazione era vista come una barca a remi: ogni persona era un membro dell’equipaggio e doveva mettersi al remo17. Si poteva remare o essere un peso morto, un parassita per gli altri. Questa etica ha funzionato magnificamente per la vitalità economica degli Stati Uniti, ma per generazioni di individui che in un modo o nell’altro non si sentivano all’altezza ha gettato le basi per sentimenti di senso di colpa e di inutilità.

Il mondo occidentale ha così insidiosamente adottato una visione del mondo dove c’è una “ragion d’essere”, un risultato per tutti i nostri sforzi. Si lotta per un obiettivo. Gli sforzi di una persona devono avere un punto in cui terminano, proprio come un sermone ha una morale, una storia e una conclusione soddisfacente. Ogni cosa è una preparazione per qualcos’altro. William Butler Yeats si lamentava: «Quando penso a tutti i libri che ho letto, alle parole sagge che ho sentito, alle angosce date ai genitori […] alle speranze che ho nutrito, tutta la vita soppesata sulla bilancia della mia vita mi appare come una preparazione a qualcosa che non accade mai»18.

L’estetica ci offre un linguaggio utile per affrontare questa discussione nel mondo occidentale, dove può essere fatta una distinzione, in una composizione musicale, tra i passaggi di “introduzione” (o “preparazione”) e quelli di “sviluppo” (o “realizzazione) del tema19. In Occidente consideriamo le attività della nostra vita alla stessa stregua: passato e presente sono la preparazione per quello che è a seguire. Ma che cosa è a seguire? Se non abbiamo una fede in un sistema basato sull’immortalità, allora ci troviamo a sentire che la vita è tutta preparazione senza l’elemento dello “sviluppo”. I sentimenti dell’assenza di senso e di scopo derivano naturalmente da questa fede.

Va ricordato, tuttavia, che l’arte non è la vita. La distinzione fatta dall’arte è che essa può offrire un equilibrio tra “preparazione” e “sviluppo” che la vita non è in grado di dare. La credenza che la vita sia incompleta senza uno scopo da realizzare non è tanto un tragico fatto esistenziale della vita quanto un mito occidentale, un artefatto culturale. Il mondo orientale non ha mai condiviso questa concezione, né che la vita sia un problema da risolvere; la vita è invece un mistero che deve essere vissuto. Il saggio indiano Bhagwan Shree Rajneesh disse: «L’esistenza non ha obiettivi. È puro viaggio. Il viaggio della vita è così bello, chi si dà pena della destinazione?»20 La vita è, semplicemente, e noi ci siamo semplicemente buttati dentro. La vita non ha bisogno di ragioni per essere.

Strategie psicoterapeutiche

Ho cominciato questo capitolo affermando che un primo passo importante per il terapeuta consiste nel riformulare la lamentela del paziente a proposito dell’assenza di senso, allo scopo di scoprire la presenza di questioni “contaminanti”. L’esperienza dell’assenza di senso può essere una “sostituta” dell’angoscia associata alla morte, dell’assenza di fondamento e dell’isolamento; e il terapeuta dovrà quindi analizzare e accostare queste preoccupazioni secondo le linee presentate nei capitoli precedenti di questo libro. Spesso il terapeuta può risultare utile al paziente mantenendo una prospettiva relativamente libera da componenti culturali riguardanti il senso della vita e aiutando il paziente ad apprezzare il fatto che questo “senso” è del tutto relativo. La formula secondo la quale la vita non ha un proposito definito e dunque non vale la pena di vivere si basa su presupposti arbitrari e culturali.

Quali sono le altre opzioni tecniche a disposizione del terapeuta? Esaminerò la letteratura che tratta degli approcci clinici all’assenza di senso ma prima segnalo che si tratta di un ambito molto modesto. Tranne poche annotazioni sparse che descrivono tecniche esortative e qualche tecnica superficiale proposta da Frankl, troviamo solo il silenzio.

Come spiegare questa situazione? Forse con il fatto che l’assenza di senso è così spesso una preoccupazione composita o derivata, e che le tecniche adeguate per il terapeuta sono state sviluppate e descritte altrove, in contesti appropriati. Forse l’assenza di senso è una questione così sconcertante da sfuggire l’elaborazione di una tecnologia efficace. Di conseguenza, i terapeuti possono aver imparato a evitare selettivamente il problema e a identificare solo le questioni per le quali hanno una risposta. Si tratta di una situazione scoraggiante; ma per quei clinici che stanno cercando uno scopo per le loro carriere cliniche di ricerca questa potrebbe costituire un’opportunità allettante. Questo capitolo riunisce un’ampia gamma di riflessioni sul problema dell’assenza di senso, con l’intenzione di offrire una visione d’insieme per il terapeuta che vuole dar forma a risposte nuove e creative a un vecchio problema.

