di Simonetta Nannini
Il simposio, momento dedicato al vino, preceduto dal banchetto e da una libagione, è stato recentemente retrodatato all’epoca dei poemi omerici, in particolare all’Odissea, che presenta già tutti gli elementi destinati a svilupparsi nella lirica monodica e nell’elegia, fra il VII e il VI secolo a.C., e a proseguire nei testi in prosa ateniesi, dedicati al simposio filosofico. Il simposio ha un apparato specifico, un rituale, un suo spazio e un suo tempo, ma soprattutto svolge sempre una eminente funzione paideutica, conservando e perpetuando la cultura. Il Simposio di Platone sembra riassumere l’intera storia dell’istituzione, sin nei particolari, rovesciandone tuttavia il senso (dal “falso” retorico alla “verità”), mentre Ateneo ne compirà la definitiva “museizzazione”.
Definizione e origini del simposio
Il termine symposion compare per la prima volta in Alceo, poi in Teognide, dunque fra la fine del VII e il VI secolo a.C., in quella che viene considerata l’età d’oro della lirica greca, nelle isole e sul continente. La definizione standard dell’istituzione è perfettamente congrua con questo particolare momento storico e con l’esecuzione dell’elegia e della lirica monodica: il simposio, infatti, viene di norma descritto come la riunione di un gruppo di uomini, aristocratici di estrazione, fra loro affini per genos (stirpe) e/o per appartenenza ad una consorteria politica (hetairoi della stessa hetaireia), che avviene in un momento particolare (tempo dedicato al bere vino in comune, successivo al banchetto serale, da esso separato da una libagione, che ne denuncia il patrocinio religioso, ed eventualmente seguito da un corteo rumoroso, il komos), in un ambiente particolare (una grande sala, il megaron, arredata con scranni, sui quali gli ospiti stanno reclinati, poggiapiedi e tavole mobili, dotata di forniture numerose e varie, delle quali un’abbondante ceramografia ci offre chiari esempi: coppe e grandi crateri per miscelare il vino, ma anche mestoli, brocche, calici ecc.). La riunione, talora allietata dal suono del flauto e dalle danzatrici, prevedeva la creazione, o il riuso, quindi l’ascolto, di poesia su argomenti diversi, dall’eros al progetto politico e militare, sino, più tardi, al discorso filosofico.
A partire dalla seconda metà del Novecento, tuttavia, gli studi sul simposio hanno conosciuto una grande fortuna, in parte determinata dai nuovi scavi archeologici, ma soprattutto dalla più approfondita ricerca sul fenomeno dell’oralità, su committenti e fruitori della poesia greca: fondamentalmente se ne è retrodatata la nascita e, di conseguenza, si sono imposte alcune correzioni sugli aspetti formali, ma soprattutto sui generi di poesia fruibile a simposio, e sulla contiguità fra grandi cerimonie all’aperto, pubbliche, e cerimonie che si svolgono in privato nel megaron.
