di Marcello Carastro
Nella cultura greca la vita religiosa è profondamente connessa alla vita sociale. La comunità civica gestisce la comunicazione con gli dèi tramite una serie di pratiche cultuali, tra le quali spiccano il giuramento, il sacrificio e la divinazione. La dimensione rituale, aspetto essenziale della religiosità greca, permette il dispiegamento simbolico dell’universo di senso, dei valori e delle regole che fondano il legame sociale delle città.
Ci vuole un purificatore
Malgrado lo stato frammentario, l’inizio del famoso opuscolo aristotelico La costituzione degli Ateniesi contiene spunti preziosi per una riflessione sul valore essenziale dei culti nella vita della comunità politica ateniese. Dopo aver trattato, in una parte dell’opera che purtroppo è andata perduta, dei re leggendari, Aristotele allude brevemente a un episodio sanguinoso della storia ateniese: il sacrilegio commesso dal clan aristocratico degli Alcmeonidi, macchiatisi dell’omicidio di supplici.
Verso il 632 a.C. il nobile Cilone, appoggiato dal suocero Teagene, tiranno della città di Megara, tenta d’imporre la tirannide ad Atene, occupandone l’acropoli insieme ai suoi seguaci. Assediati dai cittadini di Atene sotto la guida dell’arconte Megacle, appartenente alla celebre famiglia degli Alcmeonidi, i partigiani della tirannide non resistono a lungo. Cilone e il fratello riescono a rifugiarsi a Megara, mentre i loro seguaci cercano scampo presso la dea Atena, in qualità di supplici. Violando questo statuto, che avrebbe dovuto proteggerli, Megacle e i suoi uccidono ugualmente i congiurati: si tratta di un atto sacrilego, agos, che causa la contaminazione degli assassini e dei loro discendenti. L’alcmeonide Megacle diventa enages, impregnato cioè dall’agos, uno stato di impurità che è concepito in termini di sozzura, mysos, e che come tale si deve “espellere”, elaunein. Generalmente, il sacrilego deve abbandonare la propria terra onde evitare di contaminarla: si recherà dunque altrove, in città lontane, per domandare in qualità di supplice, mettendosi quindi sotto la protezione degli dèi, di essere integrato in una nuova comunità. Nel caso degli Alcmeonidi appare chiaramente il fatto che la loro permanenza sul suolo ateniese dopo l’atto sacrilego è fonte di turbamenti. Versare sul suolo il sangue di un concittadino è infatti un atto le cui conseguenze gravano su tutta la vita della comunità, in quanto all’alterazione dell’equilibrio sacrificale corrisponde quella del ciclo vitale: pestilenze e sterilità imperversano, abbattendosi sugli uomini e sugli animali, mentre la prosperità del suolo risulta ugualmente compromessa. L’unica via di uscita consiste nel ristabilire l’equilibrio sacrificale per riattivare il canale di comunicazione con gli dèi; ritualmente parlando, si adotta una doppia strategia: bisogna innanzitutto espellere i sacrileghi, per compiere poi una serie di atti di fondazione sul piano del culto. Per far ciò si deve ricorrere a uno specialista in materia: il purificatore. Prima di soffermarci però sulla risoluzione della crisi ateniese, seguiamo attentamente cosa dice Aristotele.
Una giuria di trecento cittadini scelti tra i nobili deve pronunciarsi sui fatti accaduti al tempo di Megacle. Prima di tutto, i trecento giurano sulle vittime sacrificali, atto che, come vedremo tra breve, permette di stabilire un contatto con il mondo divino, accedendo così a uno statuto della parola (si tratta infatti di un giuramento) conforme a un ordine superiore. I giurati riconoscono la colpevolezza degli assassini dei supplici. L’agos deve essere espulso dal suolo ateniese: le ossa dei colpevoli sono dissotterrate dalle tombe; quanto ai discendenti, gli Alcmeonidi sono condannati all’esilio perpetuo. La colpa pesa su tutti i membri della famiglia, siano essi vivi o morti. Una volta che la fonte della contaminazione è stata eliminata, la città può essere purificata. Tocca a Epimenide il Cretese. Plutarco fornisce dettagli preziosi sul modo in cui agisce il purificatore. Figura mitica dell’uomo pio che conduce una vita ascetica, oltre alla conoscenza delle tecniche di purificazione, Epimenide possiede le capacità mantiche che gli permettono di individuare l’origine dei mali. L’assistenza che Epimenide garantisce a Solone nella messa in opera della riforma religiosa ad Atene è connessa a una forma di sapere oracolare che si rivela indispensabile per fornire garanzie divine all’operato del legislatore. Contemporaneamente esso ricrea le condizioni necessarie per rinsaldare il legame sociale, il quale si traduce appunto nella concordia civica. A Sparta si incontra un modello comparabile nella figura del leggendario legislatore Licurgo, che riceve da Apollo una sorta di convalida della riforma istituzionale da lui operata.