Il “set” del terapeuta

Quando il terapeuta si accosta a conflitti che coinvolgono le preoccupazioni ultime quali la morte, la libertà e l’isolamento, uno dei suoi primi atti consiste nel costituire una disposizione “adeguata” della mente. Lo stesso atto è richiesto al terapeuta che tratta l’assenza di senso. I terapeuti devono accrescere la loro sensibilità alla questione, ascoltare in modo diverso, diventare consapevoli dell’importanza del senso nelle vite degli individui. Per molti pazienti la questione non è cruciale: le loro vite sembrano piene di senso. Ma per altri il sentimento dell’assenza di senso è profondo e pervasivo. Quindi i terapeuti devono saper cogliere questo problema, devono riflettere sull’orientamento e sul fulcro della vita del loro paziente. Il paziente sta in qualche modo cercando di uscire da sé, di andare oltre la monotonia quotidiana del restare vivo? Ho avuto in cura molti giovani adulti che erano immersi in uno stile di vita da single californiano, caratterizzato in larga misura da sensualità, rivendicazioni sessuali e perseguimento di prestigio e obiettivi materialistici. Nel mio lavoro sono diventato consapevole del fatto che il terapeuta ha di rado successo se non riesce a focalizzare il paziente su qualcosa che vada oltre questi obiettivi.

Ma come? In che modo il terapeuta può aiutare il paziente a operare questo mutamento di obiettivi? Se il terapeuta possiede una sensibilità accentuata nei confronti dell’importanza del senso della vita, allora il paziente, cogliendo accenni sottili provenienti dal terapeuta, diventerà anch’egli sensibile alla questione. In modo implicito ed esplicito il terapeuta si interrogherà sui sistemi di credenze del paziente, sulle sue relazioni, sulle speranze e sugli obiettivi, esplorerà gli interessi creativi e le ambizioni. Ho sempre trovato singolarmente utile e soddisfacente approfondire gli sforzi fatti dal paziente per esprimersi sul piano creativo.

Tutte queste attività sono una parte integrante della vita del paziente. Se si vuole imparare a conoscersi e ad apprezzarsi, si deve imparare a identificare e a dare valore a queste parti. Il terapeuta, allo scopo di “occuparsi” del paziente, deve conoscerlo il più a fondo possibile. Ciò include il conoscere queste attività che cercano e procurano senso nella vita. Ricordo un giovane ingegnere, un individuo straordinariamente isolato, che svolgeva un lavoro solitario durante il giorno e trascorreva le serate e i fine settimana trafficando con il suo computer personale, che occupava quasi tutto il suo spazio vitale. Trovavo difficile instaurare una relazione con lui. Sembrava limitato, inerte, inesorabilmente ottuso, e spesso lo visualizzavo in forma di piccolo topo di laboratorio che mi annusava, seduto nel mio studio. La mia fantasia terapeutica consisteva nel far saltare in aria quel dannato computer e introdurre delle persone nella sua vita. Sembravamo arrivati a un punto morto: non riuscivo a sviluppare alcuna sollecitudine nei suoi confronti e, di conseguenza, non riuscivo a smuoverlo dal suo isolamento. Alla fine cominciai a chiedergli che cosa facesse ogni sera con il suo computer. Dapprima fu riluttante a rispondermi, perché si vergognava di quella sua attività solitaria e senza fine che per la maggior parte della sua vita aveva costituito il simbolo del suo fallimento nella relazione con le altre persone. Alla fine, tuttavia, si aprì e impiegò due ore per descrivere quel suo armeggiare con il computer con dettagli affascinanti. Quelle sedute diedero la svolta alla terapia. Lui e io comprendemmo finalmente che l’armeggiare “insensato” era in verità una forma importante di espressione creativa e non una semplice attività sublimante e sostitutiva. A seguito di questa condivisione, la nostra relazione divenne più intima, e lui desiderò condividere con me altri segreti importanti. A poco a poco lo aiutai a introdurre persone nella sua vita assieme al suo lavoro creativo e non in sostituzione di esso, e alla fine a condividere con gli altri quel lavoro.

La dereflessione

In precedenza ho descritto la massima di Frankl che «la felicità viene, non può essere perseguita». Tanto più deliberatamente cercheremo la soddisfazione di noi stessi, più questa ci eluderà. Più trascendiamo noi stessi, più la felicità si presenterà. In terapia è necessario che i terapeuti aiutino i propri pazienti a distogliere lo sguardo da se stessi. Frankl descrisse una tecnica specifica, la dereflessione, che in linea di principio coinvolge la deviazione dello sguardo dei pazienti da loro stessi, dalla loro disforia, dalla fonte della nevrosi, verso le parti intatte delle loro personalità e i significati che sono per loro disponibili nel mondo.

La tecnica della dereflessione è semplice, e consiste in poco più che dire al paziente di smettere di concentrarsi su se stesso e di cercare un senso al di fuori del sé. La trascrizione di un colloquio tra Frankl e una ragazza diciannovenne affetta da schizofrenia è molto indicativa:

Frankl: «Allora, lei si trova in una condizione nella quale il compito che l’attende è la ricostruzione della sua vita! Ma non ci si può ricostruire la vita senza avere uno scopo nella vita, senza una sfida da affrontare».

Paziente: «Capisco ciò che intende, dottore; ma quello che mi interessa davvero è la domanda: “Che cosa sta accadendo dentro di me?”»

Frankl: «Non stia lì a rimuginare su di sé. Non indaghi la fonte del suo problema. Lasci la cosa a noi dottori. La piloteremo attraverso questa crisi. Allora, non c’è un obiettivo che l’attiri, diciamo, una realizzazione artistica? Non ci sono in lei molte cose in fermento, per esempio opere d’arte ancora informi, disegni non disegnati in attesa di essere creati, in attesa di essere prodotti da lei? Pensi a cose del genere».