L’“assenza” in Omero di Dioniso (in realtà citato in quattro luoghi, tutti giudicati sospetti), giustificata con la supposta estraneità del dio al culto della classe aristocratica, o comunque la mancata celebrazione di Dioniso come dio del vino nei poemi omerici, e la compresenza di cibo e bevande nei vari banchetti descritti dall’Iliade e dall’Odissea, hanno fatto per lo più escludere che in tali poemi fosse attestato il simposio. Karl Bielohlawek segnalò tuttavia, già nel 1940, la presenza di un’identica precettistica conviviale fra banchetto omerico e simposio posteriore, e in Italia, infine, Massimo Vetta (anticipato da alcuni studiosi, limitatamente agli studi omerici) e Giulio Colesanti hanno sostenuto con forza e argomenti convincenti la presenza dei tratti ritenuti tipici del simposio (inteso come momento dedicato esclusivamente al bere, successivo al pasto e preceduto da una libagione) in Omero: il verso-tipo sarebbe costituito da Od. VII 184 (verso formulare), “ma dopo che ebbero libato e bevuto quanto il cuore voleva” (si vedano M. Vetta, Poesia e simposio nella Grecia antica, 1995, pp. 5-28, e G. Colesanti, MD 43, 1999, pp. 41-76). Ora, assodato che Dioniso compare già nelle tavolette micenee in lineare B, e che non risulta affatto alieno alla classe aristocratica, e considerato che ormai non si dubita più dell’esistenza di carmi epici antecedenti ad Omero, e che inoltre dalla ricostruzione di parte degli affreschi della sala di Pilo è emersa quella che costituisce per noi la prima scena che unisce aedo e banchettanti (sulla parete nord-est è chiaramente visibile un suonatore di lira su un sedile di roccia che guarda un uccello in volo e accanto sono raffigurati il toro destinato al sacrificio e due coppie di personaggi in atto di bere), si è giunti alla ricostruzione di una prima fase, già micenea, in cui pranzo e bevande erano consumate insieme, nel corso di cerimonie che avvenivano prima all’aperto, poi nella sala regale, allietate da canti epici e concluse da una libagione, fase seguita da quella omerica, mista fra banchetto miceneo regale e nuovo simposio, all’interno della reggia, nato probabilmente proprio dall’uso di una libagione che ritmava i due momenti. La fase mista può naturalmente essere determinata dalla convivenza, tipica dei poemi omerici, fra tendenza arcaizzante e intrusione di elementi appartenenti all’“aggiornamento” epico (che, come è noto, si arresta però al VIII secolo a.C.).
Non mancano studiosi che per simposio intendono tutto l’insieme di pasto e momento dedicato al vino, l’intera festa insomma (Domenico Musti, da ultimo), mentre altri cercano di trovare i punti di contatto fra banchetto sacrificale (thysia), con la sua distribuzione delle parti, e simposio, per lo più ritenuti modelli diversi o addirittura opposti di istituzione.
Aspetti formali, culturali ed etici del simposio arcaico
Al di là della definizione classica di “simposio”, è comunque certo che l’epica omerica documenta i fondamentali aspetti che proseguiranno, e si svilupperanno, nel simposio successivo, fra il VII e il VI secolo a.C. In Omero abbiamo ancora i grandi crateri di età micenea, “incoronati di vino”, e presso la tenda di Achille gli araldi versano l’acqua sulle mani dei presenti per purificarle prima della libagione, i coppieri mescolano il vino nei crateri e lo distribuiscono nelle coppe (Il. IX 174-7). Rispetto ad epoche successive (ma è possibile che il testo omerico arcaizzi), il banchetto prevede convitati seduti, non sdraiati sulle klinai (lettini con gambe molto alte, nelle rappresentazioni: letti su cui esporre i morti, prima ancora che letti per dormire), fenomeno che risale al VII secolo a.C., probabilmente per influsso dei banchetti reclinati orientali.
A parte la copiosa iconografia, in letteratura il fenomeno è documentato dal poeta elegiaco Callino, quindi da Alcmane, lirico che opera a Sparta attorno alla fine del VII secolo a.C., nel quale per la prima volta ricorre il termine kline, ma non solo: nel breve fr. 19 D. sette sono le klinai e sette le trapezai (“tavole”), dunque si affaccia l’uso del numero sette, che rimarrà canonico, insieme con l’undici, per l’approntamento del simposio, secondo quanto anche gli archeologi hanno confermato.