Sul piano cultuale, infine, il purificatore rinnova il legame tra la comunità e il suo territorio attraverso la fondazione di nuovi templi e altari, elementi visibili dell’auspicato rinnovamento della presenza divina nella città. Lo spazio civico è pertanto riconfigurato dal punto di vista cultuale.
Evocando questo episodio che ha particolarmente segnato la storia di Atene, il passo aristotelico racchiude, in una sintetica illustrazione, alcuni atti fondamentali del culto attraverso i quali gli uomini coltivano la relazione con le divinità: il giuramento, il sacrificio e la divinazione.
Fondare e rifondare il legame sociale: il giuramento
Talvolta i patti possono risolvere conflitti interminabili: è quanto spera Menelao, nell’Iliade, quando propone ai Troiani di trovare un accordo per concludere rapidamente le ostilità e di sancire i patti con un giuramento. Un duello tra Menelao e Paride risolverà l’annosa guerra: al vincitore toccheranno Elena e i beni; l’impegno delle due parti sarà sancito da un gesto rituale di Priamo, che dovrà “tagliare i giuramenti”, horkia temnein.
Con la parola horkia si designano i patti, ma anche le vittime destinate al sacrificio cruento sulle quali si giura. L’espressione “tagliare i patti” evoca quindi simbolicamente il gesto dello sgozzamento delle vittime. Il giuramento non è infatti una semplice formula di impegno che un individuo prende nei confronti di un altro, ma un atto rituale complesso in cui sono implicati gli dèi, l’intera comunità e l’ordine cosmico. Giurare corrisponde infatti a praticare una serie di atti cultuali (preghiera, libagione, sacrificio) che convalidano una parola le cui conseguenze peseranno sul destino di chi la pronuncia. Lo spergiuro, sia esso un mortale o un dio, non sfugge infatti alla terribile vendetta di Horkos, potenza divina preposta al rispetto della parola data.
La centralità del giuramento nella vita civica appare chiaramente da un semplice elenco delle occasioni in cui lo si presta: dal giuramento degli efebi, la cui fedeltà alla città dev’essere indefettibile, a quello dei magistrati o dei giurati all’inizio della loro carica, che devono servire in modo imparziale la comunità, senza dimenticare gli accordi internazionali tra città. I cittadini (o futuri cittadini) non sono i soli a poter e dovere giurare: a Cirene, colonia greca nell’odierna Libia, tutti i membri della comunità sono implicati nella cerimonia rituale, uomini, donne, giovani e bambini, in quanto è in gioco la vita su un territorio che potrebbe dimostrarsi ostile all’insediamento del gruppo.
Il passo omerico da cui siamo partiti condensa tutta una serie di elementi che aiutano a cogliere i momenti salienti del rituale: le vittime sacrificali designate sono due agnelli, che gli araldi portano in processione attraverso la città di Troia. Lo spazio civico è così implicato nel rituale che coinvolge il destino di tutta la comunità, come si evincerà dalla preghiera di Agamennone.
Quest’ultimo, con in mano il coltello rituale, machaira, assume il ruolo di sacrificatore: accoglie le vittime e taglia un ciuffo di peli della loro testa, gesto anticipatorio dello sgozzamento che opererà in seguito. Tra il momento del taglio dei peli e quello del taglio della gola, Agamennone invoca le potenze divine perché siano “testimoni”, martyres, e guardiane dei patti: Zeus ed Helios, il sole che tutto vede, potenze che figurano spesso in tal genere di rituali; poi Gaia, la terra, e i fiumi, istanze divine del territorio su cui si compie il rito, e perciò indispensabili alla riuscita del giuramento; infine, le potenze infere, che presiedono alla punizione degli spergiuri, probabilmente Ade e Persefone, che non sono esplicitamente nominate. Dopo l’invocazione degli dèi, lo schema classico del giuramento prevede l’enunciazione del contenuto dei patti e, infine, l’ara, un atto verbale la cui enunciazione è “autorealizzante”, in quanto svolge la funzione di parola che sanziona il rituale: spesso si suppone che l’ara agirà sul piano biologico e sociale, a tal punto da pesare sul destino di un lignaggio intero.