Paziente: «Ma questo tormento interiore…»

Frankl: «Non consideri il suo tormento interiore, ma volga lo sguardo a quello che la attende. Quello che conta non è ciò che è in agguato nel profondo, ma ciò che attende nel futuro, che attende di essere attualizzato da lei. Lo so, c’è una crisi nervosa che la angoscia; ma lasciamo che si calmino le acque. Questo è il nostro lavoro di medici. Lasci il problema agli psichiatri. Comunque sia, non si guardi; non si chieda che cosa sta accadendo dentro di lei, ma si chieda piuttosto che cosa attende di essere compiuto da lei».

Paziente: «Ma qual è l’origine del mio problema?»

Frankl: «Non si focalizzi su domande del genere. Qualunque sia il processo patologico sotteso alla sua sofferenza psicologica, la cureremo. Quindi, non si preoccupi degli strani sentimenti che la assillano. Li ignori finché non riusciremo a levarglieli di torno. Non li guardi. Non li combatta»21.

Frankl sentiva che per tutti quei pazienti eccessivamente concentrati su se stessi la prolungata ricerca delle cause dell’angoscia in genere aggravava il problema e in ultima analisi era controproducente, rendendo il paziente ancora più egocentrico. Per un simile paziente raccomandava al terapeuta di prendere la posizione (e comunicare tale posizione al paziente) che, a causa di fattori irreversibili (la storia familiare del paziente, un’angoscia trasmessa geneticamente, uno squilibrio genetico del sistema autonomo, e così via), il paziente era destinato a sperimentare un elevato ammontare standard di angoscia, per il quale relativamente poco poteva essere fatto, se non assumere farmaci o impegnarsi in esercizio fisico o in attività simili atte a migliorare le condizioni. Il terapeuta doveva quindi dirigere l’attenzione verso un lavoro sull’atteggiamento del paziente nei confronti della propria situazione e nei confronti dell’individuazione di significati disponibili per il paziente22.

A molti terapeuti e pazienti americani contemporanei la tecnica specifica descritta nella storia precedente potrà sembrare così autoritaria da risultare sgradevole, e molto probabilmente inefficace. Non c’è dubbio che in una certa misura si tratti di un artefatto culturale: il cittadino viennese medio è tradizionalmente più incline a riverire titoli professionali e sapere. Ma il problema si situa su un altro piano: l’appello all’autorità («noi dottori […] la piloteremo attraverso questa crisi») in ultima analisi va a minare la crescita personale, in quanto blocca il percorso verso la presa di coscienza e l’assunzione della propria responsabilità.

Cionondimeno l’argomentazione di Frankl resta valida: è spesso di vitale importanza riuscire a distogliere lo sguardo del paziente da se stesso. Il terapeuta deve trovare un modo per aiutare il paziente a sviluppare interesse e sollecitudine per gli altri. La terapia di gruppo si adatta particolarmente bene a quest’impresa. Le tendenze egoistiche, narcisistiche, sono subito evidenti e inevitabilmente la struttura del “prendere senza dare” diventa un elemento chiave nel gruppo. I terapeuti possono chiedere ai pazienti di riflettere su come gli altri si sentano in quel momento; in modo fluido e destrutturato i terapeuti offrono la possibilità di sviluppare empatia per gli altri. In gruppi di pazienti gravemente disturbati ho spesso assegnato a pazienti morbosamente centrati su se stessi il compito di introdurre nuovi pazienti nel gruppo e di aiutare questi pazienti a esprimere il loro dolore e i loro problemi agli altri.

Il discernimento del senso

Secondo Frankl è compito del terapeuta discernere un qualche schema coerente, un qualche significato Gestalt in quelli che sembrerebbero gli eventi aleatori e tragici della vita. Spesso molto ingegno è richiesto al terapeuta, come illustra uno dei casi presentati da Frankl. Era stato consultato da un medico di base anziano, depresso, che non riusciva a superare la perdita della moglie, avvenuta due anni prima. Cito Frankl:

Ora, come lo potevo aiutare? Cosa gli avrei dovuto dire? Beh, non gli ho voluto dire nulla, ma l’ho posto di fronte a una domanda: «Cosa sarebbe successo, dottore, se lei fosse morto prima, e sua moglie avesse dovuto sopravvivere alla sua perdita?» «Oh» disse lui, «per lei questo sarebbe stato terribile; come avrebbe sofferto!» Al che io ho risposto, «vede, dottore, tale sofferenza è stata risparmiata a sua moglie, ed è stato lei a risparmiarle tale sofferenza – però lei deve pagare il prezzo e deve sopravvivere e piangerla». Lui non disse una parola ma mi strinse la mano e con assoluta calma lasciò il mio ufficio23.

Frankl citò un altro esempio del modo in cui aveva aiutato dei pazienti a riscoprire il senso della vita. La trascrizione che segue è tratta da un colloquio con una donna di ottant’anni prossima alla morte per cancro, profondamente depressa e tormentata dall’angoscia e dal sentimento di essere inutile:

Frankl: «Che pensa lei, quando ricorda la sua vita? Valeva la pena di viverla?»

Paziente: «Certo, dottore, devo dire che ho avuto una buona vita. La mia vita è stata bella, davvero. E devo ringraziare il Signore per quello che ha fatto per me: sono andata a teatro, ho assistito a concerti e cosi via. Lei capisce, dottore, io sono venuta qui con la famiglia nella cui casa ho prestato servizio per tanti decenni come domestica, prima a Praga e poi a Vienna. E, per la grazia di tutte queste meravigliose esperienze, sono riconoscente al Signore».