Ancora più importanti sono gli aspetti culturali ed etici che emergono dal testo omerico: la funzione dell’“ospite”, segnatamente, per i primi, la scelta degli argomenti per i secondi. Che Odisseo, in quanto ospite presso i Feaci, sia la prova della diffusione della cultura a banchetto, la prova di come dovette funzionare la panellenizzazione dell’epica, inglobando elementi locali, scegliendo versioni, ampliando la visione dell’uditorio, è indubbio. Ed è probabile che l’adattamento all’uditorio dei racconti di Odisseo – come avviene vistosamente in tutti i casi in cui l’eroe si presenta al suo arrivo ad Itaca –, in questo caso marinaio come i Feaci, amante come loro di banchetti (sono tutte vere le sue avventure o elaborate a loro uso?), anticipi sia l’alterità (qui Odisseo non manca di ricordare le proprie attività belliche; a Itaca sarà di volta in volta esule, di grande famiglia o figlio bastardo, addirittura pitocco; nella lirica saranno talora donne e artigiani a parlare per bocca del poeta), sia, contemporaneamente, gli elementi di somiglianza, di coesione fra poeta e uditorio, aspetti entrambi che caratterizzeranno la lirica simpotica. Non solo: la scena in cui Odisseo piange ai racconti dell’aedo professionista, a proposito delle vicende dolorose di Troia (come piangerà Penelope a Itaca ascoltando Femio, per essere ancora irrisolti i suoi dolori, o meglio non ancora trapassati da vita a racconto, a fiction), e il suo pianto determina l’immediata interruzione del canto da parte di Alcinoo, perché per tutti deve essere un piacere ascoltare poesia a banchetto, si pone come il primo esempio di una norma che impedirà di trattare temi “bellici” nella pace del simposio (non si tratta di un rifiuto della contemporaneità, poiché esiste anche il riconoscimento della predilezione per i temi “nuovi”, secondo la nota formulazione di Telemaco: l’ospite che arriva porta con sé nuove storie che entrano a fare parte del repertorio dell’aedo di corte). Con ciò ci accostiamo all’aspetto etico del simposio. A Odisseo risalgono infatti anche le parole che maggiormente accomunano l’epica arcaica alla lirica simpotica: “certo è bello ascoltare un cantore, così come è questo, simile per la voce agli dèi. Perché penso che non v’è godimento maggiore (telos chariesteron), di quando la gioia (euphrosyne) pervade tutta la gente, i convitati ascoltano nella sala il cantore, seduti con ordine, le tavole accanto sono piene di pane e di carni, dal cratere attinge vino il coppiere, lo porta e nelle coppe lo versa. Questo mi sembra nell’animo una cosa bellissima” (Od. IX 3 ss.). Il tempo della sera, l’importante “ordine” dei commensali, il grande cratere al centro col vino, ma soprattutto la charis (la grazia), e l’euphrosyne (la letizia, la serenità della festa) rimarranno costanti nella successiva poesia. Il simposio è già un mondo a parte di pace, di misura (il vino sarà sempre miscelato con l’acqua in proporzioni variabili, primo sintomo della misura che deve prevalere su ogni cosa), di gestione accurata del dolore e del piacere, di paideia (educazione), esattamente il mondo che vagheggerà Platone nelle Leggi come simposio ideale, attribuendogli quel valore paideutico che a livello più ampio è tipico della politica.
Ancora omerica potrebbe poi apparire la valutazione di simposi “buoni” opposti a quelli “cattivi”: Antinoo rimprovera Odisseo di essere preso dal “vino dolcissimo, che stravolge anche altri, chi ne tracanni e ne beva oltre misura”, e gli fa l’esempio del centauro Eurizione presso i Lapiti, ospite di Piritoo, nei confronti del quale, accecato dal vino, compì “male azioni”, dando origine alla contesa fra centauri ed eroi (Od. XXI 292ss.); di qui l’invito a bere “tranquillo” (hekelos), senza contendere con l’arco. Un’ultima notazione, ma non più che un’ipotesi, suscitano le parole del famosissimo intermezzo di Alcinoo, al quale spetta pronunciare le parole di maggiore apprezzamento dei racconti di Odisseo: dall’aspetto Odisseo non appare un imbroglione, di quelli che “confezionano” (artynontas) cose false, “ad un punto tale, che nessuno può più riuscire a scorgervi la verità” (Od. XI 366). L’espressione è a dire il vero molto difficile da intendere e spesso viene resa diversamente. Da ultima, Miriam Carlisle traduce il v. 366 con “putting to order various tales, and from where they come, no one can know” (M. Carlisle and O. Levaniouk, a cura di, Nine Essays on Homer, Lanham MD: Rowman and Littlefield, 1999, pp. 83 s.). La singolare proposta della studiosa, “da dove” al posto dell’usuale “al punto che”, appare particolarmente innovativa: il narratore che racconta pseudea (falsità) racconta cose “tratte da qualche fonte non identificabile”, che non possono essere verificate, come in questo caso, da un eroe ancora vivente nel mondo narrativo del poema, dunque con l’autorità del ricordo. Da un lato ci troviamo davanti alla nozione di “verifica” della fonte, dall’altro davanti a quella di “autorità”, di emittente che avvalora la propria opera, avendo ipoteticamente vissuto quello che narra, invece che ricorrere all’“autorità” della Musa che tutto sa perché eterna e ubiqua. Il concetto di fonte, identificata da un preciso nome autorevole, che fornisce pertanto autorevolezza alle parole, sarà alla base della più famosa raccolta simpotica, quella cioè di Teognide: non più che un marchio il nome di Teognide, attorno al quale si agglutinano un’ideologia e un sistema di valori, non più che una “maschera” la sua consistenza, dotata di un’identità fittizia come quella del suo destinatario prevalente, Cirno, il destinatario “necessario” di tutti i poemi sapienziali, a partire dal fratello Perse degli Erga esiodei.