Il rito orale è spesso accompagnato da una libagione il cui nome, sponde, è usato comunemente per designare il giuramento in generale: elemento significativo dell’importanza di questo atto cultuale nella dinamica dell’azione compiuta attraverso l’enunciazione. La libagione, che consiste nel versare un liquido, generalmente vino misto ad acqua, sull’altare o direttamente sul suolo, è un gesto molto frequente nella vita quotidiana dei Greci, ma la cui “banalità” non deve offuscare il carattere partecipativo dell’atto, in quanto il liquido parzialmente versato in onore degli dèi viene poi ingerito dall’orante (diversamente dalle choai, le libagioni di liquidi completamente versati sul suolo o sulle tombe, in contesti funerari). La libagione permette così di stabilire un contatto con le divinità, che sono rese presenti nel tempo di una preghiera, di un giuramento, di una maledizione e delle varie forme di linguaggio che sono strumento di azione rituale.
Chiamare gli dèi: preghiere e maledizioni
“Tutti quanti abbiano pur anche un briciolo di senno, al principio di ogni impresa grande o piccola sempre invocano gli dèi”: così esordisce Timeo nell’omonimo dialogo platonico per introdurre il suo discorso sulla cosmologia. Invocare gli dèi, chiamarli, kalein, è un atto di parola generico e corrente, che viene compiuto in svariati contesti. Sono numerose le circostanze della vita in cui ci si rivolge agli dèi per fare un voto, chiedere benefici o protezione, ringraziarli, renderli presenti.
In greco antico un largo spettro di termini traduce gli atti di parola rivolti agli dèi o che comunque li coinvolgono nelle faccende umane. Non è inutile ribadire, a tal proposito, quanto sia difficile stabilire equivalenze precise tra le concezioni antiche e quelle moderne. Il caso della preghiera è esemplare. Secondo l’equazione formulata dal classicista e antropologo James George Frazer (1854-1941), ciò che la religione domanda agli dèi tramite la preghiera, la magia lo ordinerebbe loro per mezzo di incantesimi. Tale dicotomia, ereditata dalle polemiche cristiane contro il paganesimo e ancora oggi in voga, benché già criticata da Henri Hubert (1872-1927) e da Marcel Mauss (1872-1950), si rivela in effetti poco pertinente per la comprensione degli atti cultuali greci. È sufficiente esaminare la terminologia e la sintassi. In greco, il termine euche, che si traduce con “preghiera”, può esprimere ugualmente la “maledizione”, come si riscontra su una lamella di piombo proveniente da Agrigento e risalente al V secolo a.C. Più che l’idea di rivolgere una domanda agli dèi, il verbo euchesthai esprime in realtà l’idea di proclamare ad alta voce una giusta pretesa.
Quella dell’euchesthai è una parola particolarmente affermativa, che impegna l’orante e l’interlocutore (per cui prende anche il senso di “esprimere un voto”). Che la preghiera in greco non sia una semplice domanda lo rivelano, inoltre, i modi verbali in cui essa viene formulata: sia l’uso del modo imperativo, che esprime non proprio un ordine, ma una richiesta decisa, sia quello dell’ottativo, che può restringere notevolmente i margini di scelta della divinità.
Spesso accompagnata da una libagione, la preghiera è pronunciata nei vari momenti della vita quotidiana: dal contadino che inaugura la giornata di lavoro, dal marinaio che si prepara a salpare, dal padre di famiglia all’inizio della giornata. Nel santuario essa è spesso rivolta direttamente alla statua di una divinità e accompagna eventualmente il deposito di un’offerta votiva. La sua onnipresenza nella vita civica e religiosa non deve stupire: gli dèi sono associati alle più svariate attività umane, come ricordano le parole di Timeo prima citate. È noto, ad esempio, che, all’apertura dei lavori dell’assemblea ateniese, l’araldo invoca appunto gli dèi. A questo atto cultuale se ne aggiunge un altro di non minore importanza: il sacrificio di un porcellino, il cui sangue viene fatto colare per terra, delimitando così lo spazio della parola assembleare.
A tavola con gli dèi: le pratiche sacrificali
Tra gli atti fondamentali del culto, il sacrificio ha suscitato un forte interesse tra i moderni per il notevole impatto che esso esercita sull’immaginario di una cultura “non sacrificale” quale è appunto la cultura occidentale. Quando si tratta del sacrificio in Grecia si pensa necessariamente alla sua versione cruenta: l’uccisione della vittima animale suscita emozione, impressiona le menti, acquisisce lo statuto di scena primordiale ed è proprio su questa che ci si fonda di solito per rendere conto della funzione del sacrificio in quanto atto cultuale.