[…]

F: «Lei parla di alcune esperienze meravigliose; ma tutto ciò ora deve avere termine, non è vero?»

P (pensierosa): «Sì, tutto finisce…»

F: «Bene, lei crede ora che tutte le cose meravigliose della sua vita possano finire nel nulla?»

P (ancora più pensierosa): «Tutte quelle cose meravigliose…»

F: «Ma mi dica: pensa che si possa annullare la felicità che lei ha provato? Che si possa cancellarla?»

P: «No, dottore, nessuno può cancellarla!»

F: «O che qualcuno possa cancellare la bontà che lei ha incontrato nella sua vita?»

P (sempre più coinvolta emotivamente): «Nessuno può cancellarla!»

F: «Ciò che lei ha fatto e realizzato…»

P: «Nessuno può cancellarlo!»

F: «Oppure ciò che lei ha coraggiosamente e sinceramente sofferto: può forse uno eliminarlo dalla realtà, rimuoverlo dal passato dove lei lo ha, diciamo così, messo in serbo?»

P (ora commossa fino alle lacrime): «Nessuno può eliminarlo! (Pausa) È vero, io ho avuto molto da soffrire; ma ho anche cercato di essere coraggiosa e costante nel sopportare ciò che dovevo sopportare. Lei lo capisce, dottore, io considero la mia sofferenza come un castigo. Io credo in Dio».

F (cercando di mettersi nei panni della paziente): «Ma la sofferenza non può essere talvolta anche una sfida? Non è concepibile che Dio abbia voluto vedere fino a che punto Anastasia Kotek avrebbe sopportato il dolore? E forse egli ha dovuto ammettere: «Sì, essa lo ha fatto in modo molto coraggioso». E ora, mi dica, signora Kotek, è possibile eliminare dal mondo un’impresa e una realizzazione di tal genere?»

P. «Certamente nessuno può farlo!»

F: «Allora ciò resta, non è vero?»

P: «Sì, resta!»

F: «Ciò che conta nella vita è compiere qualche impresa. Ed è questo ciò che lei precisamente ha fatto. Lei ha fatto l’uso migliore della sua sofferenza. Lei è diventata un esempio per i nostri pazienti per il modo in cui lei si è presa su di sé la sua sofferenza. Mi congratulo con lei per questa impresa e mi congratulo anche con gli altri pazienti che hanno l’opportunità di essere testimoni di un tale esempio»24.

Frankl aggiunse che il colloquio contribuì a stimolare il sentimento del senso della vita nella paziente, e che nella settimana di vita che le restava la depressione della paziente si alleggerì e la donna morì con fede e fierezza.

Terry Zuehlke e John Watkins riferirono di uno studio nel quale avevano trattato dodici pazienti terminali con un approccio clinico similare, che enfatizzava notevolmente lo sviluppo del senso25. Gli autori somministrarono il PIL sia prima sia dopo la terapia, e segnalarono un incremento significativo del senso di scopo nella vita.

Qual è il tipo di senso che il terapeuta aiuta a scoprire? Frankl sottolineava l’unicità del senso di ciascun paziente ma, come abbiamo visto dalle trascrizioni cliniche, non si tratteneva dall’alludere o dal fornire al paziente un qualche senso esplicitamente formato. I sensi che offrì rientrano nelle tre categorie specifiche che ho descritto in precedenza in questo capitolo: realizzazione creativa, esperienza e atteggiamento verso la sofferenza. Riguardo alle prime due categorie, Frankl enfatizzava la permanenza del passato: tanto la realizzazione creativa quanto l’esperienza sono messe da parte e durano per sempre. Quando ogni altro senso sembra oscurato dalla tragedia presente e dalla sofferenza, Frankl sottolineava che uno può ancora trovare un senso nell’assumere una posizione eroica nei confronti del proprio destino. L’atteggiamento di un individuo può servire da modello e fonte d’ispirazione per gli altri: figli, parenti, amici, studenti o persino per gli altri pazienti del reparto. L’accettazione dell’inevitabile sofferenza può essere vista come un’accettazione di Dio, dal quale la sofferenza emana. O, per concludere, l’atteggiamento eroico nei confronti del proprio destino è pieno di senso in sé, allo stesso modo in cui Camus considerava la “ribellione fiera” come la risposta finale dell’essere umano all’assurdo.

La tecnica terapeutica di Frankl illustrata nei due casi altamente rappresentativi del suo approccio tecnico è problematica per le stesse ragioni per cui lo è il suo approccio alla dereflessione. In modo autoritario offriva al paziente un senso. Ma, nel far ciò, non contribuiva ad allontanare ancor più il paziente dall’assunzione di una piena autonomia personale? La stessa questione si manifesta quando esaminiamo altri terapeuti che si sono concentrati sul senso.