Luoghi e tempi del simposio nella lirica fra il VII e il VI secolo a.C.
Specificamente dedicati al simposio sono in seguito non solo la poesia elegiaca (in ambito pubblico oltre che privato), ma anche il giambo, come più di recente si è riconosciuto, con i loro rappresentanti principali: Mimnermo, Alceo, Anacreonte, Teognide, da un lato (ma anche Callino e Solone); Archiloco e Ipponatte dall’altro. Per il simposio però compongono anche lirici più noti per la loro attività di lirici corali, come Alcmane e Pindaro, e nell’ambito del simposio è noto il riuso di carmi corali, come pure di brani teatrali. Tutte le tematiche sono rappresentate, da quelle politiche a quelle erotiche, dall’encomio (penso all’encomio per Policrate di Ibico, perfetto esempio di lirica encomiastica a simposio, tirannico in questo caso) allo psogos, il “biasimo”, tipico della giambografia. Diversi saranno i contesti: simposio di membri della stessa eteria (che condividono posizione sociale, aristocratica, e politica, o simposio tirannico, legato alla corte), diversa l’ambientazione (Archiloco, ad esempio, presenta casi di simposio sulla nave), e diverse le zone geografiche di provenienza dei poeti. I frammenti residui ci parlano altresì di figure “estranee”, evocate dalla poesia o fittizie personae loquentes, quali donne, stranieri, personaggi di basso lignaggio, tali da rendere più forte l’“identificazione” dei partecipanti al simposio, proprio grazie all’“altro” da sé.
È dalla lirica comunque che ricaviamo le indicazioni letterarie più significative sui luoghi e i tempi del simposio. Senofane ci conserva forse la più interessante delle descrizioni di un simposio “perfetto”. Dai vv. 1-12 del fr. 1 ricaviamo il cerimoniale concreto: pulito il pavimento, le mani e le coppe, lavato l’uno e le altre per purificarli dopo il banchetto, un inserviente pone le corone sulla testa dei convitati, un altro distribuisce oli aromatici; il cratere è pieno di vino miscelato con l’acqua, al centro della sala, simbolo di uguaglianza fra i convitati, altro vino, ancora pretto, è pronto nelle anfore; nel frattempo brucia l’incenso, ci sono pani allineati sulla trapeza (la tavola rituale) e formaggio e miele (offerte rituali), e l’altare, anch’esso al centro della sala accanto al cratere (forse uno di quegli altari mobili di terracotta, di cui gli archeologi hanno rinvenuto alcuni esemplari), è tutto infiorato, “intorno all’edificio echeggiano il canto corale e i suoni della festa (thalie)”, dal che si può desumere che il simposio descritto è parte di una più ampia celebrazione che doveva svolgersi all’esterno.
Tale perfetta atmosfera sacrale è completamente stravolta nel più osceno dei simposi, ad opera del giambografo Ipponatte, dove forse due personaggi (uno dei quali Arete? personaggio femminile spesso nominato dal poeta) bevono dal secchio della mungitura perché lei non ha la coppa, fracassata dallo schiavo che ci è caduto sopra (fr. 21 Dg.); Archiloco, altro famoso giambografo, ci attesta invece in un distico elegiaco un simposio improvvisato e in un ambiente ben diverso, cioè la nave (sul “legno”, la tolda, è una focaccia impastata, un cibo ben povero, ma sempre sul legno è un vino eccellente, proveniente da Ismaro, bevuto puro, e la persona loquens – quell’“io” che è sempre pericoloso identificare con il poeta – beve reclinata sul legno, in posa simposiale), così come ancora sul mare si svolge il simposio del fr. 4, conservatoci da un papiro (“Muoviti, dunque, con la coppa, tra i banchi della nave veloce”).