Lo studioso svizzero Karl Meuli (1891-1968) ha proposto di interpretare il sacrificio greco come il risultato di una evoluzione di primitivi riti sacrificali di uccisione legati alla pratica della caccia. Sulla base di questa interpretazione, oggi comunque difficilmente accettabile, Walter Burkert, un altro classicista svizzero, ha elaborato una teoria del sacrificio focalizzata sulla violenza dell’uccisione della vittima sacrificale e sul senso di colpa che esso genererebbe nella comunità.
Servendosi degli studi dell’etologo austriaco Konrad Lorenz, Burkert presuppone infatti che l’aggressività sia un fattore determinante nella costituzione del gruppo, e quindi della comunità. Più sensibile alle categorie native della religiosità greca, Jean Rudhardt (1922-2003) ha fornito un contributo importante alla conoscenza del sacrificio attraverso uno studio minuzioso della terminologia antica, insistendo sulla varietà di forme (dal sacrificio non cruento alle diverse forme di sacrificio cruento e di ripartizione della vittima, fino all’olocausto, in cui la vittima è totalmente consumata dal fuoco) e sulla molteplicità delle funzioni (di ringraziamento, propiziatoria, mantica, catartica ecc.) che il sacrificio può assumere a seconda dei contesti storici, geografici e cultuali.
Dopo una lunga serie di indagini comparative condotte in collaborazione con storici e antropologi specialisti di diverse aree culturali, Jean-Pierre Vernant (1914-2007) ha proposto di concentrare l’attenzione non sulla violenza dell’atto sacrificale, ma piuttosto sul suo carattere alimentare, insistendo sull’importanza della commensalità, e quindi della condivisione del pasto sacrificale. Il sacrificio cruento di tipo alimentare, in greco la thysia, consiste infatti nell’uccisione rituale di una vittima animale di cui una parte è offerta agli dèi tramite combustione sull’altare, mentre la parte restante è consumata dalla cerchia dei partecipanti.
La funzione del sacrificio consiste dunque nel consolidare i legami tra i membri della comunità civica, soprattutto tramite la partecipazione al banchetto rituale, e di stabilire un contatto con le divinità destinatarie del rito. Questa funzione sociale e politica emerge ancora più chiaramente dall’analisi condotta da Marcel Detienne sulle pratiche orfiche e pitagoriche che, proponendo un regime totalmente vegetariano e rifiutando quindi il consumo delle carni sacrificali, si situano di converso ai margini della comunità.
Se la lettura del sacrificio in chiave alimentare chiarisce numerosi aspetti della vita cultuale greca, essa non deve comunque oscurare la diversità delle pratiche sacrificali che si possono situare in un continuum che va dalla semplice offerta di “primizie”, aparchai, bruciate sull’altare, sino all’ecatombe delle Grandi Panatenee. Ancora una volta il vocabolario offre indicazioni preziose: con thysia si designa il sacrificio in genere, sia esso cruento o non cruento. Una semplice offerta di incenso da bruciare sull’altare, un dolcetto o una focaccia possono infatti bastare agli dèi, e ciò non solo quando l’offerta è fatta dal singolo individuo, ma anche quando proviene dalla comunità intera. Ad Atene, per esempio, la festa delle Diasie in onore di Zeus Milichios prevede sacrifici non cruenti. Il che non esclude comunque che gli altari siano spesso fumanti. La dimensione olfattiva del sacrificio, segnalata dalla radice thy- da cui deriva thysia ma anche thyos indicante tanto l’offerta sacrificale quanto la fumigazione, è un elemento da non trascurare: gli dèi si deliziano del profumo che esala dagli altari su cui arde il fuoco sacrificale.
Aristofane se ne prende gioco nella commedia Gli Uccelli, mettendo in scena il progetto dei volatili decisi a costruire una città celeste, tra il mondo degli uomini e quello degli dèi, per poter così intercettare tutti i fumi sacrificali.
Oltre a thysia, altre parole possono essere usate in greco per designare le pratiche sacrificali, sottolineandone il carattere di hierourgia, “azione sacra”. Le hiera sono le offerte, le vittime sacrificali, ma anche le loro viscere, da cui si traggono gli auspici; questa parola servirà pertanto anche a indicare più generalmente i riti sacri del culto. Con il verbo hiereuein, che significa “consacrare”, il greco designa ugualmente il gesto dello sgozzamento compiuto dal sacrificatore, anche se termini più tecnici esistono, quale enagizein, usato in genere per sacrifici destinati a defunti e a potenze divine legate alla terra, o il più comune sphazein, “sgozzare”.
A partire da quest’ultimo, si genera una famiglia di termini che indicano la vittima, sphagion, l’atto sacrificale, sphage, o ancora il sacrificatore, sphageus, colui che materialmente uccide l’animale.