Jung riportò un caso in cui anche lui suggeriva esplicitamente uno schema di senso a una sua paziente26. La paziente era una giovane ebrea laica, illuminata e sottoposta ad analisi, con una grave nevrosi d’angoscia. Jung la interrogò sulle sue origini e venne a sapere che il nonno era stato un rabbino, considerato uno Saddiq, un sant’uomo con il dono della preveggenza. Lei e il padre avevano sempre deriso quest’assurdità. Jung sentì di aver avuto un’intuizione relativa alla nevrosi di lei e le disse: «Adesso le dirò qualcosa che potrebbe non essere in grado di accettare. Suo nonno era uno Saddiq. […] Suo padre tradì il segreto e voltò le spalle a Dio. E lei ha questa nevrosi perché è tormentata dalla paura di Dio». L’interpretazione, raccontò Jung, «la colpì come un fulmine».

Quella notte Jung fece un sogno: «In casa mia si stava svolgendo un ricevimento e, guardavo, e quella ragazza (la paziente) era lì. Mi si avvicinò e chiese: “Non ha un ombrello? Piove così forte!” Trovai un ombrello ed ero sul punto di darglielo. Ma che accadde invece? Glielo diedi mettendomi in ginocchio, come se fosse una divinità».

Il sogno di Jung gli diceva che la paziente non era solo una ragazzina superficiale, ma che aveva la portata di una santa. Tuttavia, la sua vita era indirizzata verso la seduzione, il sesso e il materialismo. Non aveva modo di esprimere il tratto più essenziale della sua natura, vale a dire che «in realtà era una figlia di Dio il cui destino consisteva nell’adempiere il Suo segreto volere». Jung raccontò il sogno alla paziente (com’era sua abitudine) e la sua interpretazione. Nel giro di una settimana, così riportò, «la nevrosi era svanita». (È raro, tra l’altro, che Jung riportasse un caso di terapia breve riuscita.)

Peter Koestenbaum offrì un altro esempio di un terapeuta che indirizza esplicitamente il paziente verso un qualche scopo27. Il paziente, un uomo sulla trentina, soffriva di una profonda carenza di stima di sé e d’identità personale, fortemente generate dalla mancanza di attenzione da parte dei genitori negli anni della sua formazione. Presentava una notevole amnesia della sua vita anteriore agli otto anni e in terapia aveva ripetutamente lamentato l’infanzia perduta. Il terapeuta sentiva che un modo importante grazie al quale il paziente avrebbe potuto ricreare l’infanzia perduta sarebbe stato l’avere a che fare con un bambino. Il paziente e la moglie avevano però preso l’impegno di non avere figli; quindi terapeuta e paziente elaborarono un piano grazie al quale quest’ultimo avrebbe fatto parte di un’associazione dedita all’assistenza di bambini abbandonati. Koestenbaum riportò che la cosa funzionò splendidamente; il contatto con un bambino aiutò il paziente a vedere se stesso e il passato in modo diverso. Un anno più tardi il paziente e la moglie decisero di avere un figlio, al che la terapia si concluse con pieno successo.

Il senso programmato

James Crumbaugh raccontò di un “corso intensivo” sistematico di logoterapia* per alcolisti della durata di due settimane, nel quale tentò in modo meno autoritario di migliorare la capacità del paziente di cercare e trovare un senso30. Crumbaugh avanzò la supposizione che, se uno deve trovare uno schema coerente in situazioni di vita complesse, deve essere in grado di percepire dettagli e avvenimenti in modo esaustivo, e quindi di riorganizzare questi dati in una sorta di nuova Gestalt. Di conseguenza, il corso intensivo avrebbe tentato di espandere la consapevolezza percettiva e stimolare l’immaginazione creativa.

Il programma per l’espansione della consapevolezza percettiva includeva esercizi di registrazione di stimoli visivi (per esempio, un soggetto era stato esposto alle carte Rorschach e a paesaggi marini e poi aiutato a ricostruire i dettagli). Il programma per l’immaginazione creativa consisteva in esercizi nei quali si osservava un’immagine proiettata su uno schermo, ci si proiettava nell’immagine e la si relazionava a un qualche desiderio basato su esperienze passate.

I test PIL somministrati prima e dopo (due settimane) mostravano un incremento nei risultati dello scopo nella vita. Tuttavia, i controlli successivi erano stati inadeguati e non si ebbe modo di accertare la specificità dei risultati: ovvero quali tratti del corso intensivo fossero responsabili di determinati risultati. Il salto inferenziale tra la percezione visiva e l’immaginazione creativa e la percezione di uno schema di senso della vita è ampio e al limite del credibile; ma se i risultati positivi saranno confermati e replicati, allora sarà giustificata un’analisi più dettagliata di tale procedura.

L’impegno: la principale risposta terapeutica
all’assenza di senso

Torniamo per un attimo al messaggio d’addio presentato all’inizio del capitolo 10. Poco si sa dell’uomo che lo scrisse, ma molto se ne deduce: quell’uomo non era nella vita, ma dalla vita si era allontanato, a tal punto che la vita e l’attività e l’esperienza degli esseri umani sembravano inconsistenti e assurde. Persino nella breve favola che ha creato, un personaggio (uno degli imbecilli che trasporta mattoni) se ne distanzia ancor più chiedendosi perché lo stia facendo; e da quel momento lui e l’autore del messaggio sono entrambi perduti.

C’è qualcosa di intrinsecamente nocivo nel processo del tirarsi troppo indietro rispetto alla vita. Quando ci estraniamo dalla vita e diventiamo spettatori distanti, le cose cessano di avere importanza. Da questo punto di osservazione, al quale i filosofi si riferivano chiamandolo la visione «galattica»31 o dell’«occhio di Dio»32 (o la prospettiva «cosmica» o «globale»33), noi e i nostri simili sembriamo triviali e ridicoli. Diventiamo soltanto una tra le innumerevoli forme di vita. Le attività dell’esistenza sembrano assurde. I momenti ricchi che abbiamo sperimentato si smarriscono nella vasta distesa del tempo. Percepiamo di essere particelle microscopiche e che tutta la vita si consuma in un breve guizzo del tempo cosmico.