Identica ambientazione è del resto rappresentata in un affresco, e ritorna nella famosa coppa di Exekìas, datata intorno al 540 a.C., sulla quale è rappresentato Dioniso, sdraiato sotto una vela, coronato di edera, che tiene una grossa coppa in mano.
Alceo, lirico monodico vissuto a Lesbo, è senz’altro il poeta che ci dipinge con maggiore vividezza l’ora del simposio e le stagioni che lo motivano, in quanto giustificano l’inattività: piove, infuria la bufera, i fiumi sono gelati, per cui bisogna bere (fr. 338) vino più forte del solito (più forte, vale a dire due parti di vino e una di acqua), con bende di lana attorno al capo, ma bisogna bere anche in piena estate (fr. 347), quando tutto è arso, frinisce la cicala, fiorisce il cardo (e dietro questa estate, di donne lussuriose e uomini indeboliti, non è difficile intravedere la memoria di Esiodo (Opere 582-596); e bisogna bere la sera, ma anche l’infrazione (sottolineata come tale) è concessa: perché attendere le lucerne? Del giorno non rimane che “un dito” (fr. 346).
Gli argomenti dell’elegia e della lirica simpotica sono infine i più vari: Callino esorta i giovani distesi a simposio alle armi (le città ioniche dell’Asia Minore subivano le invasioni dei Treri e dei Cimmeri), e richiama loro l’etica eroica: la morte è stata destinata, tanto vale essere coraggiosi e suscitare il rimpianto; allo stesso modo il contemporaneo Tirteo, vissuto a Sparta, celebra l’eroismo collettivo, e i suoi carmi sono quanto meno rieseguiti a lungo nei simposi; Mimnermo, nativo di Smirne, celebra l’amore e riflette sulla splendida giovinezza e sulle angosce della vecchiaia (sua la probabile ripresa, con variatio significativa, della similitudine omerica “come le foglie”: in Omero le foglie cadono e rinascono a primavera, gli uomini rientrano nel ciclo della natura, qui gli uomini godono solo per un brevissimo periodo di una fanciullezza e giovinezza caduche).
Solone, nell’ambito di un simposio (“in questo banchetto sereno”), che dovrebbe presentare decoro, letizia e pace, segnala invece la realtà politica in atto, connotata da brama di denaro, ingiustizia, dismisura. La tematica politica è d’altro canto cara, a Mitilene sconvolta dalle lotte politiche, ad Alceo, che con la sua consorteria canta della violenza tirannica (prima di Mirsilo poi di Pittaco), e inaugura la fortunata allegoria della città come una nave in tempesta, poi abbandonata in secca (frr. 6 e 73; 306i col. II). Ma è con Teognide di Megara, al cui nome è associato un corpus composito, documento di tanti simposi, che tutti i temi sembrano come stringersi attorno al nucleo paideutico delle esortazioni ad un giovane compagno, Cirno, destinatario tipico di ogni poema sapienziale: i valori tradizionali della vecchia aristocrazia terriera vanno preservati e tramandati. Tali valori sono ancora quelli esiodei, vale a dire l’areté, cioè il valore personale, l’eccellenza, e l’opposizione ai guadagni illeciti, a quanti per guadagni personali e desiderio di potere disgregano la comunità, siano essi uomini di ricchezza recente o appartenenti sì alla vecchia oligarchia, ma mescolati con i nuovi ceti; ma valori sono altresì quelli omerici quali l’amicizia, la lealtà, l’ospitalità. Quest’ultimo tema, così importante per l’epica arcaica, non è tuttavia tanto presente quanto ci aspetteremmo, ma esemplare è la cosiddetta elegia per Clearisto (vv. 511-522), segnalata da Vetta, tramite la quale assistiamo all’accoglienza di un esule, al quale vengono approntati doni, così come ad Odisseo presso i Feaci, ma che soprattutto conferma quel valore di diffusione di cultura, notizie e fama che ancora rimane vivo nel simposio: Clearisto dovrà parlare dell’ospite quando sarà accolto altrove, perpetuarne il ricordo. I versi della Silloge teognidea, in particolare, quasi ci restituiscono, per così dire dal vivo, la pratica di improvvisare oralmente messa in atto dai convitati (sono state messe in luce vere e proprie “catene” di proposta e risposta nella serie di distici), e quella del “riuso” (nell’ambito della Silloge vengono infatti proposte, con variazione, riflessioni che già sappiamo appartenere nella loro prima formulazione a Tirteo, Mimnermo e Solone).