Tra gli agenti del sacrificio, accanto al generico hiereus, “sacerdote”, e ad altri termini da esso derivati, o all’omerico thyoskoos, occorre menzionare figure altrettanto importanti, come ad esempio gli “araldi”, kerykes, i quali possono assolvere svariati compiti nell’organizzazione del sacrificio: portare in processione le vittime sacrificali sino all’altare, pronunciare le preghiere e sgozzare le vittime. Malgrado l’impressione di staticità che la loro presentazione “enciclopedica” potrebbe generare, è ovvio che i culti e le modalità della loro organizzazione evolvono nella storia. Prova ne sia il fatto che a partire dal V secolo a.C. emerge nella città una nuova figura di sacrificatore, il mageiros: oltre a maneggiare, presso l’altare, il coltello sacrificale, machaira o sphagis, costui è incaricato della funzione di tagliare poi le carni della vittima in pezzi uguali, perché possano essere distribuiti ai partecipanti del rituale, e infine di cuocerle. Sacrificatore, macellaio e cuoco, il mageiros sarà poi abilitato a vendere la carne (probabilmente quella che gli toccava in pagamento dei suoi servizi) all’esterno del santuario in cui ha officiato. La commedia attica dal canto suo fa di questo personaggio un ciarliero che allunga facilmente la mano sulla carne che arrostisce sull’altare. I sacrifici offerti dalla città sono sempre presieduti da magistrati e sacerdoti, ma in mancanza di uno specifico incaricato, anche uno scriba pubblico ha l’autorità di officiare, in quanto appunto impiegato della città, come appare dal noto contratto cretese relativo allo scriba Spensinthios (Supplementum Epigraphicum Graecum, XXVII, 631; 550 a.C. ca.).
Quali elementi rendono un sacrificio riconoscibile come tale agli occhi di un uomo greco? Per rispondere alla domanda, possiamo prendere come guida Erodoto (484-424 a.C.) e considerare il suo modo di descrivere quello che appare come un sacrificio “mancato”. Nel contesto della presentazione succinta dei culti tradizionali, nomoi, che i Persiani rendono agli dèi (Storie, I, 131-132), lo storico ne propone infatti una descrizione in negativo, fornendo di conseguenza indicazioni illuminanti su quello che chiamiamo il culto in Grecia.
I Persiani infatti non conoscono gli elementi fondamentali dell’architettura religiosa greca (templi, altari, agalmata), quelli appunto che segnano lo spazio religioso permettendo il radicamento della comunità umana nel territorio e, di conseguenza, la comunicazione con gli dèi. Il loro sacrificio è definito attraverso una serie di “assenze”: manca il fuoco, quindi la forza di combustione che permette la cottura delle carni e lo sprigionamento degli odori e dei fumi destinati ad allietare l’olfatto degli dèi; manca la libagione, che generalmente viene versata sull’altare accompagnando le invocazioni della preghiera e che sancisce il legame con le potenze divine; manca la musica del doppio flauto, che crea un universo sonoro impermeabile a eventuali elementi esterni perturbatori; mancano i grani d’orzo, simbolo dell’attività agricola e dello stretto legame che la città intesse con il suo territorio; mancano inoltre le bende sacre, altro elemento visibile della cerimonia sacrificale, rivestito e quindi “incorporato” dai partecipanti al rito; last but not least, manca la commensalità, il mangiare insieme, elemento fondamentale del rituale sacrificale: la condivisione delle carni della vittima costituisce in effetti l’atto tramite il quale la comunità civica rinnova i legami tra i propri membri. Dall’assenza del fuoco alla mancata commensalità, tutto sembra indicare che i Persiani non abbiano conosciuto la benevolenza di Prometeo. Narra il poeta Esiodo, nelle Opere e i giorni (vv. 42-105) e nella Teogonia (vv. 535-616), come sia stato proprio il Titano Prometeo a rubare il fuoco, di nascosto da Zeus, per darlo ai mortali. Il furto del fuoco si inserisce in una sequenza mitica che comincia con l’inganno escogitato da Prometeo per favorire gli uomini nella spartizione delle parti della vittima e si conclude con la creazione di Pandora, il “bel male” destinato dagli dèi agli uomini. Cominciamo dall’inizio.
Nella piana di Mecone, all’epoca in cui uomini e dèi sembrano condividere la medesima tavola, un bue viene spartito da Prometeo che, astutamente, cela i pezzi di carne migliore sotto le budella dell’animale, mentre ne ricopre le ossa con la pelle e il grasso.