La visione galattica costituisce un problema formidabile per i terapeuti. Da una parte, sembra incontestabilmente logica. Dopo tutto, la capacità di essere coscienti di sé, di uscire da sé, di prendere le distanze è uno degli attributi più apprezzati dell’essere umano. È ciò che rende umani. In molte situazioni una prospettiva più ampia, più globale, procura all’osservatore una maggiore oggettività: tuttavia, questa prospettiva particolare toglie vitalità alla vita. Se la si assume per un lungo periodo, ne consegue un profondo scoraggiamento e una continua immersione in esso potrebbe essere letale.

La tradizione del pessimismo filosofico, tanto per fare un esempio, è un derivato naturale di questa visione cosmica; e nel XIX secolo il suo massimo rappresentante, Schopenhauer, considerava la temporalità da una tale distanza da concludere che non aveva senso battersi per un qualsiasi obiettivo che (dalla prospettiva galattica) sarebbe svanito in un istante. Così, la felicità e gli obiettivi sono irraggiungibili perché sono spettri del futuro o parti di un passato svanito. In modo prevedibile giunse alla conclusione: «Nulla è degno del nostro combattere, dei nostri sforzi e delle lotte […] Tutte le cose buone non sono che vanità, il mondo nel suo complesso finisce, fa bancarotta ed è come un’impresa che non è in grado di coprire le sue spese»34.

Che fare? Che cosa può offrire il terapeuta per controbilanciare gli effetti nocivi della visione galattica? In primo luogo, ci sono delle incongruenze logiche nella concezione che la prospettiva galattica debba condurre alla posizione di Schopenhauer che «nulla importa, e dato che nulla importa, la vita non val e la pena di essere vissuta». Da un lato, se nulla importa, non dovrebbe importare che nulla importi. In un saggio penetrante sull’assurdo, Thomas Nagel suggerì in un modo assolutamente imperturbabile che l’assurdità che è resa evidente dalla visione galattica non è un disastro prima facie e semplicemente non giustifica una simile drammaticità35. Secondo Nagel la capacità di assumere una visione galattica è uno dei nostri tratti più avanzati, preziosi e interessanti, e non è qualcosa di straziante, a meno che non la rendiamo noi tale. Il permetterle di avere una tale importanza tradisce il fallimento della capacità di apprezzare la scarsa importanza cosmica della situazione. Nagel suggerì che un vero apprezzamento della visione cosmica, abbinato alla consapevolezza che è la nostra forza a essere in grado di assumere quella visione, dovrebbe permetterci di tornare alla nostra vita assurda con ironia invece che con disperazione.

Un altro fatto che il terapeuta dovrebbe notare è che un’importanza effettiva sottende alla disperazione associata alla “non importanza” della visione galattica. Per esempio, anche se Schopenhauer arrivava alla conclusione che nulla importava, «nulla è degno del nostro combattere», molte cose erano invece importanti per lui. Gli importava convincere gli altri che le cose non importavano, opporsi al sistema di pensiero hegeliano, continuare a scrivere in modo attivo fino alla fine della sua vita, filosofare invece di suicidarsi. Persino all’uomo che aveva scritto il biglietto d’addio a proposito degli imbecilli che trasportavano mattoni importava qualcosa: importava cercare di comprendere la condizione umana e comunicare agli altri le sue conclusioni. Se avesse cercato il mio aiuto prima del suicidio, avrei tentato di fargli prendere coscienza di questa parte di sé.

Kent Bach suggerì un altro antidoto per neutralizzare la tossicità della visione galattica: tenere a mente che, anche se quella visione va a minare la pienezza del senso, non lo fa in un modo assoluto; piuttosto rende le cose prive di senso solo se le si considera in quella prospettiva cosmica36. Questi momenti fanno parte della vita di un individuo, ma ne sono solo una parte. L’assenza di senso è uno stato esperienziale; e sebbene sia uno stato così intenso da dare l’impressione di rendere priva di senso ogni cosa nel passato, nel futuro e anche nel presente, lo può fare solo quando consideriamo le nostre vite dalla prospettiva galattica. Il “senso” è quello di cui qualcosa ha bisogno per avere importanza soltanto in quella prospettiva. In altri momenti le cose hanno importanza perché ce l’hanno. Le cose hanno importanza per noi continuamente. A me importa comunicare queste idee nel modo più chiaro possibile. In altri momenti, altre cose hanno importanza: le relazioni, il tennis, la lettura, gli scacchi, una chiacchierata. Il fatto che queste cose non abbiano importanza dal punto di vista cosmico, che non costituiscano un tutto unificato, deve forse privarle del loro essere importanti? Quando le cose hanno importanza, non hanno bisogno di un senso per esserlo!