Linguaggio esoterico
Andrà infine segnalato che se il linguaggio poetico greco è sempre metaforico, nella lirica simpotica il fenomeno è più presente che altrove, in quanto deliberatamente inteso a determinare una forte inclusione dei “compagni”, che condividono ideali e posizione politica, e al tempo stesso esclusione di quanti non appartengono all’ambiente ristretto, un linguaggio per iniziati, insomma. Difficile è pertanto intendere talora il reale significato di alcune espressioni (al di là della difficoltà di recuperare gli avvenimenti storici ai quali si allude), e d’altro canto la lirica simpotica condivide con l’epica arcaica la complessità anche teorica che si presenta a chiunque tenti di editare un’opera orale in origine, o comunque trasmessa oralmente, più volte ripetuta, eseguita in contesti diversi, con inserzioni da riuso e adattamenti al ricevente. Scegliere fra le frequenti varianti è ben complesso e non sempre è agevole comprendere dove intervenga l’adattamento o dove la variante sia in realtà equipollente, una delle tante appartenenti alle diverse performances.
Il Simposio di Platone e i simposi in prosa
Se nel simposio arcaico i convitati cantavano e recitavano componimenti poetici, propri o altrui, ad Atene, in epoca classica, si diffonde l’uso dei simposi scritti in prosa: il più famoso è senz’altro il Simposio di Platone, nel quale notoriamente ci si propone di fare l’encomio di Eros. L’opera platonica sembra riallacciarsi alla tradizione del simposio ideale senofaneo, per l’apparato formale e per il clima (vale a dire per le regole rispettate, quali la scelta dell’arbitro del discorso, l’ordine in cui i convitati devono sedere, e quello in cui devono parlare a turno, come devono bere, ma anche per l’atmosfera serena, lontana dal tumulto della città, nella quale anche i “nemici” come Aristofane e Socrate, convivono in apparente amicizia). D’altro canto nelle Leggi (639d-642a) l’Ateniese sostiene che le riunioni conviviali sono senz’altro un elemento costitutivo di una comunità ben ordinata (benché di fatto non si verifichi mai che tali riunioni avvengano in perfetta calma: nel Simposio, infatti, irromperà Alcibiade ubriaco). Deve pertanto esserci un capo, un uomo sobrio e assennato, custode dell’amicizia presente e futura dei partecipanti. E tutto ciò non è di poca importanza, perché il simposio che è guidato secondo le regole ha una grande efficacia pedagogica, la stessa efficacia che già nei tempi arcaici gli veniva riconosciuta in quanto occasione in cui si conservava e si perpetuava la memoria collettiva.
L’argomento scelto (Eros, ora dio ora eros, “desiderio”), l’andamento “poeticamente” elogiativo adottato dai vari convitati, i cui discorsi prendono inizio da genealogie mitiche del dio, dalla sua bellezza e da tutto ciò che alla bellezza è connesso, dall’erotismo, o meglio dall’omoerotismo, sembrano invece riallacciarsi alla tradizione dell’encomio simpotico, rappresentato da Ibico (altri cantano gli eroi di Troia e le navi, “io invece canto la bellezza di Policrate”), ad esempio, e da alcuni frammenti di Pindaro dedicati al banchetto. Platone sembra insomma ricalcare l’arcaica tradizione della lirica simpotica, nelle sue varie forme, per giungere ad esiti del tutto nuovi: i topoi meramente retorici dell’encomio sono citati per essere negati, in quanto “falsi” (elogio della bellezza, della nobiltà, dell’eroismo, eroticamente cantati). Il discorso con Socrate si sposta sul dire la “verità” e dal dio Eros si passa a Eros demone (dal dire “il falso”, rispettando una norma di genere, si passa al “dire la verità” su Eros), né bello né brutto, né sapiente né ignorante, mediatore fra gli dèi e gli uomini, tensione perenne e pura alla sapienza e alla virtù, all’immortalità, vero prototipo del filosofo.