Tocca poi a Zeus scegliere quale delle due metà desidera. Il dio sovrano riconosce senza difficoltà l’astuzia di Prometeo, ma decide di rispondere all’inganno con l’inganno: scegliendo la parte apparentemente più allettante e lasciando la carne agli uomini, condanna questi ultimi alla condizione mortale, schiavi del cibo e vittime della fame. La separazione tra mondo divino e mondo umano diventa ormai irrevocabile, e il sacrificio, malgrado la commensalità che istituisce, ribadisce chiaramente tale separazione attraverso la divisione delle parti della vittima.
Nella comune prassi sacrificale infatti, dopo l’uccisione della vittima, il sacrificatore e i suoi assistenti squartano il cadavere su una tavola apposita, la trapeza, separando la carne (che sarà bollita e distribuita tra i membri della comunità sacrificale allargata, che è appunto la città) dalle viscere e dagli organi vitali (cuore, polmoni, fegato, reni) destinati ad essere cotti allo spiedo e consumati sul posto dalla cerchia ristretta dei sacrificanti; le parti invece riservate agli dèi, ossia le ossa, il grasso e eventualmente porzioni di carne, sono bruciate insieme a profumi sull’altare, il tutto cosparso con il vino delle libagioni.
Dopo la fine dell’età d’oro, dunque, gli uomini sono condannati da Zeus ad essere mangiatori di carne e a vivere dell’agricoltura, cioè dei frutti del lavoro della terra.
In tale quadro vanno appunto inseriti i racconti elaborati da Esiodo cui si faceva riferimento prima: Zeus infatti decide di punire la scaltrezza di Prometeo nascondendo il fuoco e i semi dei cereali sotto la terra, in altri termini occultando i mezzi di sussistenza necessari all’umanità.
Grazie a Prometeo che, con una nuova astuzia, riesce a portare un seme del fuoco divino sulla terra, i mortali potranno riattivare gli altari, sacrificare, cuocere il cibo. La cottura è la soglia culturale che distingue dunque gli uomini dagli animali, anch’essi mortali e mangiatori di cereali, ma non di carne cucinata. Di tale separazione il fuoco sacrificale diventa il simbolo quotidiano sugli altari fumanti, ben ancorati al suolo. In virtù del rapporto che esso stabilisce e rinnova continuamente tra la comunità degli uomini e quella degli dèi, attraverso un’articolazione con il territorio della città, il sacrificio è pertanto un atto cultuale che assolve la funzione di spia del buon funzionamento del rapporto tra le diverse sfere. Compito degli indovini e della mantica in generale è sorvegliare questo equilibrio.
Un mondo fatto di segni: le pratiche della divinazione
Nella tragedia sofoclea Antigone l’indovino Tiresia coglie, in cielo come sull’altare, i segni inquietanti di una grave contaminazione del suolo tebano, che implica la rottura dell’equilibrio e dell’ordine cosmico.
Esperto di ornitomanzia, Tiresia individua nel volo degli uccelli segni funesti di cui trova conferma poi proprio sull’altare, testimone di una sorta di “interruzione sacrificale”: il fuoco non prende, l’altare trasuda del grasso delle vittime. Ciò significa che gli dèi non accettano più la comunicazione con gli uomini ed è proprio l’indovino che può trovarne le ragioni. In Grecia il sapere del mantis, termine comune per designare l’indovino, è spesso un affare di famiglia (si pensi alle dinastie degli Iamidi o dei Melampodidi) ed è sollecitato in molteplici occasioni.
Funzionari della città o liberi professionisti itineranti, gli indovini sono consultati non solo da singoli individui ma anche dalle città, in quanto depositari di un sapere di origine divina che permette loro di interpretare i segni inviati dagli dèi e di accedere a una visione sinottica del presente, del passato e del futuro.
Come sottolinea il medico Alcmeone di Crotone (VI sec. a.C.), solo gli dèi possiedono una chiara conoscenza degli eventi, mentre agli uomini è dato solo congetturare. Vivendo nell’incapacità di decifrare i segni dell’invisibile, gli uomini possono soltanto rivolgersi agli oracoli e agli indovini, ma questo non tanto per conoscere il futuro quanto per prendere la decisione giusta prima di intraprendere un’azione importante: fondare una colonia, cominciare una guerra ecc. Oppure, sul piano più personale, quando sono in gioco questioni riguardanti la vita, la morte, un possibile matrimonio, la perdita di denaro, il commercio ecc.