Questo concetto ha immediate implicazioni terapeutiche: il terapeuta deve aiutare il paziente a comprendere che i dubbi correnti (o l’adozione di un nuovo schema di senso) non vanno a viziare la realtà di quel che era stato importante in passato. Mi vengono in mente tre pazienti. La prima aveva fatto la suora per venticinque anni e poi, dopo aver perso la fede, aveva lasciato l’ordine. La depressione di cui soffriva e il senso di anomia erano resi più profondi dalla sua convinzione di aver «vissuto una menzogna» per tutta la propria vita adulta. Un’altra paziente all’età di cinquantacinque anni aveva cominciato a scrivere poesie e scoperto di avere un talento eccezionale. La ebbi in cura all’età di sessant’anni, quando stava morendo di cancro. Era profondamente amareggiata dal fatto di aver «sprecato» la maggior parte della propria vita facendo la moglie di un agricoltore, allevando i figli, lavando piatti, raccogliendo patate, tutte attività che non si accordavano con il suo nuovo schema di senso. Un’altra paziente, nel bel mezzo di un divorzio difficile, era stata profondamente ferita dal marito col quale era stata sposata per vent’anni e che aveva cercato di toglierle qualsiasi senso esclamando che non l’aveva mai amata.

Tutte e tre le pazienti furono aiutate dal rendersi conto che un nuovo schema di senso o uno stato profondo di dubbio (ovvero l’adozione di una prospettiva galattica) non andavano a viziare le cose importanti che erano esistite in altri momenti. La ex suora a poco a poco comprese che la sua attuale mancanza di fede non cancellava la fede che un tempo aveva avuto, né cancellava il bene che lei aveva fatto come insegnante sotto l’egida di un diverso sistema di senso. Anche la poetessa comprese, grazie alla terapia, che la sua vita precedente aveva avuto molto senso per lei a quell’epoca. Aveva allevato i suoi figli, coltivato il cibo, si era unita al ciclo della natura; e nel mezzo di tutto ciò la sua poesia era stata concepita e aveva silenziosamente germogliato. La sua poesia era un prodotto della sua intera vita; il suo carattere particolare era modellato dalle sue esperienze di vita uniche, persino il grattar via lo sporco dalle patate di un tempo trovava il suo posto nel tessuto vitale dei suoi versi. La terza paziente aveva anche lei capito che ciò che era stato importante in passato non era solo imperituro, ma molto prezioso. Si fece più audace nel difenderlo e fu in grado di dire al marito: «Se hai vissuto con me per vent’anni senza amarmi, è una tragedia tua! Quanto a me, anche se adesso non ti amo, un tempo ti ho amato molto e ho trascorso molti degli anni migliori della mia vita con te».

L’impegno nella vita. Sebbene alcune di queste obiezioni filosofiche allo stato di assenza del senso contengano alcune implicazioni interessanti per la psicoterapia, mancano di potenza e per lo più rimangono delle semplici curiosità psicoterapeutiche. La ragione, in questa come in tutte le altre questioni relative al cambiamento terapeutico, non è in sé sufficiente. Il terapeuta richiede un approccio più potente. David Hume, in un famoso passo del suo Trattato sulla natura umana, indicò la strada. Dopo aver ragionato sulle cose partendo da una prospettiva galattica, era in preda ai dubbi (“malinconia filosofica”):

Per mia grande fortuna, se la ragione è incapace di dissipare queste nubi, a ciò pensa la natura, la quale mi cura e guarisce di questa tristezza e di questo delirio filosofico: la tensione della mente si allenta, mi distraggo, un’impressione vivace dei miei sensi mi manda in fuga tutte queste chimere. Ecco, io pranzo, gioco a tric-trac, faccio conversazione, mi diverto con gli amici: quando, dopo tre o quattro ore di svago, ritorno a queste speculazioni, esse mi appaiono così fredde, così forzate e ridicole, che mi viene meno il coraggio di rimettermici dentro37.

L’antidoto di Hume all’assenza di senso inerente alla prospettiva cosmica è l’impegno. E l’impegno era la soluzione anche per Sartre e Camus: un salto nell’impegno e nell’azione. Anche Tolstoj aveva scelto questa soluzione quando affermava: «È possibile vivere solo finché si è ubriachi di vita»*. E l’impegno è l’approccio all’assenza di senso più efficace a disposizione del terapeuta.

In precedenza ho trattato il paradosso edonistico secondo il quale più esplicitamente cerchiamo il piacere, più esso ci eluderà. Secondo Frankl il piacere è un sottoprodotto del senso, e la ricerca dell’individuo dovrebbe essere diretta verso la scoperta del senso. Io credo che la ricerca del senso contenga lo stesso tipo di paradosso: più cerchiamo in modo razionale, meno troviamo. Le domande che uno pone riguardo al senso saranno sempre destinate a durare più a lungo delle risposte.

Il senso, come il piacere, deve essere perseguito in modo indiretto. Un sentimento di pieno senso della vita è un sottoprodotto dell’impegno. L’impegno non refuta su un piano logico le questioni letali sollevate dalla prospettiva galattica, ma fa in modo che tali questioni siano meno importanti. È questo il senso della massima di Wittgenstein: «La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso»39.

L’impegno è la risposta terapeutica all’assenza di senso, indipendentemente dalla fonte di quest’ultima. Un impegno sincero in una qualsiasi dell’infinita gamma di attività della vita non solo disarma la visione galattica ma stimola la possibilità che un individuo possa organizzare gli eventi della propria vita in un modo coerente. Trovare una casa, prendersi cura di altri individui, di idee o di progetti, cercare, creare, costruire: queste e tutte le altre forme di impegno sono doppiamente gratificanti, sono intrinsecamente arricchenti e alleviano la disforia che è generata dall’essere bombardati dai dati brutali e non assemblati dell’esistenza.