Che il Simposio di Platone sia volutamente arcaizzante, e che costituisca il consapevole recupero di una tradizione secolare, ormai di fatto al tramonto, sembra dimostrare anche il coevo Simposio di Senofonte, una sorta di compendio delle teorie socratiche ridotte a formule, in un ambiente che della sacralità e del rito non ha più quasi nulla, conservandone unicamente la giocosità.
Fra i simposi in prosa andranno ricordati in seguito, fra quelli più celebri, il Simposio dei Sette sapienti e le Questioni conviviali di Plutarco (peraltro lontanissime dal simposio arcaico per le regole, con fusione fra banchetto e simposio, quasi totalmente prive dell’elemento erotico, sentenziose già nell’apertura), un Simposio di Luciano, ma soprattutto i Sofisti a banchetto di Ateneo, che sembra raccogliere, nella seconda metà del II secolo, proprio la tradizione rappresentata dai Simposi di Platone e di Senofonte. Ateneo nasce a Naucrati, città greca dell’Egitto, e vive a Roma, e proprio presso un romano potente, Larense, attorno al quale si è raccolto un vero circolo letterario, è ambientata la sua opera, i Deipnosofisti (i Sofisti a banchetto). In una cornice apertamente platonica, sin dall’incipit, che riprende meccanicamente il proemio del Simposio platonico (ma numerosi, e talora più sottili, saranno i richiami anche agli altri dialoghi platonici), Ateneo scrive per ben 15 libri di un banchetto-simposio che del banchetto-simposio parla, grazie soprattutto a un’immensa raccolta di citazioni letterarie, di notazioni linguistiche, di usi e costumi rievocati (fornendoci in questo caso un compendio, al modo di Senofonte, ma di tutta la cultura greca, letteraria, scientifica e anche popolare). Se le conversazioni essenzialmente dotte, ma con leggerezza, sono il fulcro delle Quaestiones conviviales di Plutarco (che vogliono proporsi come pedagogiche), qui la conversazione stessa è un “banchetto”, e segue le singole portate, ad ogni portata associando un tema. Ma l’originalità dell’opera, talora bizzarra per gli argomenti che affronta, talora apparentemente confusa e ondivaga nel suo percorso, tanto da non apparire scritta per essere letta, bensì soltanto consultata (come un’enciclopedia), oltre a costituire l’orgogliosa esibizione di un intellettuale dalla memoria prodigiosa, nasconde forse una motivazione profonda. Ambientati presso la casa del possessore di un’immensa biblioteca, i numerosi libri, strutturati come tali, in cui si articolano i Sofisti a banchetto, costituiscono essi stessi un’opera-biblioteca, e una biblioteca più grande di tutte quelle conosciute, un vero “labirinto” borghesiano, la summa di una cultura che, vista da Roma e da uno dei tanti Greci che hanno lasciato la patria, evidentemente era sentita in pericolo, o almeno irrimediabilmente lontana, nel tempo e nello spazio, tale dunque da dover essere recuperata e resa al tempo stesso fruibile, per i contemporanei e per i posteri, organizzata, raccolta per temi declinati nelle forme, e dalle voci, più diverse fra loro (senza porre attenzione alle contraddizioni interne, senza fornire alcun giudizio), conservata ancora una volta nell’ambiente in cui da sempre era stata prodotta e tramandata: il simposio. Non più un simposio vivo, o rivissuto, con nostalgia o col desiderio di riformarlo, ma un vero museo del simposio.
Vedi anche
La figura del filosofo nell’immaginario narrativo
Socrate
Paideia
Senofane
Platone
La poesia lirica
La poesia epica
Il teatro
Funzione socio-antropologica della choreia: danze di guerra/danze di pace
I contesti della musica: il simposio