La relazione privilegiata che gli indovini intrattengono con la sfera divina emerge dai termini che indicano l’atto di profetizzare, theiazein, letteralmente “divinizzare”, o quelli che ne sono gli agenti: theopropos, “colui che fa apparire gli dèi”, e theoskopos, “colui che scruta i segni divini (nelle viscere)”. Il sapere mantico, spesso frutto di un’iniziazione, passa inoltre attraverso una relazione con il mondo animale: Melampo è istruito nella tecnica divinatoria dai serpenti che gli purificano le orecchie, rendendo così i suoi sensi più acuti; in Sicilia una classe di indovini particolarmente apprezzata è quella dei Galeoti, il cui nome rimanda a un tipo di lucertola. A questo proposito, la lista di rettili, mammiferi e insetti capaci di fornire indicazioni di tipo mantico è lunga: il ragno, la cavalletta, la donnola, il ratto o ancora la talpa, sono esseri che vivono in stretto contatto con il suolo e che, come i serpenti, sono associati alla sfera ctonia. Il mondo sotterraneo degli inferi intrattiene una relazione costante con la divinazione, come attesta fra l’altro l’evocazione dei morti nell’ambito dei riti di negromanzia.
Nell’antichità, numerose sono le tecniche divinatorie: oltre all’ornitomanzia (cioè la lettura del volo degli uccelli o la decifrazione delle loro voci) e all’osservazione delle viscere, che abbiamo già menzionato, sono praticate l’oniromanzia, ovvero l’interpretazione dei sogni, l’astrologia (soprattutto a partire dall’epoca ellenistica), la lecanomanzia (pronostici ottenuti attraverso l’acqua di un bacino), la catoptromanzia (attraverso uno specchio) o ancora la cleromanzia, vasta categoria di pratiche divinatorie basate sulla lettura della disposizione di oggetti vari gettati sul suolo o su una tavola consacrata: sassolini, fave bianche o nere, ossicini, dadi, che venivano messi in relazione tra di loro tramite bacchette chiamate kleroi. Degna di nota è infine la cledonomanzia, tecnica che ricava presagi o risposte da parole pronunciate casualmente.
In Acaia, a Pharai, l’oracolo di Ermes Agoraios funziona proprio sulla base di questo principio: dopo aver posto una domanda al dio, ci si dirige fuori dalla piazza tappandosi le orecchie; una volta usciti, la prima parola pronunciata da un passante è considerata come la risposta dell’oracolo. Funzionano alla stessa maniera anche l’oracolo di Apollo Spodio a Tebe e quello dei Cledoni a Smirne. Secondo questa prospettiva, uno strepitio, uno starnuto, un evento sorprendente sono interpretati come segni divini e diventano un augurio. Gli dèi amano stupire i mortali.
La forma di divinazione greca più nota e rilevante, comunque, è costituita dalla consultazione degli oracoli. Oltre a quelli locali, legati talvolta a figure eroiche protettrici di determinati luoghi, esistono in Grecia oracoli panellenici particolarmente famosi, quali l’oracolo di Apollo a Delfi o quello di Zeus a Dodona, nell’Epiro, per menzionare soltanto i più noti. In alcuni santuari, come a Delfi, viene praticata una divinazione ispirata: il sapere mantico cioè non procede da una tecnica di osservazione di segni divini, ma è rappresentato come diretta emanazione della parola divina, cui una figura preposta al culto presta allora la propria voce. Ed è appunto a tale funzione che fa riferimento, da un punto di vista etimologico, il titolo di profeta/profetessa, “colui/colei che parla per”, insomma il portavoce.
A Delfi il soffio di Apollo penetra nel corpo della Pizia come se essa fosse uno strumento musicale, ma non si tratta di una semplice metafora, come tiene a sottolineare Plutarco. È dal suolo o dall’acqua di Delfi che esala il soffio divinatorio che attraversa il corpo della Pizia. Originaria di Delfi, la Pizia risiede all’interno del santuario per evitare qualsiasi genere di contaminazione e deve vivere nella più completa castità per tutta la durata della sua funzione, cioè a vita. Ciò non significa tuttavia che la sua singolare esperienza la costringa a vivere relegata in un tête-à-tête con Apollo.
L’attenzione dei moderni per la divinazione ispirata, spesso valorizzata a causa delle possibili analogie con l’esperienza profetica della tradizione giudeo-cristiana (che è comunque un’esperienza monoteista), non deve indurre a trascurare la fondamentale dimensione politeista della religione greca. Il santuario di Delfi non fa eccezione, ospitando infatti una pluralità di culti, e la preghiera d’invocazione recitata dalla Pizia all’inizio della tragedia eschilea Eumenidi lo evidenzia sul piano delle rappresentazioni religiose: la potenza oracolare è infatti presentata come la risultante di un insieme di potenze, la Terra, Themis, Febe, che tutte concorrono, insieme ad Apollo, a garantire l’accesso ad un sapere divino.