L’obiettivo del terapeuta, quindi, è l’impegno. Il compito non sta nel creare un impegno o nell’ispirare il paziente, queste sono cose che il terapeuta non può fare. Ma non sono nemmeno necessarie: il desiderio di impegnarsi nella vita è sempre là, dentro il paziente, e le attività cliniche del terapeuta dovrebbero essere dirette verso la rimozione degli ostacoli che ostruiscono la strada al paziente. Per esempio, che cosa impedisce al paziente di amare un altro individuo? Perché trova così poca soddisfazione nelle relazioni con gli altri? Quali sono le distorsioni paratassiche che sistematicamente ne avvelenano le relazioni? Perché c’è così poca soddisfazione in ciò? Che cosa blocca il paziente impedendogli di trovare un lavoro che sia commisurato alle sue capacità o di trovare aspetti piacevoli nel lavoro corrente? Perché il paziente ha trascurato le sue aspirazioni creative, o religiose, o le spinte alla trascendenza di sé?

In questo contesto, lo strumento più importante del terapeuta è la sua persona, attraverso la quale si impegna con il paziente. Nei modi che ho discusso in precedenza, il terapeuta guida il paziente verso l’impegno con gli altri innanzitutto relazionandosi personalmente con il paziente in modo profondo e autentico. Anche i terapeuti, in quanto modelli di dedizione personale all’impegno, possono offrirsi come oggetto con il quale i pazienti si possono identificare: i terapeuti danno importanza alla loro missione professionale; per loro è importante la crescita di altri esseri umani; aiutano gli altri a cercare un senso, spesso in modi creativi.

Per riassumere, il primo passo del terapeuta nel trattare l’assenza di senso consiste nell’analizzare e affinare la questione. Molto di quello che è compreso sotto l’egida dell’assenza di senso appartiene ad altro (vuoi come artefatto culturale o come parte di altre preoccupazioni ultime quali la morte, la libertà e l’isolamento), e deve essere trattato di conseguenza. La “pura” assenza di senso, in special modo quando emana dall’assunzione di una prospettiva galattica e distaccata, può essere meglio accostata in modo indiretto attraverso l’impegno, che va a corrompere la prospettiva galattica.

Questo approccio terapeutico differisce moltissimo dalle strategie terapeutiche che ho descritto per trattare le altre preoccupazioni ultime: la morte, la libertà e l’isolamento devono essere affrontate direttamente. Tuttavia, quando si arriva all’assenza di senso, il terapeuta efficace deve aiutare i pazienti a distogliere lo sguardo dalla questione, a intraprendere la soluzione dell’impegno invece che buttarsi dentro il problema dell’assenza di senso. La questione del senso della vita non è, come ci ha insegnato il Buddha, edificante. Ci si deve immergere nel fiume della vita e lasciare che la questione sia portata via dalla corrente.

 

* Come ho già detto nel capitolo 10, logoterapia è il termine usato da Frankl per il suo approccio psicoterapeutico basato sul tentativo di aiutare il paziente a riconquistare un senso della vita. Esiste una rivista, un bollettino di logoterapia (con lo slogan «La salute attraverso il senso»), un istituto di logoterapia e diversi test sull’argomento28. Tuttavia, come avevo già tentato di dimostrare in precedenza, a parer mio la logoterapia non costituisce un sistema coerente. Consiste in tentativi improvvisati per aiutare il paziente a trovare un senso. I manuali di logoterapia descrivono due tecniche di base: della prima, la dereflessione, ho già parlato; la seconda è l’intenzione paradossa, e consiste in una tecnica basata sulla prescrizione del sintomo, dove al paziente viene chiesto di sperimentare ed esagerare i propri sintomi. Così, al balbuziente viene chiesto di balbettare intenzionalmente, al fobico di esagerare la propria fobia, all’ossessivo di essere ancor più ossessionato, al giocatore d’azzardo compulsivo di perdere denaro intenzionalmente. L’intenzione paradossa è una tecnica interessante, che Frankl descrisse per la prima volta nel 1938, e anticipò la tecnica simile della prescrizione del sintomo e del paradosso utilizzata dalla scuola di Milton Erickson, Jay Haley, Donald Jackson e Paul Watzlawick29. Ci sono prove che sia efficace per le terapie brevi. Tuttavia, non riesco a convincermi che sia specificatamente correlata al senso della vita. L’intenzione paradossa aiuta i pazienti a distaccarsi dai propri sintomi; permette loro di vedersi spassionatamente, persino con senso dell’umorismo; soprattutto permette loro di apprezzare il fatto di poter influenzare – in effetti, persino creare – i propri sintomi. Nella misura in cui l’intenzione paradossa permette che ci si assuma la responsabilità per i propri sintomi, essa può essere considerata all’interno della dimensione della terapia esistenziale; ma la sua funzione in quanto tecnica che procura un senso resta comunque per lo meno oscura.

* Ma, ahimè, l’attrazione della prospettiva galattica era stata troppo forte per lui, e lo portò a concludere la frase dicendo: «Ma non appena si torna sobri, non si può fare a meno di vedere come tutto sia solo un inganno, e uno stupido inganno!»38