In epoca classica la fama dell’oracolo, che fa la ricchezza del santuario, causa un aumento dell’affluenza di clienti, inducendo a istituire una consultazione mensile anziché annuale. L’accesso al santuario è regolato da sacerdoti che impogono le abluzioni, riscuotono il prezzo d’ingresso e ordinano un primo sacrificio, prima che i fedeli siano ammessi all’interno del tempio per consultare la profetessa. Nell’adyton, la zona inaccessibile del tempio, si trova l’omphalos, una pietra considerata dai Greci come l’ombelico del mondo. È qui che la Pizia, seduta su un tripode, profetizza.
Se nella letteratura diventa proverbiale l’ambiguità del messaggio della Pizia, le iscrizioni che menzionano la consultazione dell’oracolo appaiono invece chiarissime: l’oracolo delfico convalida infatti numerose decisioni che riguardano la sfera della vita cultuale, oltre a quella della vita civica tout court, e i suoi responsi sono spesso menzionati in rapporto alla fondazione di colonie, di templi e di culti.
Un altro oracolo di fama internazionale è quello di Zeus a Dodona, il più antico, secondo alcune fonti.
Per quanto riguarda il personale dell’oracolo, mentre Omero menziona una classe sacerdotale chiamata Selloi, “gli interpreti che non si lavano mai i piedi”, Erodoto ricorda le Peliadi, tre sacerdotesse di cui è difficile determinare le mansioni rituali. Incertezze pesano anche sui metodi della divinazione praticata a Dodona. Un nuovo impulso alla conoscenza di questo centro oracolare sarà certamente offerto dallo studio delle centinaia di lamelle di piombo ritrovate dagli archeologi nei depositi del santuario: recando spesso il contenuto delle richieste dei fedeli e talvolta anche la risposta dell’oracolo, questi oggetti offrono un accesso privilegiato alla conoscenza della pratica della divinazione in Grecia e della ricerca di senso ad essa inerente.
La trasmissione delle regole cultuali
In assenza di un libro sacro, ci si potrebbe chiedere come si tramandassero in Grecia le regole cultuali. La domanda è sicuramente dettata dalla concezione monoteista della religione che prevede un corpus dottrinale custodito, tramandato e interpretato da un clero gerarchicamente organizzato.
Come si è visto però, il politeismo greco è una religione civica, basata sulle pratiche rituali, e i suoi agenti sono spesso magistrati o sacerdoti che restano in carica per un tempo determinato. La partecipazione della collettività ai vari momenti della vita cultuale e la possibilità che un cittadino qualunque, in mancanza di un personale appositamente designato, possa intervenire in quanto sacrificatore suggeriscono due elementi di risposta alla domanda che ci siamo posti: in primo luogo, la pratica cultuale non prevede necessariamente uno specifico percorso di formazione, come lascia intendere lo storico Senofonte (430-354 a.C. ca.), il quale si vanta di conoscere le tecniche divinatorie di osservazione delle viscere delle vittime sacrificali altrettanto bene che un indovino (Anabasi, V, 6, 29); in secondo luogo, la trasmissione utilizza il canale dell’oralità. I due aspetti sono strettamente connessi nel caso della performance dei cori di danzatori che, in un contesto cultuale, cantano quelli che noi moderni chiamiamo i racconti mitici. Prima di entrare nelle raccolte dei mitografi, i “miti” greci sono infatti cantati e narrati in contesti cultuali.
Se, a partire dall’epoca ellenistica, si assiste alla produzione di una letteratura liturgica, come ad esempio il trattato di Teofrasto Sulla pietà, tali opere comunque non rivendicano a sé una particolare autorità nel panorama civico e religioso. Semplicemente non possono farlo, dal momento che l’autorità religiosa è detenuta dalla città. La trasmissione orale delle regole e delle prescrizioni rituali può essere affiancata dalle iscrizioni di norme, nomoi, su stele di pietra, affisse pubblicamente nello spazio civico e religioso.
Erette per lo più nei santuari o nell’agorà, tali stele non svolgono necessariamente la funzione di registri liturgici a cielo aperto, né a tal proposito va trascurato il valore simbolico della scrittura: la città fissa per iscritto delle norme non tanto per poterle consultare quanto per fissarne l’autorità.
Fonti preziose per la conoscenza della vita cultuale, la formulazione di questi regolamenti potrebbe dunque obbedire a strategie di composizione che non mirano tanto a “rispecchiare” la realtà, ma piuttosto a evidenziarne aspetti ritenuti particolarmente pertinenti.
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Il modello rifiutato: re e tiranni
Platone
Aristotele
La figura del filosofo nell’immaginario narrativo
Il “linguaggio” del politeismo
Gli dèi e la fabbricazione dell’umano
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L’invenzione della magia in Grecia
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Zone di frontiera: i riti di passaggio all’età adulta
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